La
danza sibillina. SOLSTIZIO D’INVERNO
I preparativi erano la parte più
frenetica, non si sapeva mai come sarebbe stato possibile, c’era sempre
qualcosa che non andava come previsto ma alla fine tutto era pronto, le
lanterne si accendevano in un insieme spettacolare, sembrava che il sole si
destasse placidamente dal sonno e finalmente si ricordasse di tornare a
scaldare i campi coperti di acqua trasformata in gelo dalla fata dell’inverno.
Il parroco diceva che non si doveva
credere nelle fate, negli gnomi e negli altri abitanti del bosco, gli dicevano
di sì ma non gli badavano, ne sapeva tante, lui, ma a far la legna non c’era
mai andato e non s’era mai neanche inoltrato tra i fitti rami per cercare i
funghi con cui Calduc faceva quella minestra così densa e profumata che soltanto
a pensarci veniva l’acquolina in bocca e l’umidità delle ossa svaniva d’incanto.
Non era mai stato nemmeno nella regione del grande lago, abitato dalla Bianca
fata e dalla Sibilla che viveva ben celata da occhi estranei. Gli abitanti del
borgo la conoscevano ma sapevano che soltanto tramite gli abitanti del bosco
potevano entrare in contatto con lei. Quando ne avevano bisogno per un
avvenimento importante o una malattia che sembrava incurabile, stando ben
attenti a non farsi vedere dal parroco ché altrimenti chissà che avrebbe detto,
Brizeida o Azalais, rispettivamente la levatrice e la nutrice dei signori del
castello, si coprivano bene e, quando nessuno passava per le strade si allontanavano
con un cestino intrecciato con le loro mani pieno di nastri, bacche e
prelibatezze preparate in gran segreto da Calduc.
A volte i loro cestini avevano all’interno
anche qualche utensile preparato dal maniscalco Daude, uno scialle di lana di
pecora colorata con l’elicriso, calzari e altre cosette che potevano esserle
utili nel bosco. Nessuno sapeva dove abitasse, a dire il vero non ne avevano la
minima idea ma trovavano sempre un modo per incontrarla.
La quercia era decorata di brina
luminosa, gli abeti adornati con coroncine intrecciate, e nel borgo ferveva
veloce l’attività per utilizzare quelle poche ore del giorno.
Bugie decorate con quello che si trovava
nel bosco, oggetti semplici che esprimevano tutta la forza di millenni di
bellezza. Tante cose s’erano dimenticate dopo che erano arrivati i barbari però
il senso del bello era rimasto nella memoria visiva e sensoriale delle
popolazioni che abitavano la valle. La voglia di aggiustare, sistemare,
abbellire anche quel niente che a volte costituiva il tutto di una vita era un
modo per gioire ed essere felici e cuore lieto il Ciel l’aiuta.
Prima del solstizio non ci si poteva
proprio dimenticare di portare qualcosa di buono alla Sibilla per propiziare il
favore della Fata Bianca e della Fata del Lago con cui lei era certamente in
buoni rapporti. Soprattutto perché aveva più volte fatto capire agli abitanti
del borgo che prima di talune ricorrenze le faceva piacere ricevere qualche
piccolo dono. Brizeida e Azalais avevano pronti i loro cestini e le loro cappe,
certe che sarebbero riuscite a sgattaiolare via indisturbate e che la loro
assenza non sarebbe stata notata da nessuno in quel trambusto prima della festa
per il passaggio dall’autunno all’inverno. Avevano preparato uno scialle con
splendidi fili che parevano d’argento mescolati alla lana celestina e bianca,
l’avevano ricamato con semplici decori all’uncinetto ispirandosi alle foglie e
ai frutti dell’estate e le avevano confezionato un paio di calzari di panno
impermeabilizzato con cera d’api e resina di pino nero. Calduc aveva preparato
un pan dolce con rosa canina, uva passita, miele di ginestra, farina di
castagne, fiori di lavanda e noci che soltanto a guardarla faceva venire una
gran voglia di assaggiarne anche soltanto un pezzettino. Un gesto e un biscotto
appena sfornato sarebbero bastati al piccolo Cossezen, impegnato nell’arduo
compito di dare un aiuto a tutte e due nelle faccende più disparate, per
richiamarle. Aveva la missione di mantenere sul loro allontanamento il più
assoluto riserbo e al loro ritorno lo aspettava una bella salsiccia cotta
apposta per lui. Una vera e propria leccornia che non si sarebbe lasciato
sfuggire per niente al mondo. Quando tutti gli abitanti del borgo erano per le
strade o impegnatissimi nel sistemare tutto ciò che c’era da preparare e quando
i festeggiamenti sembravano allontanarsi perché non si sarebbe mai e poi mai
fatto in tempo a mettere tutto a posto e a sistemare tutto a puntino Cossezen
ricevette il compito più importante di tutto l’anno, che portò a compimento con
velocità, maestria e destrezza degna di un felino. In men che non si dica di
Brizeida e Azalais non si ebbe più traccia, ma d’altronde a cercarle in quel
trambusto sarebbe stata impresa più che difficile, impossibile. Il piccolo
garzone con la chioma riccioluta e gli occhi vispi capì che se anche lui fosse
sparito in quel preciso istante nessuno si sarebbe accorto della sua assenza e
soprattutto nessuno si sarebbe preoccupato se non l’avesse trovato. E così ecco
che fece qualcosa di veramente inaspettato e di severissimamente proibito,
seguì nel bosco le due donne, col rischio di perdersi e non ritrovare più la
via di casa. Mentre si addentrava nella radura, tra i sentieri che credeva di
conoscere a menadito tutto gli apparve arcano, remoto. Una leggera nebbiolina rendeva
oscuri i tronchi degli alberi di cui conosceva i più nascosti anfratti per
esservisi rintanato quando non voleva che le incombenze più noiose lo
scovassero. La luce della luna faceva fatica ad attraversare i folti rami e gli
uccelli notturni pareva lo deridessero col loro canto stridulo. I suoi piedi
abituati a non rompere neanche il più piccolo ramoscello si muovevano felpati,
il battito del suo cuore scandiva veloce un ritmo forsennato nella sua testa.
Le tempie pulsavano come se tanti picchi stessero battendo i loro becchi contro
il cranio, nella gola sentiva l’arsura che gli bruciava le corde vocali
cosicché non poteva certo essere stato prodotto dalla sua ugola quel canto
soave e lieto che aveva indistintamente udito.
Guidato da uno scoiattolo si raggomitolò
nel ramo più nascosto dell’abete che era proprio lì e si mise a guardare senza
credere ai suoi occhi.
Brizeida e Azalais, erano loro avrebbe
potuto giurarlo, improvvisamente ringiovanite tanto da poter essere confuse
facilmente con due vergini del castello, tolti i cupi e caldi mantelli
svelavano corpi sinuosi velati da stoffe policrome finemente decorate e
intarsiate con le gemme più preziose della Terra, i loro calzari popolani erano
raffinatissime scarpette della seta più pura d’Oriente ricamata con fili
d’argento e perle di fiume, i loro capelli erano adorni di fiori di una tale
freschezza e carnosità che non aveva mai veduto prima. Un inebriante profumo di
essenze, muschi, ambre ed erbe aromatiche si spandeva nell’aere. Il pandolce di
Calduc era al centro di un cerchio, accanto ad un fuoco azzurro e giallo,
composto da un numero imprecisato di donne, fate, animali e abitanti del bosco.
Molti di loro avevano strani strumenti che emettevano suoni mai ascoltati
prima, melodie complesse in cui echeggiavano sonorità simili al richiamo delle
campanelle sistemate a bella posta intorno alle finestre e accanto agli usci
per scacciare via gli spiriti malvagi e propiziarsi quelli benevoli, una linea
densa di armonici sottesa al canto degli strumenti a corda o a fiato.
meravigliosi canti si levarono verso la
luna e il tempo parve fermarsi all’improvviso.
Cossezen si sforzava di guardare più
attentamente ma non scorgeva altro che il lento frusciare delle vesti e la
delicatezza dei movimenti veloci sugli strumenti. I suoni lo attiravano come
canto di sirene, doveva stare attento a
non sporgersi troppo per non cadere e rovinare al suolo fragorosamente tra le
risate degli uccelli notturni e il disappunto degli abitanti del bosco. Che
figura ci avrebbe fatto se si fossero accorti di lui, intruso nell’abbraccio
legnoso dell’abete che gli aveva offerto un così protettivo rifugio? Pessima e
lo avrebbero preso in giro per anni in tutta la valle, senza contare che
rischiava anche di scatenare lo sfavore della Fata del Lago e della Bianca
Fata, per non menzionare la Sibilla che si sarebbe poi rifiutata di raccogliere
le richieste degli abitanti del borgo mettendo a repentaglio l’esistenza stessa
del paesello.
La musica si fece sempre più
coinvolgente, il suono sempre più forte e d’un tratto una donna bellissima,
forse la Sibilla?, con lunghi capelli neri mossi, il corpo esile ma non di
magrezza eccessiva, ridondante di forze e colmo di passione iniziò a muovere
passi studiati, precisi e scanditi da un ritmo rituale.
Tutte le persone che erano attorno al
fuoco giallo e azzurro si presero per mano, coloro che avevano gli strumenti
formarono un altro cerchio, più grande e più aperto, i due cerchi cominciarono a
muoversi in direzioni opposte e contrarie, fermandosi dopo due passi per un
passo indietro in sincrono perfetto.
La donna con i capelli neri si tolse il
lungo scialle frangiato che le copriva le spalle con un gesto intrecciato delle
braccia a creare una fiamma vivace. Cominciò a muovere lo scialle e questo si
trasformò in ali che la cingevano e abbracciavano il focolare e i cerchi in
movimento. Cossezen non riusciva a chiudere la bocca dalla meraviglia, gli
occhi spalancati per non perdere neanche un dettaglio di quello spettacolo
tanto fantastico che neanche alla corte dell’imperatore s’era mai veduta cosa
altrettanto mirabile.
Il ritmo regolare dei passi era scandito
da tutti gli strumenti che uno alla volta si staccavano dal gruppo per creare
musiche celestiali e sfrenate che si compenetravano al canto arcano e favoloso
delle voci e delle onde di armonici.
Le ali della donna avevano avvolto i
cerchi, si erano posate a proteggere il gruppo svelando un corpo sodo e morbido
adornato di una veste arabescata col blu della notte più fonda che emanava
riflessi di stelle e pianeti. I piedi si stendevano lunghi scoprendo colli e
caviglie flessuose come giunchi sottilissimi mossi dal vento, le gambe snelle
si alzavano certe e nette muovendo l’ampia gonna nella luce della fiamma,
complice la nebbiolina che sfocava i contorni, trasformandola in una enorme
nuvola con forma di fiore o farfalla, per un attimo Cossezen temette fosse
diventata fuoco ella stessa tanto verosimile era il movimento della nuvola
emanata dal ventre stesso della donna. Lei sciolse i lunghi capelli dal nastro avvolto
in una folta treccia imperlata e si lanciò in un ballo ch’egli non aveva né
avrebbe mai più rivisto. I piedi liberi dai calzari si spostavano esperti
seguendo una coreografia magica conosciuta soltanto dagli abitanti del bosco e dalle
fate. All’improvviso tutto si trasforma in bellezza, libertà, assolutezza.
“Cossezen!”
Lo sguardo morbido e dolce di Brizeida e
Azalais accanto a lui gli fanno temere d’essere stato scoperto, si guarda intorno
smarrito e con sua somma sorpresa riconosce gli oggetti quotidiani, la stufa su
cui borbotta una pentola di fagioli, il panno morbido e resistente delle gonne
contadine, il gatto che fa le fusa e c’è anche un pezzetto del pandolce di
Calduc.
Cossezen non capisce, si sveglia
stordito nel dubbio di essersi ridestato da un sogno mai sognato.
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