venerdì 16 settembre 2016

La danza sibillina. Solstizio d'inverno

La danza sibillina. SOLSTIZIO D’INVERNO

I preparativi erano la parte più frenetica, non si sapeva mai come sarebbe stato possibile, c’era sempre qualcosa che non andava come previsto ma alla fine tutto era pronto, le lanterne si accendevano in un insieme spettacolare, sembrava che il sole si destasse placidamente dal sonno e finalmente si ricordasse di tornare a scaldare i campi coperti di acqua trasformata in gelo dalla fata dell’inverno.
Il parroco diceva che non si doveva credere nelle fate, negli gnomi e negli altri abitanti del bosco, gli dicevano di sì ma non gli badavano, ne sapeva tante, lui, ma a far la legna non c’era mai andato e non s’era mai neanche inoltrato tra i fitti rami per cercare i funghi con cui Calduc faceva quella minestra così densa e profumata che soltanto a pensarci veniva l’acquolina in bocca e l’umidità delle ossa svaniva d’incanto. Non era mai stato nemmeno nella regione del grande lago, abitato dalla Bianca fata e dalla Sibilla che viveva ben celata da occhi estranei. Gli abitanti del borgo la conoscevano ma sapevano che soltanto tramite gli abitanti del bosco potevano entrare in contatto con lei. Quando ne avevano bisogno per un avvenimento importante o una malattia che sembrava incurabile, stando ben attenti a non farsi vedere dal parroco ché altrimenti chissà che avrebbe detto, Brizeida o Azalais, rispettivamente la levatrice e la nutrice dei signori del castello, si coprivano bene e, quando nessuno passava per le strade si allontanavano con un cestino intrecciato con le loro mani pieno di nastri, bacche e prelibatezze preparate in gran segreto da Calduc.
A volte i loro cestini avevano all’interno anche qualche utensile preparato dal maniscalco Daude, uno scialle di lana di pecora colorata con l’elicriso, calzari e altre cosette che potevano esserle utili nel bosco. Nessuno sapeva dove abitasse, a dire il vero non ne avevano la minima idea ma trovavano sempre un modo per incontrarla.
La quercia era decorata di brina luminosa, gli abeti adornati con coroncine intrecciate, e nel borgo ferveva veloce l’attività per utilizzare quelle poche ore del giorno.
Bugie decorate con quello che si trovava nel bosco, oggetti semplici che esprimevano tutta la forza di millenni di bellezza. Tante cose s’erano dimenticate dopo che erano arrivati i barbari però il senso del bello era rimasto nella memoria visiva e sensoriale delle popolazioni che abitavano la valle. La voglia di aggiustare, sistemare, abbellire anche quel niente che a volte costituiva il tutto di una vita era un modo per gioire ed essere felici e cuore lieto il Ciel l’aiuta.
Prima del solstizio non ci si poteva proprio dimenticare di portare qualcosa di buono alla Sibilla per propiziare il favore della Fata Bianca e della Fata del Lago con cui lei era certamente in buoni rapporti. Soprattutto perché aveva più volte fatto capire agli abitanti del borgo che prima di talune ricorrenze le faceva piacere ricevere qualche piccolo dono. Brizeida e Azalais avevano pronti i loro cestini e le loro cappe, certe che sarebbero riuscite a sgattaiolare via indisturbate e che la loro assenza non sarebbe stata notata da nessuno in quel trambusto prima della festa per il passaggio dall’autunno all’inverno. Avevano preparato uno scialle con splendidi fili che parevano d’argento mescolati alla lana celestina e bianca, l’avevano ricamato con semplici decori all’uncinetto ispirandosi alle foglie e ai frutti dell’estate e le avevano confezionato un paio di calzari di panno impermeabilizzato con cera d’api e resina di pino nero. Calduc aveva preparato un pan dolce con rosa canina, uva passita, miele di ginestra, farina di castagne, fiori di lavanda e noci che soltanto a guardarla faceva venire una gran voglia di assaggiarne anche soltanto un pezzettino. Un gesto e un biscotto appena sfornato sarebbero bastati al piccolo Cossezen, impegnato nell’arduo compito di dare un aiuto a tutte e due nelle faccende più disparate, per richiamarle. Aveva la missione di mantenere sul loro allontanamento il più assoluto riserbo e al loro ritorno lo aspettava una bella salsiccia cotta apposta per lui. Una vera e propria leccornia che non si sarebbe lasciato sfuggire per niente al mondo. Quando tutti gli abitanti del borgo erano per le strade o impegnatissimi nel sistemare tutto ciò che c’era da preparare e quando i festeggiamenti sembravano allontanarsi perché non si sarebbe mai e poi mai fatto in tempo a mettere tutto a posto e a sistemare tutto a puntino Cossezen ricevette il compito più importante di tutto l’anno, che portò a compimento con velocità, maestria e destrezza degna di un felino. In men che non si dica di Brizeida e Azalais non si ebbe più traccia, ma d’altronde a cercarle in quel trambusto sarebbe stata impresa più che difficile, impossibile. Il piccolo garzone con la chioma riccioluta e gli occhi vispi capì che se anche lui fosse sparito in quel preciso istante nessuno si sarebbe accorto della sua assenza e soprattutto nessuno si sarebbe preoccupato se non l’avesse trovato. E così ecco che fece qualcosa di veramente inaspettato e di severissimamente proibito, seguì nel bosco le due donne, col rischio di perdersi e non ritrovare più la via di casa. Mentre si addentrava nella radura, tra i sentieri che credeva di conoscere a menadito tutto gli apparve arcano, remoto. Una leggera nebbiolina rendeva oscuri i tronchi degli alberi di cui conosceva i più nascosti anfratti per esservisi rintanato quando non voleva che le incombenze più noiose lo scovassero. La luce della luna faceva fatica ad attraversare i folti rami e gli uccelli notturni pareva lo deridessero col loro canto stridulo. I suoi piedi abituati a non rompere neanche il più piccolo ramoscello si muovevano felpati, il battito del suo cuore scandiva veloce un ritmo forsennato nella sua testa. Le tempie pulsavano come se tanti picchi stessero battendo i loro becchi contro il cranio, nella gola sentiva l’arsura che gli bruciava le corde vocali cosicché non poteva certo essere stato prodotto dalla sua ugola quel canto soave e lieto che aveva indistintamente udito.
Guidato da uno scoiattolo si raggomitolò nel ramo più nascosto dell’abete che era proprio lì e si mise a guardare senza credere ai suoi occhi.
Brizeida e Azalais, erano loro avrebbe potuto giurarlo, improvvisamente ringiovanite tanto da poter essere confuse facilmente con due vergini del castello, tolti i cupi e caldi mantelli svelavano corpi sinuosi velati da stoffe policrome finemente decorate e intarsiate con le gemme più preziose della Terra, i loro calzari popolani erano raffinatissime scarpette della seta più pura d’Oriente ricamata con fili d’argento e perle di fiume, i loro capelli erano adorni di fiori di una tale freschezza e carnosità che non aveva mai veduto prima. Un inebriante profumo di essenze, muschi, ambre ed erbe aromatiche si spandeva nell’aere. Il pandolce di Calduc era al centro di un cerchio, accanto ad un fuoco azzurro e giallo, composto da un numero imprecisato di donne, fate, animali e abitanti del bosco. Molti di loro avevano strani strumenti che emettevano suoni mai ascoltati prima, melodie complesse in cui echeggiavano sonorità simili al richiamo delle campanelle sistemate a bella posta intorno alle finestre e accanto agli usci per scacciare via gli spiriti malvagi e propiziarsi quelli benevoli, una linea densa di armonici sottesa al canto degli strumenti a corda o a fiato.
meravigliosi canti si levarono verso la luna e il tempo parve fermarsi all’improvviso.
Cossezen si sforzava di guardare più attentamente ma non scorgeva altro che il lento frusciare delle vesti e la delicatezza dei movimenti veloci sugli strumenti. I suoni lo attiravano come canto di sirene, doveva stare attento  a non sporgersi troppo per non cadere e rovinare al suolo fragorosamente tra le risate degli uccelli notturni e il disappunto degli abitanti del bosco. Che figura ci avrebbe fatto se si fossero accorti di lui, intruso nell’abbraccio legnoso dell’abete che gli aveva offerto un così protettivo rifugio? Pessima e lo avrebbero preso in giro per anni in tutta la valle, senza contare che rischiava anche di scatenare lo sfavore della Fata del Lago e della Bianca Fata, per non menzionare la Sibilla che si sarebbe poi rifiutata di raccogliere le richieste degli abitanti del borgo mettendo a repentaglio l’esistenza stessa del paesello.
La musica si fece sempre più coinvolgente, il suono sempre più forte e d’un tratto una donna bellissima, forse la Sibilla?, con lunghi capelli neri mossi, il corpo esile ma non di magrezza eccessiva, ridondante di forze e colmo di passione iniziò a muovere passi studiati, precisi e scanditi da un ritmo rituale.
Tutte le persone che erano attorno al fuoco giallo e azzurro si presero per mano, coloro che avevano gli strumenti formarono un altro cerchio, più grande e più aperto, i due cerchi cominciarono a muoversi in direzioni opposte e contrarie, fermandosi dopo due passi per un passo indietro in sincrono perfetto.
La donna con i capelli neri si tolse il lungo scialle frangiato che le copriva le spalle con un gesto intrecciato delle braccia a creare una fiamma vivace. Cominciò a muovere lo scialle e questo si trasformò in ali che la cingevano e abbracciavano il focolare e i cerchi in movimento. Cossezen non riusciva a chiudere la bocca dalla meraviglia, gli occhi spalancati per non perdere neanche un dettaglio di quello spettacolo tanto fantastico che neanche alla corte dell’imperatore s’era mai veduta cosa altrettanto mirabile.
Il ritmo regolare dei passi era scandito da tutti gli strumenti che uno alla volta si staccavano dal gruppo per creare musiche celestiali e sfrenate che si compenetravano al canto arcano e favoloso delle voci e delle onde di armonici.
Le ali della donna avevano avvolto i cerchi, si erano posate a proteggere il gruppo svelando un corpo sodo e morbido adornato di una veste arabescata col blu della notte più fonda che emanava riflessi di stelle e pianeti. I piedi si stendevano lunghi scoprendo colli e caviglie flessuose come giunchi sottilissimi mossi dal vento, le gambe snelle si alzavano certe e nette muovendo l’ampia gonna nella luce della fiamma, complice la nebbiolina che sfocava i contorni, trasformandola in una enorme nuvola con forma di fiore o farfalla, per un attimo Cossezen temette fosse diventata fuoco ella stessa tanto verosimile era il movimento della nuvola emanata dal ventre stesso della donna. Lei sciolse i lunghi capelli dal nastro avvolto in una folta treccia imperlata e si lanciò in un ballo ch’egli non aveva né avrebbe mai più rivisto. I piedi liberi dai calzari si spostavano esperti seguendo una coreografia magica conosciuta soltanto dagli abitanti del bosco e dalle fate. All’improvviso tutto si trasforma in bellezza, libertà, assolutezza.
“Cossezen!”
Lo sguardo morbido e dolce di Brizeida e Azalais accanto a lui gli fanno temere d’essere stato scoperto, si guarda intorno smarrito e con sua somma sorpresa riconosce gli oggetti quotidiani, la stufa su cui borbotta una pentola di fagioli, il panno morbido e resistente delle gonne contadine, il gatto che fa le fusa e c’è anche un pezzetto del pandolce di Calduc.
Cossezen non capisce, si sveglia stordito nel dubbio di essersi ridestato da un sogno mai sognato.


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