Il Chiacchierino
1.
Muriel aveva appena finito di dipingere
l’insegna con il nome della bottega ed era piuttosto soddisfatta. La grafia era
perfetta, i colori anche. L’effetto esattamente quello che voleva ottenere. “Il
Chiacchierino” non era un negozio in cui entrare per acquistare un prodotto
industriale bensì un luogo di incontro dove parlare, raccontarsi, bere una
tazza di tisana e magari un goccetto di rosolio.
La primavera era ormai alle porte,
mimosa e mandorlo avevano fiorito contemporaneamente nonostante il vento freddo
che proveniva dagli Appennini e su peschi, albicocchi e ciliegi già spuntavano
le gemme. I giorni della merla erano appena trascorsi e quelli della Candelora
parevano assolati, senza pioggia o vento.
“Quando vien la Candelora, dall’inverno
semo fora; ma se piove o tira vento, de l’inverno semo dentro”.
“Già”, rispose annuendo a sé stessa.
A volte le sembrava di sentire la voce
di Nonna Filomena, le rispondeva sempre, quando era da sola lasciava che il
suono riempisse le parole.
“Il sole è piuttosto caldo oggi
nonostante l’aria di neve che arriva dagli Appennini”
“Già Già”, mormorò dando un altro
sguardo soddisfatto all’insegna
“D’altronde Monte Gennaro non ha messo
cappello quindi non c’è certo da prendere l’ombrello”
Nonna Filomena era nata, cresciuta e
pasciuta a Stazzano, non s’era mai spostata dal paese e da lì si vedeva il
Soratte, non Monte Gennaro.
Muriel distolse lo sguardo dall’oggetto
della sua contemplazione, sbatté le palpebre e roteò lievemente gli occhi verso
il punto da cui proveniva la voce di Nonna Filomena, allontanandosi dai suoi
pensieri.
2.
“Il Chiacchierino è proprio un bel nome,
fa pensare al tempo che si trascorre ciarlando mentre si intrecciano i fili del
pizzo vittoriano, che fa tanto suffragette in sordina. E poi è così moderno,
arts and crafts, il nuovo che trae ispirazione dalla tradizione, una
continuità, una progressione che si sviluppa mettendo un punto e poi un altro.”
Una marea di parole veloci, nette,
pronunciate con accuratezza si era materializzata nella calda giornata
invernale sotto un cappello che definire bizzarro sarebbe ingiusto e poco
rispettoso della quantità di ore di lavorazione che erano state evidentemente
necessarie per confezionarlo. Non era particolarmente grande, più che altro era
una giustapposizione di elementi artistici, una specie di compendio di
artigianato di squisita fattura. Le scarpe intonate al copricapo erano
posizionate accanto ad una valigia, anch’essa personalizzata nei minimi
dettagli, e ad un cappotto di raro broccato in velluto di seta finissima.
Eccentricamente colorato senza neanche una nota, per quanto sgargiante e
chiassosa, stonata. Lunghi capelli raccolti in una coda lenta da un nastro
annodato in un fiocco complesso di macramè, calze sconclusionate, blu con
paperelle gialle, un’allegria inopportuna di primo mattino che trapelava da
ogni poro.
Non era Nonna Filomena.
“Forse si starà chiedendo il mio nome”
“Già” rispose cupa Muriel che non aveva
ancora fatto colazione e non era pertanto incline ad alcuna forma di
conversazione che oltrepassasse il limite della semplicità più lineare, un
concetto che sembrava particolarmente alieno alla voce gaudente, ma aveva
apprezzato molto il lei anziché il tu che sembra essere ormai una consuetudine
anche tra estranei. Nonna Filomena si sarebbe offesa se un ‘pischello’ le
avesse rivolto la parola senza conoscerla utilizzando il tu, non si sarebbe
sentita obsoleta come avrebbero voluto farle credere con quel tu tanto amicale
quanto snervante. Piuttosto, avrebbe risposto con una delle sue solite frasi
che variavano da ‘di chi sei figlio?’, per comprendere in quale ramo della
complessa ed articolata serie di soprannomi, famiglie e amicizie
transgenerazionali era ascrivibile l’interlocutore, a ‘sei forestiero?’ quando
era evidente che le regole della buona creanza erano state violate in modo tale
da consentire di pensare bene soltanto nel caso di una presunta estraneità all’universo
finora conosciuto. Presumibilmente con una provenienza morale, oltre che
familiare, da collocare ben oltre il confine delimitato dall’hic sunt leones
delle antiche carte geografiche. Un posto in cui il tu poteva essere
considerato una forma di educazione e il lei di maleducazione. Siccome a
pensare male si fa peccato e Nonna Filomena aveva forse qualche vizio ma
peccati non ne commetteva se non per sbadataggine e tipicamente non era una
persona sbadata, lei lasciava sempre un piccolo adito, uno spiraglio di
possibilità mentale verso chicchessia salvo poi dimostrazione comprovata del
contrario. Il fatto che la prova scientifica delle presunte illazioni fossero
le chiacchiere del paese è un dettaglio del tutto irrilevante.
Più che interrogarsi sul nome della voce
che si era interposta tra lei e la contemplazione dell’insegna, Muriel si stava
domandando perché indossasse calzini blu con paperelle gialle ma questo non lo
disse.
“Mi chiamo Renato ma ormai sono abituato
al nomignolo René”, così facendo stese una mano guantata in pelle e pizzo
chiacchierino con bottoni di opale.
“Piacere, io sono Muriel”
Ci fu un attimo di silenzio attraversato
da un refolo di vento gelido. Una merla grigia si posò sul ramo ancora spoglio
della magnolia, lei si era sempre chiesta se la storia della merla e del camino
fosse vera.
3.
“La leggenda narra di una merla che
veniva maltrattata da Gennaio tutte le volte che usciva a procurarsi il cibo.
La merla decise dunque di fare provviste, rintanarsi in casa e non uscire per
ventotto giorni, che era pressappoco quanto durava il primo mese dell’anno
prima della riforma del Calendario Gregoriano. Finito il mese lei uscì e fece
l’errore, come i Sanniti coi Romani alle Forche Caudine, di motteggiarlo.
Gennaio si vendicò scatenando la sua ira: rubò tre giorni a Febbraio e sputò
freddo e gelo tutto intorno così la merla dovette rintanarsi in un camino e il
suo piumaggio bianchissimo divenne tutto grigio scuro che, a ben guardare,
potrebbe anche essere più elegante del nero lucido col becco giallo. Non so se
questa leggenda abbia un fondo di verità ma a me piace molto”.
Parlava velocemente scandendo tutte le
parole come facevano quelli della radio prima che il tu divenisse un modo
normale di dare del lei agli sconosciuti.
Sentire una buona dizione era gradevole,
le pareva una forma di educazione nei confronti dell’italiano: le lingue
impiegano tanti anni, secoli e talvolta millenni per esprimersi e non c’è
motivo di bistrattarle.
A Muriel piaceva indovinare come erano arredate
le abitazioni delle persone con cui parlava, non soltanto quando per lavoro
doveva renderle più adatte alle loro effettive caratteristiche o alle richieste
della clientela.
Così tanto spesso la gente vive nelle
case senza neanche accorgersene, distrattamente personalizza qualche angolo o
qualche dettaglio ma niente di più. Ci sono mobili che si adattano alle persone
e persone che si adattano ai mobili. Spazi in cui c’è un dialogo costante e
altri in cui la permanenza fisica è un dettaglio in uno schizzo di qualche
architetto con idee considerate modaiole, una di quelle sagome che ben si
intonano con il programma di disegno tecnico e progettazione, con le immagini
viste in un altrove asettico e immaginario.
Muriel detestava entrare in quelle case.
Doveva respirare profondamente,
praticare le esercitazioni mentali imparate al corso di yoga, sfoderare un
sorriso patinato e cercare di fare esattamente il contrario di quello che
avrebbe voluto. Ascoltava i clienti e capiva che a loro sarebbe piaciuto l’opposto
di quello che ne esprimeva l’essenza, un po’ come guardare il negativo di una
fotografia, quando ancora si stampavano nelle camere oscure e bisognava fare
attenzione alla luce, il rovescio di una cucitura grossolana senza neanche la
copertura di una fodera a celarne l’impudica rozzezza. In qualche modo erano
persone che odiavano sé stesse, profondamente insicure, sempre alla ricerca di
conferme nel loro essere al centro dell’attenzione mondana.
Provò ad immaginare la casa di René, non
la visualizzò, ne percepì l’odore, qualcosa che profumava di fiori freschi in
un bel vaso di ceramica decorato a mano. La sensazione le piacque molto.
4.
Muriel lo guardò. René non parlò.
La mattina scorreva placidamente.
Non c’erano nubi all’orizzonte.
René aspettò che Muriel avesse finito di
controllare la qualità delle finiture che sembravano, ed erano, di ottima fattura.
“Il pizzo fiammingo è poco conosciuto da
queste parti”
“Molti lo confondono col chiacchierino
in effetti. Sono contento che lei, Muriel, l’abbia notato”
“Già. Beh, qui ho finito per il momento,
se vuole possiamo fare uno spuntino: io non ho ancora fatto colazione”.
“Mi sembra un’ottima idea, c’è un bar da
queste parti?”
“Sì, certo”
A pochi passi c’era una rosticceria
pasticceria bar, uno di quei locali in cui si fa di tutto un po’, senza infamia
e senza lode. L’arredamento era abbastanza anonimo da dare la sensazione di déjà-vu
ma non tanto da sembrare il bar di una stazione affollata. I prodotti erano
fintamente artigianali, preparati con i semilavorati industriali, senza una
vera e propria ricerca di ingredienti o un’attenzione particolare a qualcosa
che non fosse una mediocrità leggermente superiore ai preconfezionati. Niente
faceva presagire qualcosa di interessante.
René si adeguò all’ambiente e sprigionò
un’allure da personaggio famoso, enigmatico. Chiunque avrebbe potuto credere
che la sua eccentricità fosse modaiola e frutto di un accurato studio
d’immagine e molti avrebbero potuto pensare che fosse un personaggio famoso di
cui non ricordavano il nome ma che certamente avrebbe costituito materiale di
conversazione pettegola per almeno una settimana, se non di più. Muriel sorrise
di sbieco, involontariamente.
5.
Ordinarono caffellatte e paste.
“Non facevo una colazione dolce da
parecchio tempo, è sempre gradevole rimpatriare”, esordì René lasciando
trapelare che non aveva intenzione di proseguire la conversazione prima di aver
finito di gustare il caffellatte. Il sapore cgli evocava la nostalgia del
presente tipica di quando si torna da un lungo viaggio.
Muriel era piuttosto contenta di averlo
incontrato e di non dover parlare prima di aver ingurgitato una quantità di
nutrienti necessaria a poter completare una frase senza perdersi in pensieri
densi.
La bottega artigiana era quasi pronta ma
c’erano molte cose da fare. Il lavoro per spostare le attrezzature era stato
lungo e faticoso. Mentalmente più che fisicamente, e poi tutta quella polvere.
Non aveva neanche pensato di proporre a
René di lasciare la valigia da qualche parte. Forse aveva fatto bene, avrebbe
potuto metterlo a disagio.
C’erano varie etichette di compagnie
aeree, testimonianze grafiche di viaggi ed esplorazioni, senza accorgersene
posò lo sguardo su un adesivo verde, bianco e rosso con la scritta TAP Portugal,
ricordò vagamente di aver letto da qualche parte che i portoghesi hanno una
parola intraducibile nelle altre lingue. Qualcosa di simile alla nostalgia
futura del passato nel presente.
“In portoghese si chiama saudade”
La voce cambiò leggermente quando René pronunciò
proprio quel vocabolo e Muriel ebbe la sensazione di aver parlato senza
accorgersene ma non ebbe il tempo di sincerarsene perché in quel momento
entrarono Carmencita e Lauretta.
6.
Immaginare due persone più diverse tra
loro sarebbe stato difficile.
Carmencita entrò con passo deciso, un
paio di Ray-ban da elicotterista a coprire un trucco studiato nei minimi
particolari, capelli lunghi, scuri, mossi da nette linee ondose. Un tailleur
semplice, essenziale da cui emergeva una camicia molto fru-fru con volant
vaporosi e frivoli che ben si adattavano alle scarpe, spumeggianti, e in
assoluto contrasto con la borsa resistente, funzionale, capiente e non
ingombrante.
Lauretta era tutta un frusciare di
morbidezze in cui sarebbe stato gradevole adagiarsi per un fragrante abbraccio
biscottoso. I lineamenti dolci e tondeggianti, gli occhi e la bocca sorridenti
e una sbadataggine troppo sbandierata per non celare un’attenzione maniacale al
più piccolo dettaglio nascosto.
“Ciao Muriel, buongiorno, hai già preso
il tuo caffellatte vedo, benissimo così possiamo parlare senza preamboli.
Gradisci un caffè con panna? Io ne ho già presi tre ma penso che… ma sì per i
decaffeinati c’è tempo”
“Ciao Carmencita, un caffè con panna lo
prendo volentieri. Lei Renato vuole assaggiarlo?”
“Renato? Che bel nome, oh Carmencita sei
così impetuosa! Buongiorno Muriel” disse placidamente Lauretta assestando un
paio di sonori baci sulle guance di Muriel e tendendo una mano allo
sconosciuto. “Io mi chiamo Lauretta, lei è Carmencita ma aspetta aspetta ora sì
che ho capito dove l’avevo già visto. Ma è mica il Renatino il nipote della
sartora che partì, o beh, saranno passati quanti anni? Almeno almeno una decina
se non di più… per andare, dove, dove? proprio non ricordo ma mi pare dalle
parti della Francia. Eh sì, insomma al Nord, oh bella, al freddo, in uno di
questi Paesi dove piove pure in estate”
Il volto di Renato si illuminò radioso,
si era sentito subito accolto. In effetti era un sentimento che provava un po’
chiunque si accostasse a lei, anche soltanto per qualche istante. Suscitava
immediata familiarità.
“Il nipote della sartora, eh già. Sono
stato…”
“Le storie le raccontiamo dopo che ora
abbiamo da fare, comunque io sono Carmencita, quanti caffè con panna?”
L’alzata di mani espresse un generale
desiderio di tale nera e aromatica bevanda e Carmencita ordinò quattro caffè
con panna e il bordo della tazzina orlato di cioccolato fondente.
7.
“Hanno appena ultimato le rifiniture di
tinta, si sentirà un odore di vernice che neanche all’apertura di una mostra
d’arte ma tant’è, porte e vetrine sono a posto, i manichini no, arriveranno in
giornata, si spera, per cui per il momento mettiamo il mannequin di Nonna Filomena
in bella mostra con il chiacchierino di Zia Bice, i tecnici sono appena andati
via, l’insegna è pronta?”
“Uhm direi proprio di sì”, Muriel
rispose riemergendo dalla distrazione acquosa in cui si era immersa mentre
Carmencita elencava per l’ennesima volta tutto ciò che c’era da fare, che era
stato fatto e che sarebbe stato necessario migliorare.
René si era accorto che lo stava
osservando di sottecchi e lasciò che il suo sguardo si soffermasse sulle tante
perfezioni di cui si componeva la finta casualità degli abbinamenti della sua
mise. Gli piaceva cogliere nello sguardo delle persone ammirazione per la
ricercatezza degli elementi più disparati, dai bottoni ai calzini. Aveva
imparato ad orientare l’attenzione con piccoli gesti, così da suscitare vera e
propria ammirazione per i suoi gioielli: i cappelli che confezionava con rara
maestria.
Le parole di Carmencita si confondevano
con la musica di sottofondo mentre Lauretta e Muriel erano sintonizzate su un
altro canale. Era una specie di tecnica di sopravvivenza necessaria per amare
la militaresca sarta: bisognava soltanto stare attenti alle variazioni di
tonalità che presumevano una risposta, un po’ come quando a scuola c’è una
lezione che non si ha voglia di ascoltare perché i pensieri fluiscono insieme
alle emozioni.
“… comunque mi pare che per quanto
concerne i faldoni non dovrebbero esserci problemi, eventualmente potremmo
foderarli in seguito…”
Muriel aveva cercato di immaginare la
casa di Carmencita la prima volta che l’aveva incontrata ma non era riuscita a
soffermarsi su niente, aveva lasciato che il fiume in piena seguisse il suo
percorso, tanto prima o poi l’avrebbe vista. Il giorno in cui la invitò a
prendere un tè si trovò nella spiacevole situazione di non sapere cosa portare
per cui dovette ripiegare su un vassoio di pasticcini. Buoni quanto si vuole,
particolari e gustosi ma non le era mai capitato di non riuscire ad indovinare lo
stile o per lo meno un oggetto che avrebbe potuto inserirsi con criterio
all’interno di un’abitazione sconosciuta.
“…le ciambelle a cancello e le pizzette.
Hai avuto conferma dall’ufficio stampa ufficioso Lauretta?”
“Sì sì. Figurati se si lasciano scappare
la possibilità di criticare e spettegolare. Fiuuu no no non c’è davvero di che
preoccuparsi, tra l’altro mi hanno confermato che sarebbero venute più che
puntuali. Ho saputo per vie traverse che almeno la metà del paese è andata a
farsi i capelli tra ieri e oggi, e visto che non ci sono cerimonie in giro…
ovvio a meno che non me ne sia persa qualcuna….” Lauretta lasciò cadere
l’ultima frase nel vuoto, come a sottolineare che non c’era cerimonia in paese
di cui lei non fosse a conoscenza. Le sue fonti erano molteplici e tutte molto
affidabili in materia di gossip paesano.
A René sfuggì un sorriso: rammentava
benissimo la sua capacità di ricordare nomi e parentele fino alla ventesima
generazione.
8.
“… e la vernice glitterata sui fiori di
carciofo secchi si è asciugata”
Carmencita si era fermata, stava
sorbendo il suo caffè e ciò voleva dire semplicemente che c’era spazio uditivo
per parlare. Non si era posta il problema di discutere nei minimi dettagli le
questioni relative all’apertura della bottega di fronte ad un estraneo per il
semplice motivo che Lauretta non aveva espresso alcuna perplessità, soprattutto
dopo averlo riconosciuto e avergli dato una collocazione tra le sue
innumerevoli conoscenze. Era evidente che lui non avrebbe costituito un
problema per loro, anche se non sapeva esattamente perché. Certamente era una
persona che non avrebbe spifferato in giro i fatti degli altri, indubbiamente
era particolare e il cappello che indossava piuttosto bello.
“Impara l’arte e mettila da parte” disse
distrattamente René.
Lauretta ebbe la strana sensazione di
aver sentito la voce di Zia Bice che le ripeteva questa frase in continuazione.
In effetti il mestiere gliel’aveva insegnato proprio lei, per un po’ l’aveva lasciato
da parte e poi le era tornato utile fino a diventare il suo lavoro e una
discreta fonte di guadagno.
Rifiniva i vestiti che Carmencita cuciva
ed era bravissima con i sottopunti. A volte ricamava ma non era quella la sua
specialità: per fare le cose come piacevano a lei ci voleva troppo tempo,
giorni, talvolta mesi interi per un lembo di merletto.
Zia Bice le aveva insegnato le basi, col
vecchio metodo, facendole trascorrere ore e ore a provare e riprovare. Lei si
annoiava terribilmente ma l’alternativa ad ago e filo era andare a scuola dalle
suore per fare il tempo pieno, cosa che le sembrava molto più temibile. Aveva
sentito certi racconti su zuppe di fave secche e pane integrale che le facevano
accapponare la pelle. La prospettiva di saltare la merenda a base di tazzona di
latte munto la mattina o tuttalpiù il giorno prima accompagnato da pane caldo
spalmato con un generoso strato di burro e marmellata fatti in casa non le
garbava affatto e così sopportava stoicamente il supplizio. L’unica cosa, oltre
la merenda, che le rendeva il compito meno gravoso era il chiacchiericcio
continuo di parenti e amiche. Dire che la Zia Bice fosse pettegola sarebbe però
ingiusto nei confronti della memoria di Zio Vito, buonanima, che avrebbe ben
potuto guadagnarsi il soprannome affibbiato ad un noto architetto
rinascimentale, Simone del Pollaiolo detto, appunto, ‘Il Cronaca’.
9.
Il placet di Lauretta era una
infallibile luce verde comprovata da generazioni di accurata conoscenza di
tutti i fatti, le persone e le famiglie del paese.
“Allora, che mi racconti di bello?”
disse improvvisamente rivolgendosi a René.
“Ho viaggiato un po’ e ora sono tornato”
Sembrava una risposta sensata ma sapeva
che non sarebbe stata sufficiente per cui principiò a raccontare la sua storia
ma venne interrotto bruscamente dall’arrivo di Guccio, meglio noto col
soprannome di Paolino, il quale, appena lo vide, pensò che forse sua sorella
Brigida non aveva poi tutti i torti, sposarsi in abito bianco, in una chiesetta
di campagna, sarebbe stato bello. Immaginò contestualmente il bouquet e i
fiori, per le bomboniere c’era tempo, meglio non affrettare troppo le cose,
litigare su questioni tanto elementari avrebbe potuto rovinare il loro
idilliaco rapporto e la luna di miele. Oh santa pace, la luna di miele. Beh,
anche di quello avrebbero discusso in seguito, avrebbe potuto cedere,
mostrandosi tollerante con broncio così da avere campo libero sulla torta
nuziale e sui paggetti che avrebbero portato le fedi.
“Buongiorno carissime! Sono così felice
che siate qui e posso offrirvi un dolcetto benaugurante”
Ecco, Guccio, detto Paolino, aveva la
capacità di fare sempre qualcosa di carino per gli altri, più che premuroso era
attento, dedicato e non si poteva non pensare che fosse una persona gentile. C’era
chi affermava che fosse meglio non farlo arrabbiare ma non veniva proprio
voglia di litigare con una persona sempre sorridente, o quasi.
Muriel amava parlare con lui per ore
intere, a volte cenavano insieme e si trovavano immancabilmente a chiacchierare
fino a notte fonda senza mai annoiarsi o distrarsi dietro a qualche pensiero
aquilone. Non avrebbero saputo dire chi avesse utilizzato l’espressione la
prima volta ma poi era rimasta tra loro ad indicare quei pensieri che
distolgono dalla realtà, dai momenti vissuti, dal presente catapultando la
mente in qualche recondita area della psiche o del pensiero.
Paolino stava bene con lei, si sentiva
capito, non giudicato: era l’amica che avrebbe sempre voluto avere e non c’era
altro modo per definire il loro rapporto.
Lauretta subodorò guai e sciagure future
appena Paolino varcò la porta, non perché portasse sfortuna, anzi era una
persona che sapeva infondere il buon umore e quindi era piacevole incontrarlo.
Aveva capito dal suo sguardo che pensava di aver incontrato l’uomo della sua
vita ma lei sapeva benissimo e da fonti certe e certificate nel suo capillare
sistema informativo che Renato, detto René, era innamorato da sempre di
Penelope, una donna quasi della sua stessa età con cui aveva litigato molti
anni prima, per un motivo che neanche lei era riuscita a scoprire, e che forse
non lo aveva mai dimenticato visto e considerato che non si era mai
‘accompagnata’, insomma non aveva mai messo su famiglia.
Paolino sciorinò una serie di messaggi
corporei che confermarono i timori della sarta dal volto tondeggiante e il
corpo accogliente.
Carmencita non si avvide di nulla, era
immersa nelle questioni organizzative e fu molto felice della presenza di Guccio,
che la metteva di buon umore anche nelle giornate più cupe.
“Cuor contento il Ciel l’aiuta! Piacere
io sono Renato, anche se mi chiamano sovente René”
Quando gli strinse la mano, curatissima,
tra le sue, Paolino ebbe la certezza assoluta che René fosse incontestabilmente
e inconfutabilmente l’uomo della sua vita.
L’intero corpo gli sorrise.
Il suo cuore a quel punto era gaudente e
il Cielo evidentemente gli stava fornendo la motivazione per essere tanto
felice di vivere e di esistere.
10.
Lauretta ebbe la sensazione nettissima
che Guccio, detto Paolino, stesse per, se già non era accaduto, innamorarsi
perdutamente di René e se ne rammaricò non poco. Conosceva bene entrambi: li
aveva visti crescere. Due bravi ragazzi, ammodo, un po’ anticonformisti ma non
lasciavano adito a maldicenze.
“L’apparenza inganna”. René pronunciò
queste parole con garbo, quasi le avesse letto nel pensiero.
Lauretta si rasserenò.
“Viaggia spesso?”, chiese Guccio, detto
Paolino interpretando la curiosità generale.
“Più che viaggiare mi sposto: tutto il
mondo è paese”
“Ma dov’è che sei andato esattamente? Su
al Nord?”, domandò Lauretta.
“Ho vissuto nelle Fiandre belghe, ad
Anversa, dove ho studiato all’accademia di moda, ho partecipato ad alcune
sfilate con un discreto successo, poi mi sono specializzato nella creazione e
confezione di cappelli artigianali. Ho seguito la mia vocazione e ho capito
cosa avrei voluto fare nella mia vita. E adesso sono tornato al paese. Sai
niente di Penelope?”
L’ultima domanda gli era sfuggita dalle
labbra. Non era stata una sbavatura, piuttosto una richiesta di informazioni
schietta, senza preamboli. Forse sapeva davvero leggere nel pensiero. Aveva
parlato senza ansia, incantando il suo uditorio e facendo balenare a Carmencita
e Muriel l’idea di farlo lavorare con loro.
Un sorriso pieno, di comprensione
epifanica attraversò il corpo di Lauretta.
11.
Penelope sarebbe venuta
all’inaugurazione, forse. René si era trovato per caso nel posto giusto al
momento giusto.
L’inaugurazione! L’avevano dimenticata
per qualche istante. Non c’era molto tempo per perdersi in chiacchiere.
Muriel chiese a Carmencita e Lauretta,
nel loro codice comunicativo, di appartarsi un momento. Ebbero tutte e tre
un’impellente bisogno di utilizzare il bagno delle donne.
Quando tornarono fu Muriel a parlare per
prima.
“René vorremmo chiederle, ecco se vuole
partecipare all’apertura ed eventualmente cominciare a collaborare con noi, non
siamo una maison affermata ma se la sua intenzione è quella di rimanere in
paese potrebbe essere un’occasione sia per noi che per lei.”
“Al momento non si tratterebbe di
formalizzare niente, se ci troveremo bene potremo poi iniziare un discorso più
strutturato.”, aggiunse lesta Carmencita.
Non avrebbero saputo dire perché ma
tutti quegli insegnamenti dell’insegnante di yoga sembravano essersi
concretizzati nella luce che inondò gli occhi di René.
12.
“I dettagli li stabiliremo in seguito,
se per lei va bene”, affermò Muriel aggiungendo con piglio sicuro: “ora
dobbiamo proprio muoverci altrimenti non faremo in tempo ad organizzare un bel
niente. Se vuole può venire con me nella bottega a sistemare i cappelli, non so
se abbia già un posto dove stare oppure…”
“Grazie, posso venire subito in bottega,
così poi potrò fare una doccia e cambiarmi”. Evidentemente aveva già un luogo
dove andare a dormire.
Non avrebbero saputo dire quanto tempo
avessero trascorso nel bar, a giudicare da quello che affermavano gli orologi
neanche mezz’ora ma il tempo emozionale è ben diverso da quello convenzionale.
René seguì Muriel nella bottega, aprì la
sua valigia da cui quasi per magia estrasse due cappelliere di antica foggia
che contenevano preziose creazioni artigianali. Con un insolito gesto di
consuetudine passò i cappelli all’arredatrice d’interni. Lei li collocò in
punti strategici della bottega. Stettero lì per qualche ora, quasi senza
parlare, lasciando dialogare le loro energie.
Muriel non si perse nei suoi pensieri,
le sembrò per qualche momento che tutto fosse al posto giusto.
René ebbe la sensazione che ciò che
aveva fatto sino a quel momento stesse per prendere forma.
Lauretta entrò senza disturbare e capì
che lui e Penelope si erano, molto probabilmente senza neanche dirselo,
aspettati per tutti quegli anni e che non sarebbe stato facile, per loro, ammetterlo.
13.
“È ora di aprire” sentenziò Carmencita
mezz’ora prima dell’ora prevista per l’inaugurazione.
L’euforia era tangibile nell’aria densa
di aspettative e desideri.
Muriel era insolitamente calma. Non che
normalmente non lo fosse, anzi, era proprio il tipo di persona che non ha mai
scatti di nervosismo, d’ira o di stizza. È che ogni tanto tutto il magma che le
ribolliva sotto la placida superficie prendeva la forma della distrazione.
Si assentava da sé senza neanche
accorgersene. Le capitava sempre più di frequente, tra l’altro, di parlare con
Nonna Filomena, chissà che avrebbe detto della bottega, di Carmencita, Lauretta
e...
“Chi ben comincia è a metà dell’opera”,
sì forse avrebbe detto proprio questo ma era stato René a pronunciare la frase
riportandola fuori dalla viscosità pensierosa in cui stava per impantanarsi.
La bottega era perfetta, anche se si
sentiva ancora un po’ di odore di vernice e di nuovo.
Al centro era stata posta una tavola
perfettamente apparecchiata con prelibatezze varie. I minuti trascorrevano
lenti, pareva che il rumore delle lancette del grande orologio a muro
sovrastasse le armoniose sonorità musicali.
Dapprima arrivò una piccola delegazione
di ragazzette, secondo Lauretta nipoti, pronipoti e parenti di vario grado di
Donna Lia, che le avrebbe esortate a recarsi lì per decidere, in base ai
dettagliati resoconti delle giovinette, se fosse o meno il caso di degnarsi di
presenziare all’evento.
“Buon segno” sussurrò la sarta esperta
in sottopunti e in questioni paesane, aggiungendo che se Donna Lia si era
premurata di inviare una delegazione ben cinque minuti prima dell’apertura
ufficiale voleva dire che era stata dal parrucchiere il giorno precedente se
non la mattina stessa e che ci sarebbe stata parecchia gente: non s’era mai
vista Donna Lia presenziare alcunché se non per farsi rimirare e notare.
Alla spicciolata giunsero curiosi e
addirittura persone i cui alberi genealogici non risultavano nella foresta
parentale di Lauretta, particolarità che non seppe bene in che modo
interpretare.
Nel giro di poche decine di minuti la
bottega si riempì e ci fu un continuo viavai fino a sera quando finalmente
poterono sedersi anche loro e mangiare qualcosa. Il bilancio della giornata era
stato positivo.
14.
La mattina si svegliarono prestissimo per
rimettere tutto in ordine. C’era ancora qualcosa da fare ma la sensazione era
quella di un nuovo inizio, non soltanto per René.
Carmencita si sentiva stranamente ebbra
e non aveva voglia, per qualche motivo, di organizzare tutto. Si era alzata di
buon umore, cosa che le capitava molto di rado, a dire il vero non ricordava
proprio quale fosse stata l’ultima volta in cui ciò era accaduto. Aveva una
lontana memoria di un profumo di dolci appena sfornati, da sua nonna, no, forse
era la sua prozia. Sì, doveva proprio essere zia Proserpina. Prozia, ci teneva
a specificarlo. Quanto era brava a preparare i dolci per lei, soltanto per lei,
che era la sua pronipotina preferita. Non aveva mai viziato i figli con dolci e
altre leccornie, indebolivano il carattere a suo dire ma con lei si
sbizzarriva: Carmencita aveva già un carattere forte, almeno all’apparenza.
“Scorza dura e cuore tenero”.
Carmencita si ridestò come emergendo da
una doccia di acqua gelata dopo una sauna finlandese, si aggrappò mentalmente
alle sue certezze e alla sua disciplina quasi militaresca, guardò verso
l’origine di quella frase. René le stava porgendo un After Eight, non c’era
niente che facesse presupporre altro. Scacciò via la sensazione di intrusione
nella sua intimità con una scrollata di spalle. Serrò le mandibole in un
sorriso che la fece riemergere dal torpore mentale e dai pensieri aquilone che
si erano incuneati nelle sue celluline grigie.
“Grazie ma non ho ancora preso un caffè”
“Neanche io, è che sono ghiotto di
cioccolatini”
“Non si direbbe vista la linea”
“Quando ero ragazzino, un pischelletto,
mi vergognavo quasi di non ingrassare, adesso non mi dispiace: posso indulgere
nei piaceri della tavola senza dover rinunciare ad indossare i miei abiti
preferiti”
“Neanche io tendo ad ingrassare,
comunque seguo un regime alimentare piuttosto rigido”
“Quindi niente dolciumi?”
“Mi piace di più il salato”
15.
Lauretta portò un thermos di tisana
rivitalizzante, chiacchierò un po’ ma le ci sarebbero voluti almeno due giorni
per elaborare la mole di pettegolezzi che aveva incamerato durante
l’inaugurazione quindi sarebbe stato del tutto inutile chiederle qualche commento
‘a caldo’, a meno che si volesse soltanto avere informazioni blande e
stereotipate.
E poi si vedeva lontano un chilometro
che le premeva qualcos’altro.
Dopo aver rifocillato le sue amiche,
prese in disparte René, che per lei era e sempre sarebbe stato Renato, e gli
chiese ragguagli su Penelope.
“È un po’ cambiata dall’ultima volta che
l’hai vista, vero?”
“…”
“Non sai che rispondermi ma i tuoi occhi
sono più luminosi di una stella, nonostante il sonno”
“…”
“Anche lei quando ti ha visto si è, come
dire?”
“Si è?”
“Il volto era”
“Bellissimo, pieno di grazia, sincero”
“Gioioso direi”
“Dici?”
“Eh già, ma tu sai che lei?”
“Immagino che abbia famiglia ormai, dopo
tutti questi anni…”
“No, veramente non ha messo su famiglia,
dopo tutti questi anni”
“Chissà perché…”
“Veramente vorrei chiederlo a te”
“A me? e io cosa pensi che ne sappia?”
“Ah niente niente soltanto che”
“Che?”
“Ma senti Renato, sei andato via che eri
un ragazzino a modino, hai fatto la tua vita, da quello che ho sentito dire in
giro hai fatto anche parecchia strada e dopo tutti questi sforzi torni al
paese, chiedi di fare i cappelli in una bottega artigiana che, per carità, è di
gran qualità ma te hai sempre avuto la stoffa per puntare parecchio in alto.
Torni e l’unica cosa che ti preme davvero è chiedermi di Penelope”
“Ma non è l’unica cosa, neanche per
idea, sai”
“Sì sì”
“E so so”
“E lei, da anni che la vedo spenta,
disinteressata alla vita, appena ti vede che fa?”
“Che fa?”
“Torna la Penelope che conosciamo tutti
quanti; ti pare normale?”
“Ma dai che dici figurati”
“Ah io non mi voglio impicciare di fatti
altrui”
“Ma non ci sono proprio fatti di cui
impicciarsi, davvero, sono soltanto fantasie”
“Fantasie, fantasie, certo certo. Ma
tanto prima o poi mi dirai quello che è successo tra voi due”
16.
“Perché ti interessa tanto la storia di
Penelope e René?”
Muriel glielo aveva chiesto senza
neanche accorgersi di aver parlato. Il suono si era semplicemente materializzato
al di fuori delle sue labbra, prendendo la forma dell’aria. Non le capitava da
moltissimo tempo di esprimere quello che pensava senza soppesare la
punteggiatura, le frasi, talvolta anche le sillabe.
“Sono due persone a cui voglio bene”.
La risposta arrivò inaspettata: l’aria a
volte assumeva delle forme ben strane.
“Forse è difficile spiegare ma li ho
visti crescere e sono sempre state due brave persone, erano innamorati sai, di
quell’amore sincero, era una gioia vederli insieme e poi, non lo so, è accaduto
qualcosa di inspiegabile.”
“Hanno intrapreso strade diverse, non
pensi possa essere stato semplicemente quello?”
“No, Muriel, non so spiegartelo ma due
persone che si amano in quel modo non intraprendono strade diverse, e infatti
così è stato”
“Pensi che René sia tornato con il
preciso intento di ritrovare Penelope? Ma dai!”
“Muriel sei insensibile”
“Non lo sono”
“Lo so ma a volte sì”
“Magari sentiva nostalgia del sole
italiano”
“Il sole?”
“Eh, il sole, dice che in Belgio piove
sempre”
“Ah e siccome gli mancava il sole,
anziché andare in vacanza ai Tropici, ha preferito tornare al paese, cercare
lavoro all’istante e chiedere immediatamente notizie di Penelope. Mi sembra
davvero plausibile, logico…”
“Uhhh e Penelope?”
“Penelope?”
“Eh, Penelope.”
“Ma hai visto che bella donna è? E ha
anche un buon carattere, un po’ a modo suo ma... Ti pare normale che non abbia
mai messo su famiglia?”
“Magari non ha mai trovato quello
giusto”
“Sì che lo ha trovato e in tenera età”
“René?”
“E che c’è di strano?”
“Mah”
17.
Carmencita non aveva voluto dar troppo
peso al fatto che le energie di Lauretta si fossero concentrate su Penelope e
René ma non aveva potuto non accorgersi che ciò aveva immalinconito Muriel.
“Muriel?”
“Uhm?”
“Che dici se mettiamo i cappelli da
parte, intendo da questa parte?”
“Sono proprio belli, forse ha ragione
Lauretta”
“Riguardo a cosa?”
“Ma niente, dice che René avrebbe potuto
puntare molto in alto e non lo ha fatto per motivi personali”
“Tu che ne pensi?”
“Forse è vero”
“No, dico, tu che ne pensi se mettiamo i
cappelli da una parte, qui ad esempio?”
“Vorresti metterli in un cantuccio?”
“Spostarli verso quest’angolo qui”.
Carmencita aveva accompagnato la risposta con un gesto con cui sembrava volesse
togliere, scansare un ostacolo alla loro felicità.
“Non ti piacciono?”
“Non è che non mi piacciano è che mi
fanno inevitabilmente pensare ai tradimenti e a quella commedia coi sonagli”
“Il berretto a sonagli di Pirandello
intendi?”
“Sì quella”
“Già che c’eri avresti potuto farti
anche venire in mente Questi fantasmi di Eduardo, nel dialogo col professore
sul cuppitiello per il becco della caffettiera”
“Dici?”
“Ho la sensazione che non sia un caso se
Renato si sia specializzato nel confezionare proprio cappelli e credo che
Lauretta ce lo saprà dire presto. Mi diverte tutta questa storia, sai?”
“A me sembrava che ti incupisse”
“No, anzi, è il contrario direi”.
Avrebbe voluto aggiungere che i pensieri
avevano iniziato a percorrere strade meno tortuose, ritrovando la linearità
progettuale che la contraddistingueva e che l’aveva portata a studiare i
reconditi segreti dell’ingegneria e dell’architettura d’interni, ma le era
sembrata una mancanza di delicatezza nei confronti di Carmencita. Le era sempre
stata accanto, anche nei momenti più oscuri, quando tutto le era crollato
addosso all’improvviso e la calotta di cristallo sotto cui l’avevano tenuta il
padre e il marito si era sgretolata e lei aveva dovuto rimboccarsi le maniche
senza capire cosa stesse accadendo o, forse, comprendendolo con una lucidità che
le aveva tramortito la capacità di tenere tutto sotto controllo, le emozioni, i
pensieri, i sentimenti.
Le persone non si controllano, lo aveva
compreso. Era convinta di poterlo fare, di averlo sempre fatto, di aver avuto
tutto quanto e tutti quanti in mano. La sua vita, le sue scelte, la sua
indipendenza. Falsità, bugie e menzogne avevano contraddistinto la sua vita
fino al momento in cui tutto era stato diverso, d'emblée, senza preavviso.
“Lauretta dice che chi si è amato come
loro due non si separa mai”
“Beh, certo lei, con quattro matrimoni
alle spalle, di sempiterni amori è un’esperta! Ma dai Muriel…”
“Comunque sarebbe bello sapere che quel
tipo di amore esiste veramente”
“Certo che esiste: tra madre e figlio.
Punto.”
“Anche i padri amano i figli”
“I padri sono uomini”
“Di solito…”
“E anche René è un uomo”. Carmencita
pronunciò quest’ultima frase concludendo il discorso, per il momento,
sottolineando il concetto con un’alzata di sopracciglia che era tutto un
programma.
18.
L’avversione di Carmencita per
l’universo maschile era fondamentalmente giustificata dalla sua esperienza
personale e familiare, nonché da un’educazione rigida, improntata alla netta
divisione di compiti e funzioni.
Uomini, mariti, padri, zii, cugini erano
quasi sempre un accessorio ingombrante seppur necessario alla quotidiana
routine della vita paesana.
In cucina non aiutavano ma criticavano,
in casa sporcavano e non pulivano, soltanto tra trine, merletti e sottopunti
non entravano mai, o quasi. Era considerata un’attività in cui non impicciarsi
e lei si trovava a suo agio in quell’universo di conoscenza e sapere.
Anche i libri, a scuola, parlavano di
grandi eroi che avevano costituito la patria.
E le donne?
Erano per caso emigrate tutte da
un’altra parte mentre gli uomini lottavano valorosamente per il Paese?
E poi perché ‘patria’ e non ‘terra
madre’ o ‘natia’?
Tutto questo la infastidiva.
Anche negli ospedali, i medici parlavano
di instabilità ormonale.
Ma quale instabilità?
Le variazioni ormonali per la donna sono
la normalità altrimenti non ci sarebbe la procreazione, l’allattamento, di
quale instabilità si parla?
Rispetto a cosa?
A chi?
Agli uomini?
E per quale motivo si dovrebbe mettere a
confronto l’attività ormonale maschile con quella femminile?
Il corpo della donna ha una maggiore
capacità di adattamento al cambiamento, è in movimento perpetuo, costante.
È come l’Etna paragonato al Vesuvio.
Il vulcano siciliano erutta in
continuazione ed è pacifico, quello campano esplode raramente e quando lo fa
devasta, distrugge.
René scombussolava tutto, tanto più che
non era come Paolino. E da quello che diceva Lauretta sapeva pure amare,
conosceva la lealtà, sapeva aspettare.
Ah sì?
Davvero?
Certo, sapeva riconoscere un
chiacchierino da un pizzo olandese.
E allora?
“Una rondine non fa primavera”
“Appunto” Aveva forse parlato ad alta
voce? Non se n’era accorta.
Guardò René con un misto di curiosità e
diffidenza.
“Fa freddo fuori, sembra ancora inverno
pieno. Anche tu sei uscita di casa senza cappotto?”
“Freddo? Ah beh, ovvio, fa ancora freddo.
No, no mi sono premurata di prendere una stola calda”.
“È di pelliccia vera?”
“Sì, vecchie pellicce, molto ben tenute.
Buttarle è peggio che utilizzarle e c’è una cooperativa di donne, qui, sai hanno
aperto un centro antiviolenza e hanno avviato un’attività di recupero di lavorazioni
tradizionali. Vengono a lezione da noi per imparare a cucire, noi vendiamo
quello che producono e tratteniamo una piccola percentuale per le spese del
negozio e per le lezioni.”
“È un’idea bellissima. La realizzazione
però potrebbe essere migliorata a mio avviso”
“Forse”
“Puoi farmela vedere per favore?”
“Sì, certo, ecco”
René stette ad osservare a lungo e con
occhio clinico la stola. La allontanò da sé come se stesse guardando un quadro
puntinista, poi si riavvicinò ad osservarne i dettagli. La posò sul tavolo da
lavoro. Si avviò con un’improvvisa ispirazione verso un trolley baule, lo aprì,
all’interno c’erano trine e ricami di rara bellezza, alcuni avrebbero potuto essere
interessanti anche per il Museo del Merletto di Burano. Ne estrasse due o tre
di una foggia che Carmencita non aveva mai visto. Li avvicinò alla stola, cercò
con lo sguardo un prezioso broccato.
Carmencita era affascinata dai movimenti
di quella persona, appoggiò per qualche istante i suoi pregiudizi
nell’ombrelliera in ferro battuto e ceramiche artigianali.
“Ecco, credo che così potrebbe essere
anche più bello”
Il risultato era strabiliante. Era una
bozza, di tutta evidenza, ma originale.
“È particolare”
“Sì, sembra anche a me. Pensi che si
possa proporre di unire questa idea ad un’eccellenza produttiva? Io non mi
intendo molto di questioni, come dire, pratiche?, insomma non che non sia una
persona concreta ma, ecco…”
Sapeva anche ammettere i propri limiti.
Carmencita pensò che forse esiste un luogo in cui uomini e donne sono persone,
con le loro caratteristiche, le loro differenze e magari in casa puliscono,
cucinano e rammendano senza credere di fare qualcosa di strano, come dicevano
Muriel e Lauretta.
“Sai cucinare René?”
“Sì, certo: quando sei all’estero e sei
italiano non puoi non saper cucinare. A dire il vero non è previsto neanche che
non si conoscano bene i vini ma io sono astemio, non mi sono mai piaciuti gli
alcolici.”
“E le droghe?”
“Le droghe? No, non mi piace proprio
niente che alteri la percezione della realtà in modo incontrollabile. Se voglio
avere sensazioni forti scalo una montagna, fa anche bene alla salute, o vado
sull’oceano.”
“Ti piace il mare in inverno?”
“Sì, ecco, se voglio ‘stordirmi’
preferisco una bella passeggiata accanto all’oceano d’inverno, stando attento a
non farmi travolgere dai cavalloni. Perché me lo chiedi?”
“No, niente”
“Gli uomini non sono tutti uguali, sono
come le donne, diversi l’uno dall’altro, ma molti non lo sanno o non hanno il
coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Va bene, l’idea mi sembra buona. Mi
occuperò della parte che tu, Muriel e Lauretta chiamate ‘pratica’. C’è qualcosa
che serve per la parte che io chiamo ‘pratica’, ovvero la realizzazione
concreta?”
“Almeno una persona brava con merletti e
ricami”
“Va bene. Ti faccio sapere”.
19.
“Muriel?”
“Sì Carmencita, che c’è?”
“Che ne pensi di René?”
“Non ti piace, eh?”
“Non ho detto questo”
“No, no. Cos’è che non ti convince?”
“No, no, niente.”
“Carmencita?”
“Sì?”
“Da quanti anni ci conosciamo?”
“Ti sembra normale che un uomo si metta
a fare cappelli da donna e si interessi di trine e merletti, vada ad Anversa a
studiare all’accademia della moda, torni in Italia e si trovi per caso davanti
alla bottega nel momento in cui stiamo per aprire, conosce Lauretta e l’unico
suo interesse reale sembra essere Penelope, no dico, Penelope?”
“Sembra anche a me una persona
telepatica. Se ti devo dire cosa ne penso, mi fa pensare ad un gatto”
“Un gatto?”
“Sì, hai presente quei gatti che ad un
certo punto compaiono nelle vite delle persone e sembra che siano sempre stati
lì e che sappiano comprendere tutto anche meglio di persone care e amiche?”
“Avresti potuto dirmelo che sei
diventata buddista”
“Non sono buddista ma Sibilla parla
sempre dell’energia delle vite precedenti o di quella storia delle tante
dimensioni”
“La teoria della relatività: l’ha
inventata Einstein”
“Ma pensa!”
“Comunque, il paragone è calzante”
“Penelope è tanto una brava persona”
“Non lo metto in dubbio ma ti sembra una
donna che possa ispirare una passione tanto forte da travalicare anni, confini,
esperienze?”
“Oh senti, non so che dirti ma
Lauretta…”
“Eh, Lauretta, Lauretta ma che ne sa lei
dell’amore?”
“Qualcosa avrà pur capito con tutti i
matrimoni e i figli che ha in giro per il paese!”
“Non lo so, c’è qualcosa che non mi
quadra”
“Carmencita?”
“Eh?”
“Non è che, per caso, quello che non ti
quadra è che mette a soqquadro tutti i tuoi pregiudizi e le tue diffidenze nei
confronti dell’universo maschile?”
“Ah, tu e Lauretta dovete smetterla di
pensare che io abbia qualche forma di idiosincrasia particolare o cosa: io non
ho nessun pregiudizio.”
“No, pensi soltanto che gli uomini siano
cretini”
“Il più delle volte”
“Ah vedo che ti stai ammorbidendo”
“Sai che mi ha detto?”
“Chi, René?”
“Eh”
“No, che ti ha detto?”
“Che gli uomini non sono tutti uguali e
che sono persone come noi ma che non hanno il coraggio di ammetterlo a sé
stessi”
“Andiamo a prendere una tazzona di
tisana col ciambellone”
20.
Paolino non si sarebbe perso la serata
di inaugurazione per niente al mondo ma non era riuscito a cambiare il turno di
lavoro e quel giorno era in un altrove in cui avrebbe voluto non essere mai
andato, anche perché si era ritrovato in un bar insieme a colleghi e clienti
che definire retrivi sarebbe stata una forma di gentilezza che avrebbe
travalicato anche le sue più abituali doti di cortesia. Sorridendo per
mascherare il disgusto, aveva dovuto ascoltare chiacchiere insopportabili
riguardo a donne, calcetto, omosessuali, in ordine sparso. Quando la sua
leggendaria tolleranza stava per incrinarsi si era stretto nelle spalle ed era
riuscito a sottrarsi alla compagnia con la scusa di una impellente telefonata
galante. La propria voce interiore lo istigava a rovesciare il tavolo, dire che
gli stava venendo da vomitare, inciampare casualmente su un vassoio di tartine
con la maionese da spalmare addosso ai suoi commensali e urlare quello che
pensava. Aveva preferito la via diplomatica. Non era un ambiente, né un luogo,
in cui avrebbe potuto esprimere la propria natura, per cui, riconquistato un
suo spazietto, si era dedicato alla pratica yogica.
Appena tornato al paese, però, non perse
un istante per andare nella bottega ad informarsi.
“Lauretta buongiorno, cercavo proprio
te, voglio un resoconto dettagliatissimo. Intanto questi sono per voi, qualche
dolcetto per la colazione e un paio di oggetti che non potevo non portarvi.”
“Anche la camelia? Paolino sei uno
spettacolo”
“Sì, ho fatto una piccola deviazione a
Velletri. Dimmi tutto”
Lauretta liberò la mole di informazioni
immagazzinate e riposte in un angolo della sua memoria per lasciare il posto
all’affaire René Penelope e i due rimasero a parlottare per un tempo che sembrò
brevissimo ai due interlocutori.
“Credo sia ora di cena Paolino, vuoi
venire a mangiare da noi?”
“Certo!”
Muriel si era sempre chiesta come
facessero a ricordare tutte quelle generazioni di parentele, amicizie,
intrighi, vestiti e corredi ed era giunta alla conclusione che fosse un mistero
cosmico.
Per Paolino parlare con Lauretta era
rinfrancante: lo faceva sentire bene, all’interno del suo universo di senso.
“Paolino?”
“Dimmi”
“Se non fossi gay saresti il mio
prossimo marito”
“Lauretta, sei l’unica donna che
potrebbe tentarmi”
Ciò detto, si salutarono ridendo dopo
aver chiacchierato per poco meno di ventiquattrore filate.
21.
René uscì a fare una passeggiata.
Aveva la mente piena di merletti, trine,
tessuti e aveva bisogno di pensare in libertà.
Tutto era accaduto velocemente da quando
era tornato in paese e non aveva ancora avuto modo di lasciar decantare le
emozioni.
Aveva affinato la tecnica di non
immergersi in niente che potesse scuoterlo dalle viscere. Tutto poteva essere
osservato dall’esterno.
“René, che piacere inaspettato”
“Paolino, ciao. Sei stato da Lauretta?”
“Si vede molto?”
“Hai lo sguardo tra il felice e il
birichino e la barba non curata. Non so, ma non mi sembra che usciresti di casa
senza esserti occupato della tua toilette”
“Ehi, sai osservare le persone. Bene
allora che ne dici di fare quattro passi insieme nel parco?”
“Volentieri, stavo proprio cercando un
sentiero per una camminata lontano dal traffico”
“Hanno da poco inaugurato il parco
tematico, è piuttosto grande e si può camminare agevolmente sui sentierini. A
me piace molto, hanno addirittura pensato a creare percorsi soltanto per cani
per cui non c’è pericolo di imbattersi in animali nevrotizzati dalla vita
d’appartamento”
“Detesti i cani?”
“Ne ho sei. Ma li lascio vivere
tranquillamente la loro vita senza interferire troppo. Amo rispettare le
diversità.”
“Mi sembra una buona base per una
amicizia sincera”
“Già. Posso farti una domanda?”
“Sì, a patto che sia sufficientemente
indiscreta”
“Se tu fossi gay saremmo una coppia
perfetta. Comunque, perché te e Penelope vi siete abbandonati e cercati e
aspettati per tutti questi anni?”
“Alquanto indiscreta direi. Non lo so.
Pensi che lei mi abbia aspettato?”
“René, è evidente, palese, cristallino.
Dunque, che è successo tra voi?”
“Abbiamo litigato, come si dice? per
futili motivi e poi eravamo talmente orgogliosi che non abbiamo avuto il
coraggio di ammettere che eravamo due cretini”
“Lo siete ancora, per quanto concerne i
sentimenti intendo”
“Ci vai leggero con le parole, eh?”
“Non volevo offenderti è che, beh ecco,
avete intenzione di trascorrere qualche altro lustro prima di capire che
sarebbe il caso di, che ne so, uscire a prendere una pizza, un aperitivo, un
gelato?”
22.
Forse aveva ragione Paolino ma René non
voleva entrare in qualche vortice di speranze disattese. Voleva pensare al suo
lavoro, ai suoi interessi.
Tornare in Italia non era stato semplice
anche se aveva trovato subito un’occupazione.
Gli mancavano molte cose del Belgio,
riabituarsi alla mentalità italiana non era stato così semplice. La
disorganizzazione strutturale nella vita quotidiana può essere scomoda.
Aveva dovuto imparare nuovamente a
guidare.
Utilizzare un’autovettura anziché
contare sull’efficienza del trasporto pubblico e sulla possibilità di camminare
a piedi o muoversi in bicicletta non gli garbava punto.
La mancanza generalizzata del senso
della cittadinanza attiva lo disturbava anche nei piccoli gesti. Trovava
inaudito, ad esempio, doversi accertare che le auto si sarebbero fermate
davanti alle strisce pedonali.
È così difficile capire che se ci sono
delle strisce pedonali e c’è una persona in procinto di attraversare la strada
è necessario rallentare, fermarsi?
Le vie degli antichi romani hanno
resistito per millenni, quelle moderne hanno un asfalto che pare idrosolubile,
i marciapiedi sono un concetto astratto e chi va a piedi viene spesso
considerato un eccentrico o qualcheduno che ha qualche problema, di ordine
economico o di socialità.
La mancanza di bagni decenti nei luoghi
pubblici delle grandi città, inoltre, lo infastidiva alquanto.
Cibo, clima e generale solarità delle
persone, oltre alla straordinaria bellezza paesaggistica e architettonica del
Paese aiutavano ad affrontare i tanti disagi dell’inciviltà statale.
Ascoltare l’italiano ovunque, seppur
bistrattato da una generica disaffezione verso la propria cultura, era
piacevole ma non poteva fare a meno di roteare gli occhi quando udiva scempi
nella coniugazione verbale. In casa era abituato a parlare decentemente, era
una forma di rispetto.
La presenza di Penelope, certo, gli
aveva in qualche modo riaperto uno spiraglio di felicità interiore che aveva
riposto in un qualche angolo nascosto del suo essere ma questo non c’entrava
con quello che diceva Paolino e che forse pensava anche Lauretta. Il detto
latino “vox populi vox dei” gli venne involontariamente in mente ma scacciò il
pensiero con uno scotimento di testa, naso e labbra serratissime.
23.
Brigida aveva deciso di fare un bel
discorsetto a suo fratello Guccio. Anche se a lui Paolino piaceva, lei non lo
avrebbe mai chiamato in quel modo. Era orgogliosa del suo nome, testimonianza
di antiche origini toscane di cui andava fiera.
Era più che evidente che quel Renato,
che si faceva chiamare René, lo aveva abbindolato coi suoi pizzi e merletti e
discorsi vacui su un qualche altrove ma lui non avrebbe dovuto dare scandalo in
paese.
Se era proprio in quel modo, come diceva suo marito, buonanima, che l’onnipotente
l’abbia in gloria, lei non ne aveva colpe e chiunque, nel gruppo di preghiere,
nel coro, e nella confraternita avrebbe potuto testimoniare i suoi enormi
sforzi per riportarlo sulla giusta via.
L’unica possibile, l’unica che non
andasse contro natura e che rispettasse la suprema volontà, checché ne
dicessero certi religiosi che si definivano ‘moderni’.
Ora, va bene tutto, ma che cosa c’entrasse
la modernità con la negazione della normalità non lo aveva né lo avrebbe mai
capito.
Era assolutamente fuori discussione che
il fatto che lei guidasse la sua automobile, caricasse la lavastoviglie e
andasse ad esercitarsi nelle simulazioni di guerra tutti i giovedì avesse
qualcosa a che fare con, beh sì insomma quella cosa lì, la sodomia, che solo a pronunciare la parola le venivano i brividi di
ribrezzo dietro la schiena.
Oh, ci aveva davvero provato in tutti i
modi, con le buone e con le cattive. Aveva chiamato specialisti e negromanti ma
non c’era stato proprio niente da fare, per il momento.
Certo, l’arrivo di quel cicisbeo non
aveva fatto gioco alla sua santa causa di redenzione.
Lauretta l’aveva poi fatta proprio
andare su tutte le furie, sembrava che fosse stata lei a dire che era una
persona ammodo. Certo, lei con tutti quei mariti e quei divorzi cosa fosse la
normalità non l’aveva mai veramente capito ma da qui ad avallare quella cosa lì
ce ne passa, oh se ce ne passa.
Li avevano anche visti insieme nel
parco, che sfacciataggine, non aveva per niente pensato alle conseguenze per i suoi nipotini a
scuola, che già avevano avuto le segnalazioni dalla preside per, come si chiama
adesso, ah sì, bullismo. Soltanto poi perché avevano reagito alle infamanti
accuse rivolte alla loro madre, che tesori. Sì, certo, il più grande era un po’
irruento, forse appiccicare l’insegnante all’appendiabiti per non avergli
consentito di digerire apertamente e sonoramente in classe era stata una
reazione un po’ troppo virile. Ma almeno li stava crescendo maschi, nel pieno
rispetto delle leggi divine.
24.
Donna Lia era conosciuta, rispettata e
vagamente temuta in tutto il paese e dintorni.
Le sue osservazioni, i suoi appunti,
quando espressi apertamente, se così si vuol chiamare il complesso di formalità
di cui ammantava le proprie frasi, erano vere e proprie sentenze, il più delle
volte senza appello.
Non c’era evento, mondano o privato, che
avesse una certa rilevanza sociale a cui lei non era invitata caldamente a
partecipare.
La sua presenza era garanzia di buona
reputazione e solida aderenza ai dettami delle tante leggi non scritte di bon
ton.
Qualcuno, non senza invidia, asseriva
che fosse invece garanzia di noia e ingessata formalità. Con lei spaparanzarsi
al sole su un bel plaid a cantare e ballare a piedi nudi sarebbe stato
impensabile. Si poteva, certamente, organizzare un pic-nic ma con stile ed
eleganza, il che equivaleva, per i maligni di cui sopra, ad una odiosa
ostentazione di oggetti modaioli e di pregio, conversazioni laccate e grandi
sbadigli.
Una significativa alzata di sopracciglia
metteva a tacere le chiacchiere meschine di chi, sbandierando libertà, non
faceva altro che intaccare le conquiste di educazione dell’era moderna.
Al giorno d’oggi anche una persona di
estrazione se non infima comunque bassina poteva, con le dovute accortezze,
adeguarsi, apprendere quelle regole di comportamento che distinguono l’uomo dai
cavernicoli, possibilmente andando a reprimere con disciplina ed esercizio
costante l’elemento dionisiaco, i sentimenti, gli istinti primordiali.
A cominciare dal cibo e dalla repressione
di quei bassi istinti che molti confondevano con l’amore. Figurarsi, come se un
abbraccio appassionato potesse garantire la retta dell’università!
Esercitare la propria volontà con
rigorosissime diete, preparando piatti elaborati, scenografici era inoltre un
suo punto fermo.
L’arrivo di René, così disinvolto ed
elegante, tanto diverso da lei avrebbe forse potuto incrinare il suo prestigio
tanto faticosamente conquistato ma lei avrebbe saputo certamente come irretirlo
e inserirlo nella sua cerchia di conoscenze così da poterne controllare
movimenti e impatto degli stessi su quello che lei, in base a sue
personalissime teorie, aveva assurto a suo territorio.
25.
Dal giorno dell’inaugurazione Penelope
si sentiva più leggera. La cupezza che le attanagliava il cuore da un tempo di
cui non ricordava l’inizio si era improvvisamente diradata, un po’ come la
bruma nelle mattine d’autunno.
Le era sempre piaciuto guardare la
nebbia che avvolgeva i paesaggi rendendoli per qualche tempo invisibili, diversi.
I contorni, le linee di confine tra
spazio ed elementi che lo compongono parevano smussarsi fino a dissolversi per
poi riaffiorare alla superficie dell’immanenza.
Le sembrava che in quelle ore, in quegli
istanti anche lei potesse diventare indistinto elemento del tutto e che il
tutto divenisse partecipe di quel sentimento di incompiutezza che ne
contraddistingueva l’umore da qualche tempo, non avrebbe saputo dire quanto,
forse da quando René se n’era andato la prima volta, ma non ne era certa e
comunque non voleva pensarci.
Non aveva mai veramente dato peso a
quella sensazione di parzialità costante che ne attenuava la forza passionale,
una caratteristica forse discutibile ma peculiare del suo essere. Ultimamente
aveva imparato a reprimerla per non lanciarsi più in qualche progetto che le
prosciugava le energie e alla fine non la soddisfaceva mai fino in fondo anche
se gli altri pensavano che tutto fosse straordinariamente ben fatto, e in così
poco tempo!
I suoi occhi erano febbrilmente vivi,
sembrava la stessero cercando.
Non voleva farsi illusioni.
Sarebbe stato bene tenere i remi
saldamente in barca.
Per il momento avrebbe evitato di andare
nella bottega.
Almeno fino a quando non avesse chiarito
con sé stessa le sue priorità.
La camminata mattutina l’aveva aiutata a
pensare nel giusto modo.
Era anche un po’ stanca, aveva fatto un
giro ben lungo.
“Penelope, ciao, che piacere vederti,
entra, entra a prendere una tisana con noi”
Era proprio la voce inconfondibile di
Muriel.
Il suo sguardo aveva vagato in cerca di
una spiegazione plausibile fino a fermarsi sull’insegna pitturata a mano.
“Ti piace l’insegna? L’ho dipinta io,
dai entra, ti vedo un po’ stanca”
Entrò e riuscì a balbettare, tra la
soddisfatta curiosità di Lauretta e la preoccupata premura di Carmencita, che
sì, era un po’ stanca perché aveva camminato a lungo per un motivo che non
riuscì a precisare.
René era andato a prendere qualcosa da
mangiare visto che Paolino aveva dovuto correre dalla sorella Brigida per
qualche questione urgente.
Penelope si rilassò sapendo di avere
qualche minuto a disposizione per elaborare una scusa plausibile ma le sue
riflessioni vennero intercettate dagli occhi di Lauretta che sapeva benissimo
in che modo intrattenere una lunghissima conversazione con una persona senza
destare sospetti e soprattutto senza lasciar via, né tempo, di fuga.
Muriel e Carmencita le ressero il gioco,
pur non essendo edotte sui particolari avevano ben capito la situazione e,
senza neanche bisogno di un cenno d’intesa, avevano iniziato un vero e proprio
balletto di parole e battute cui Penelope non avrebbe potuto sottrarsi.
26.
Cosa volesse mai Brigida da Paolino era
presto detto: gli avrebbe fatto una bella lavata di capo stavolta e non avrebbe
lasciato correre come avevano sempre fatto i loro genitori.
La presenza del fratello nella bottega
era quanto mai sconveniente, le persiane e le serrande del paese la schernivano
già.
Ne era più che certa.
Sant’Anselmo di Canterbury e San
Sebastiano non avrebbero potuto proteggerlo dagli sguardi pettegoli e cattivi
delle malelingue.
Dapprima aveva pensato che Guccio fosse
un’emanazione del maligno ma poi si era convinta che fosse un’espressione della
volontà dell’Altissimo per mettere alla prova la sua fede in Lui. Ah ma avrebbe
potuto star certo che lei non si sarebbe fatta scrupolo di dimostrare tutta la
sua pia devozione in qualunque modo avesse potuto, l’ispirazione e la guida
gliel’avrebbe infusa tutto il suo amore per Santa Caterina da Siena.
“Guccio carissimo, che piacere vederti.
Ti trovo sciupato, che fai mangi poco?”
“Brigida cara, dici? Te sei in splendida
forma invece.”
“Forse hai bisogno di mangiare qualcosa
di buono, ben cucinato”
“A proposito, quasi dimenticavo. Ti ho
portato una Sacher fatta con le mie mani, so che ti piace tanto. La panna
d’alpeggio non l’ho trovata, mi spiace, per cui ho dovuto acquistare quella di
allevamento, non intensivo s’intende ma il sapore è leggermente diverso. Anche
il burro, ho usato il crudo della fromagerie Saint Xavier ma non è la stessa
cosa.”
“Oh grazie, non dovevi disturbarti”
“Nessun disturbo, sai che cucinare mi
rilassa. Ho preparato pure qualcosa di salato ché tanto tu coi fornelli hai
litigato da tempo immemore, non te ne avere a male Brigidina cara ma prevenire
è meglio che curare”
“No, no, figurati. Ecco appunto, Guccio,
prevenire è meglio che curare”
“Brigida allora che ti è capitato
stavolta?”
“A me assolutamente niente. Comunque la
differenza col il burro d’alpeggio la senti soltanto tu questa Sacher è
squisita.”
“Mi fa piacere che ti piaccia. Ognuno ha
i suoi gusti… oh santa miseria ti è andato per traverso, sei diventata paonazza”
“No, tutto bene, tutto bene. Senti
Guccio, la mia è una convocazione in piena regola”
“Ah tesoro, lasciami stare che ho le
lune storte da qualche giorno”
“Da quando ha aperto il negozio di
quella tua amica senza vergogna?”
“Chi è senza peccato scagli la prima
pietra, ricordi? Comunque immagino tu stia parlando di Lauretta.”
“Proprio! E ha pure portato il prete
sulla cattiva strada, in chiesa si è risposata per ben quattro volte, senza
neanche avere la buona creanza di…”
“…di uccidere il marito come la tua
amica?”
“Non lo ha ucciso”
“Gli ha semplicemente somministrato una
zuppa di galerina marginata e cortinarius speciosissimus con secondo di botelus
satanas e contorno di carpaccio di amanita verna, così tanto per non sbagliare”
“Non è colpa sua se non conosce i
funghi”
“Per raccoglierli è necessaria una
apposita licenza, un patentino”
“E lei li ha raccolti lo stesso, ma una
cosa è una multa per mancanza di patentino raccogli funghi e un’altra un’accusa
di omicidio”
“Già già, la vedova inconsolabile. Dov’è
adesso?”
“L’ultima cartolina l’ha inviata dalle
Cayman”
“Ah, dimenticavo che il nuovo consorte è
un trafficante d’armi”
“Non è un trafficante d’armi, lavora per
una importante multinazionale”
“Che produce armi”
“Non le fabbrica mica lui”
“Certo, certo”
“Sei impossibile”
“Che volevi dirmi?”
“Ti volevo chiedere di quel René”
“Tranquilla, è etero. Non ti chiederò di
farmi da testimone di nozze per il momento, puoi mangiare la Sacher con tutta
la serenità che richiede”
“Non è questo il punto”
“Brigida, anch’io ti voglio bene pure se
sei una bigotta con ossessioni ricorrenti, ora devo andare”
“Guccio, non ho finito!”
“Ciao Brigidina cara, stammi bene e
saluta le amiche di preghiera”
“Guccioooo!”
27.
“Chi lascia la via vecchia per la nuova
sa quello che lascia ma non quello che trova. Pensavo di prendere una
scorciatoia e invece mi sono perso tra le case costruite di recente. C’erano
prati e canneti quando ero ragazzetto e adesso sembra una nuova città. Comunque
eccomi qua, croissant e ciambelle… direi tiepide. Ciao Penelope, che ci fai
qui?”
“Ciao René, ma niente, stavo facendo una
camminata e mi sono persa, poi ho chiacchierato un po’ con Carmencita, Muriel e
Lauretta…”
“Ah e dove sono adesso?”
“Sei nella bottega, ma ti senti bene?”
“No, dico, dove sono loro adesso?”
“Come dove sono loro… adesso… già, dove
sono loro adesso?”
“Forse sono venute a cercarmi?”
“Me lo avrebbero detto, penso”
“Già. Sei sicura di star bene?”
“Sì sì, tolgo subito il disturbo,
tranquillo, magari tu pensi che io stessi parlando con… non so con il mannequin.
Io veramente quando mi sono accorta di essere arrivata qui avrei voluto proprio
andarmene e non so perché… stavo passeggiando per godere un po’ di aria
frizzante… sai è… è tonificante e poi pulisce la mente e manda via le nubi…
cioè non che io abbia le nuvole in testa di solito è che avevo voglia di
camminare”
“È un’ottima abitudine”
“Cosa?”
“Camminare e perdersi nei propri
pensieri nebulosi per poi ritrovarsi in un posto che si stava cercando di
evitare, è così?”
“No, che c’entra a me questa bottega
piace moltissimo, è carina, non stavo cercando di evitare proprio un bel niente
è che”
“Anch’io stavo cercando di evitarti”
“Ah ma io proprio non so di che parli”
“Non stavi cercando di evitarmi?”
“Proprio no, cioè non ti sono venuta a
cercare, stavo semplicemente facendo una camminata e mi sono trovata qui, poi
Lauretta e Muriel e Carmencita… ma dove saranno adesso?... hanno iniziato a
parlare e non la finivano più, non che non mi piaccia discorrere con loro ma
già avevo fatto un giro lungo e l’unica cosa da fare sarebbe stata tornare a
casa”
“Vuoi un croissant o preferisci una
ciambella?”
“Scusa?”
“Ho portato la colazione ma se loro sono
uscite per qualche incombenza intanto potremmo spizzicare qualcosa. Io ho una
fame e se tu hai fatto un giro così lungo avrai probabilmente bisogno di
mangiar qualcosa”
“Ah, beh, sì, perché no?”
“Quale preferisci?”
“Non saprei”
“Facciamo così: prendiamo mezza
ciambella e mezzo croissant per uno, ti va?”
Muriel, Lauretta e Carmencita si erano
praticamente dileguate lasciando a Penelope e René tutto il tempo, e l’agio, di
fare colazione insieme.
28.
“Pensi che si siano accorti che siamo
uscite dalla porta di servizio?”, chiese ridacchiando Carmencita che non si
sentiva così allegra da quando era una ragazzina, le era sembrato di tornare ai
tempi di piripiribozza, cucciolapentola e di quegli altri giochi scemi che si
facevano in paese.
Giocare a campana o fare le figure con
l’elastico nel cortile della scuola le era sempre piaciuto tanto, era
bravissima ma aveva quasi dimenticato la spensierata gaiezza di quei pomeriggi,
almeno fino a quel momento.
“Non mi sembra che si siano premurati di
venirci a cercare” rispose Muriel ridendo sguaiatamente.
“Vabbe’, che dite li andiamo a
disturbare un po’?”, propose maliziosamente Lauretta.
Aspettarono quel tanto che bastava per
farle smettere di gongolare e ridacchiare e si incamminarono verso la bottega
ma dovettero tornare indietro un paio di volte perché continuavano ad avere la
‘ridarella’.
Quando entrarono nella bottega avevano
gli occhi felici, birichini e inumiditi dalle lacrime ma cercarono di darsi un
contegno con qualche colpetto sui fianchi o un pizzicotto di quando in quando.
29.
“Oh René, sei qui, ma dove sei andato a
compare i cornetti?” chiese con aria innocente Lauretta
“Penelope, scusa se ti abbiamo lasciato
sola ma vedo che hai trovato compagnia”, rincalzò Muriel mordendosi la lingua
per non ridere
“Buongiorno, no ma io stavo proprio per
andar via”
“Ma no, che dici, prendiamo un caffè”,
la fermò Carmencita che si stava ormai divertendo moltissimo.
“Chi la fa l’aspetti”, affermò René
aggiungendo “so che siamo tutti quanti a dieta ma queste ciambelle sono proprio
soffici e i cornetti così ben sfogliati…”
“Ma sì dai, faremo uno strappetto alla
regola. Passami la bomba con la crema al cioccolato” rispose ridendo Lauretta
guardando Muriel di sottecchi
“Magari Lauretta quella al cioccolato la
mangio io, tu prendi il cornetto vegano”, la rimbrottò Carmencita che sembrava
tornata bambina
“No, il cornetto vegano no, dai”
“Sì, il cornetto vegano sì”, asserì
Muriel mettendole la pasta tra le mani e togliendole così ogni speranza di
tuffarsi nella più grassa e calorica brioche.
“Io devo proprio andare, davvero o farò
tardi per… per”
“Rimani, tanto queste tre pesti non ti
lasceranno andare, anzi sai che ti dico?, posso accompagnarti?”
“Dove René?”
“Ovunque”
30.
Lauretta era soddisfatta e felice.
Avrebbe proprio voluto vedere Guccio, detto Paolino, e chiacchierare con lui
per tutta la notte, raccontando per filo, per segno e con parecchia fantasia,
quello che era accaduto quella mattina. Sembrava che tutto avesse
improvvisamente iniziato ad avere un senso compiuto.
Paolino però non sarebbe tornato prima
di tre giorni e parlare attraverso qualche mezzo elettronico non era nella
natura della loro amicizia.
Attese pazientemente e si accorse che la
sua vita era sempre stata piena di tante passioni e poco amore. Si incupì, la
sua proverbiale allegrezza sembrò svanire d’incanto insieme alla sua voglia di
fare. Decise che avrebbe trascorso le ore che la separavano dall’incontro col
suo amico in apatico torpore.
“Buongiorno Muriel, ma erano René e
Penelope quelli che ho visto uscire poco fa?”
“Buongiorno Paolino, ma non dovevi
essere all’estero? Va di là che Lauretta ha deciso di chiudersi a riccio,
magari se ti vede potrebbe cambiarle l’umore”
“Corro”
Quando lo vide un sorriso luminoso la
trascinò via dai suoi pensieri aquilone e la riportò alla sua abituale gaiezza.
Si mise a parlare fitto fitto cercando
di non ferire il suo amico Guccio, il quale cercò di consolarla asserendo che
era rimasto con una scusa perché aveva incontrato una persona ammodo. Forse non
sarebbe stato campane e abito bianco ma si piacevano. Le mostrò le foto e le
raccontò che faceva l’aviatore.
“Bellino è bellino, sembra pure
simpatico ma dici che è fedele?”
“Potrebbe e comunque questo dovrai
dirmelo tu”
Le comunicò tutti i dettagli che aveva
potuto apprendere. Lauretta era galvanizzata dalla nuova missione in cui si
sarebbe lanciata con gran fervore chiudendo per sempre la porticina del
rimpianto, della saudade, per il grande amore che non aveva, e forse mai
avrebbe, incontrato.
31.
Carmencita sistemò la bottega con la
solerzia che la caratterizzava quando decideva di rimettere a posto qualcosa di
importante.
La presenza di René aveva scombussolato
fin troppo le sue convinzioni, i suoi piani e le vite delle sue socie e
migliori amiche.
Si sentiva un po’ più fiduciosa nelle
persone, questo sì, e aveva anche riso come non le capitava da tantissimi anni,
era vero, ma…ma forse non c’era proprio nessun ‘ma’, avrebbe dovuto ammettere
che era felice, tutto sommato, della sua presenza.
Non avrebbe mai creduto, se
gliel’avessero raccontato, che avrebbe provato un senso di benessere anche
grazie ad un uomo che non era uguale a tutti gli altri, che poi, a ben
guardare, neanche gli altri erano proprio tanto simili, anche loro avevano
sentimenti, esigenze, paure, pensieri. Beh, magari meglio non esagerare. La
stragrande maggioranza rientrava nelle categorie in cui li aveva relegati e non
avrebbero dovuto intrecciare il placido scorrere della sua esistenza.
Aveva che suo marito aveva talune
fragilità che tentava di mascherare dietro una facciata di cliché. Per qualche
istante le era sembrato che lui detestasse le partite e guardare gli sport ma
che lo facesse perché così avrebbe avuto qualcosa di cui parlare con gli altri
mariti che ben sapevano di non dover forzare gli steccati che dividevano il
loro mondo dall’universo delle loro consorti.
Provò a parlargli della bottega, lui la
guardò smarrito, cercando un appiglio cui aggrapparsi nel caso avesse fornito
la risposta sbagliata. Carmencita gli stava raccontando qualcosa di sé e lui
non sapeva davvero come reagire. Avrebbe dovuto preoccuparsi o dimostrare
interesse? Ricordò una barzelletta che aveva letto da qualche parte, le porse
un bicchiere di vino e le avvicinò qualche stuzzichino senza offrirglielo, non
era certo che le piacessero, se stesse facendo una qualche dieta che proibiva
proprio quel cibo. Il movimento fu cauto e circospetto, Carmencita notò per la
prima volta la quantità di attenzioni che racchiudeva quel semplice gesto, le
venne spontaneo accarezzargli la mano. Lui non la mosse, non poté fare a meno
di spostare lo sguardo a destra e sinistra, alternativamente, lei intrecciò le
loro dita e con l’altra mano gli assestò una carezza sul volto. Lui era in
tilt, non capiva il perché di tanta improvvisa dolcezza, gli piaceva ma non
sapeva cosa lei si aspettava che lui facesse. Non voleva interrompere quel
momento: era rilassante, gradevole. Le disse che era molto orgoglioso di lei.
32.
Muriel osservò soddisfatta l’insegna.
“Il Chiacchierino” era proprio quello
che avrebbe voluto, una bottega, non un negozio dove acquistare cose che poi si
lasciano da qualche parte, distrattamente.
Un refolo di vento le scompigliò i
capelli.
Provò una gran voglia di concedersi un
lusso.
Salutò le sue amiche e socie e si recò
senza indugio verso la sua meta.
Entrò in libreria, acquistò un romanzo,
si accomodò ad un tavolino, ordinò una bella centrifuga di frutta e trascorse
il pomeriggio a leggere.
33.
“Voglio che tu sia sincero”
“Lo sono sempre stato”
“Uhmm è vero ma voglio sapere una cosa”
“Dimmi”
“Perché te ne sei andato?”
“Perché me ne sono andato?”
“Eh, sì”
“Hai la memoria corta, vedo”
“Non ho la memoria corta, non pensavo
che…”
“…che avrei preferito andarmene?”
“Ma preferito a che cosa, scusa?”
“Che vuol dire a che cosa ma non ricordi
che non mi volevi più vedere né sentire?!? Io continuavo a portarti fiori,
sembravo quel personaggio maschile della Canzone di Marinella che ‘bussò
cent’anni ancora alla tua porta’ e non ti degnavi neanche di parlarmi”
“Ah io? Devo proprio avere la memoria
corta perché mi pareva il contrario sai…”
“Ti propongo un gioco”
“Dimmi”
“Facciamo che invece di rinfacciarci
cose accadute qualche lustro fa decidiamo di goderci la vita ed essere felici
insieme?”
34.
Penelope ebbe un sussulto quando vide
arrivare René con un cestino di vimini intrecciato a mano, rivestito con un
canapone rifinito all’uncinetto e foglie verdi a forma di cuore, colmo di
frutti arancioni.
Appena li ebbe assaggiati un senso di
vertigine la avvolse tra le spire di un déjà-vu che la riportò anni indietro.
Il sapore delle albicocche mature colte
di primo mattino è indimenticabile, fresco, dolce e asprigno al contempo, una
di quelle sensazioni che rimangono impresse nella memoria emotiva.
I suoi genitori avevano acquistato un
marchingegno per preparare ottimi succhi di frutta e quell’anno gli alberi si
erano orgogliosamente gonfiati di succulente prelibatezze. Appena svegli
andavano nel giardino, non lontano dalle mura, raccoglievano quelle bontà… quante
ce n’erano!
La cucina era un trionfo di arancione e
verde, il grande pentolone per marmellate e conserve sempre in giro, l’odore
dolciastro si univa alla spensierata allegrezza di quell’estate.
Lei era appena all’inizio della sua
pubertà, stava diventando una splendida giovane donna ma non se n’era ancora avveduta.
Sua madre, le sue zie e le sue cugine
più anziane la motteggiavano ma lei non capiva perché le dicessero tutte quelle
sciocchezze.
Un giorno era tornata a casa con il
volto livido, le labbra tremanti e un broncio nouvelle vague.
35.
“Amore che è successo, che è quella
faccia?”, aveva chiesto preoccupata sua madre
“Ah niente, figurati”, aveva risposto
Penelope piccata
“Cosa devo figurarmi?”
“Niente di niente di niente”
“E cos’è questo niente di niente di
niente?”
“Ah non te ne sei accorta?”
“Di cosa tesoro di zia?”, era
intervenuta preoccupata la zia
“Non vedi come sono vestita?”
“Perché come sei vestita?”, s’era
intromessa Gaia la più anziana tra le sue cugine
“Non ti ci mettere anche tu!” aveva
replicato piccata Penelope
“Ma perché che ho detto?” aveva risposto
Gaia andando ad aprire un pacchetto di patatine
“Dai Penelope, non la tirare per le
lunghe, che è successo?” aveva chiesto Laura, la più giovane tra le cugine più
anziane
“Mi guardavano tutti quanti!”
Una risata liberatoria aveva riempito lo
spazio sonoro della stanza e i cuori delle donne, Penelope le aveva guardate
con due occhi offesi da adolescente incompresa, la zia si prese la briga di
spiegarle:
“Amore di zia, sei piccola ma sembri già
una donna e sei bellissima, è per questo che ti guardavano”
36.
René non l’aveva guardata, ne era certa.
Non si era proprio accorto di lei neanche quando, di proposito, si era vestita
di tutto punto, aveva acconciato i capelli e si era anche truccata un po’, non
troppo, giusto per sentirsi più carina.
Aveva indossato il vestito che le aveva
regalato sua nonna, di seta con inserti in pizzo a contrasto.
Nonna Egeria aveva cercato di aggirare
il divieto della madre di Penelope a crearle il corredo regalandole di quando
in quando un vestito, una sottoveste o un asciugamano particolare e così aveva,
come si suol dire, salvato capra e cavoli.
I fiori corallo e acquamarina si
modellavano voluttuosi intorno alle rotondità sode e morbide della sua giovane
età mettendo in risalto le labbra carnose, gli occhi vivaci.
Un’eleganza naturale, unita alla
goffezza adolescenziale, traspariva dal modo in cui si muoveva, la seta le
scivolava morbidamente sul corpo, Penelope riabbassava l’orlo che si era alzato
troppo spingendolo in basso con il palmo delle mani.
Le gambe si muovevano incerte su scarpe
troppo serie per la sua indole, alternando slanci da valchiria a passetti da
geisha.
Il trucco le illuminava il volto ma ne
offuscava in qualche modo la gentilezza nei lineamenti.
Aveva convinto Lauretta, che non era mai
struccata neanche in casa e si raccontava che subito dopo il travaglio
chiedesse sempre uno specchietto per controllare trucco e parrucco, ad
insegnarle le arti cosmetiche ma in cambio aveva dovuto fare lo slalom tra le
tantissime domande sul motivo di tale richiesta.
Come prevedibile, Lauretta aveva
compreso ben prima di iniziare il suo personalissimo, e molto raffinato,
interrogatorio, cosa stesse accadendo e dentro di sé gongolava di contentezza.
37.
René aveva deciso di prendere lezioni di
flauto traverso, voleva, doveva imparare a suonare o Penelope non lo avrebbe
mai neanche degnato di uno sguardo con quegli occhi che gli facevano ribollire
il sangue soltanto a pensarci.
Quando l’aveva vista camminare un po’
sghemba con quel vestito addosso il suo unico pensiero era stato come trovare
il modo di diventare interessante per lei. Voleva stupirla, intrigarla, farla
innamorare di lui e inebriarla come lei lo aveva stregato fino a fargli perdere
il sonno.
Non era stato facile addormentarsi dopo
aver annusato il suo odore nel frusciare sensuale di quei fiori che scorrevano
liberi sulla pelle di lei e che lui avrebbe tanto voluto trattenere tra le sue
mani. I capelli e un filo di trucco avevano mostrato lo splendore assoluto degli
astri che rilucevano appena sopra le labbra, tenero adito di denti forti e
taglienti.
Si sarebbe impegnato senza sosta,
avrebbe trovato il modo, la maniera per acquistare quello strumento, suonandolo
avrebbe pensato soltanto a lei e gli sarebbe parso di poterla baciare
attraverso la boccola dell’argentea testata.
Apollo dionisiaco avrebbe voluto
divenire per poterla abbracciare e tenerla stretta a sé per l’eternità.
Aveva sentito Penelope suonare il
pianoforte in biblioteca, era bravissima e René non voleva sfigurare.
Ebbe una vertigine immaginandola vestita
in quel modo con le mani sulla tastiera bianca e nera, il mondo girava
velocemente e lui non aveva intenzione alcuna di scendere.
Decise di costituire un gruppo musicale
anche se non sapeva ancora suonare bene. Avrebbe imparato col tempo.
Intanto, si sarebbe fatto crescere i
capelli.
38.
“Ciao”
“Ciao,
che fai di bello?”
“Sto andando in biblioteca”
“Davvero?”
“Sì, vorrei suonare un po’”
“Ah
beh, certo, l’allenamento è importante”
“Sì, dicono che si dovrebbe suonare
tutti i giorni”
“Ma
non ci si riesce mai, eh?”
“Già, chissà perché”
“Perché
suoni sempre in biblioteca?”
“Oh bella, perché lì hanno un
pianoforte”
“E
tu non ce l’hai un pianoforte?”
“No, ho una tastiera”
“Non
è la stessa cosa, certo”
“L’hai notato anche tu? Voglio dire, una
cosa è fare gli esercizi sulla tastiera, e va benissimo, ma poi il pianoforte è
tutta un’altra sonorità”
“Io
sto cercando di mettere su un gruppetto ma è sempre complicato”
“Suoni?”
“Sto
imparando, cioè voglio imparare il flauto traverso”
“È uno strumento molto bello, difficile
produrre i suoni all’inizio ma una volta che hai capito il meccanismo pare sia
splendido, un po’ come il violino, entra in risonanza con il corpo del
musicista”
“Ti
accompagno se vuoi?”
“Al piano?”
“In
biblioteca, devo fare delle ricerche”
“Volentieri”
39.
“Penelope?”
“Dimmi Renato”
“Pensi
davvero che imparare a suonare il flauto traverso sia tanto difficile?”
“Più che è altro è abbastanza frustrante
all’inizio perché soffi soffi e il suono non esce”
“Ma
non è uno strumento musicale?”
“Che richiede molta dedizione”
“Pensi
che io sia incostante?”
“No però se debbo essere sincera…”
“Dimmi”
“Non credo che potrai imparare decentemente
prima di tre o quattro anni di esercizi costanti”
“Tre
o quattro anni è un tempo lunghissimo”
“Insomma”
“Da
quanti anni suoni il piano?”
“Ho iniziato a cinque anni”
“Ecco
perché sei così brava”
“Veramente non sono brava ma non mi
importa perché suonare mi piace e mi rilassa”
“In
paese dicono tutti quanti che sei bravissima”
“Qualche tempo fa avrei voluto diventare
una pianista, sai?”
“E?”
“E poi ho capito che non sarei mai stata
eccellente e mi sarei dovuta accontentare, con molti sforzi, di essere una buona
pianista senza arrivare mai ad essere sublime e allora non vale la pena
rinunciare alla mia adolescenza per essere abbastanza brava ma non geniale, mi
capisci?”
“Penso
che ti sottovaluti e poi perché dovresti rinunciare alla tua adolescenza
scusa?”
“Perché richiede tanto esercizio, per
suonare bene devi farne tantissimo e per essere meravigliosa devi avere talento
e fondamentalmente suonare tante ore e senza riposare neanche un giorno.”
“E
quindi smetti?”
“No, lo faccio per mio piacere
personale”
“Ma
puoi sempre mettere su una band”
“Rock?”
“Perché
no?”
“Verresti a vedermi suonare?”
“Sarei
sempre in prima fila”
“Dai non fare lo scemo”
“Davvero.
Comunque…”
“Che c’è?”
“Questo
vestito ti sta benissimo”
“Grazie”
40.
“Prendo
i libri che mi servono per la ricerca e vengo a sentirti suonare, va bene?”
Penelope non credeva alle sue orecchie,
forse il vestito che le aveva regalato Nonna Egeria le stava portando fortuna,
non avrebbe saputo dirlo, certamente non si aspettava che René le avrebbe
chiesto una cosa del genere.
Sistemò lo sgabello, controllò i tasti e
fece attenzione a come si sedeva.
Lauretta le aveva consigliato di portare
con sé uno specchietto per ritoccarsi il trucco di quando in quando e diede
ascolto alle sue parole.
Estrasse un piccolo beauty case dalla
borsa, si pettinò i capelli, umettò le labbra carnose con la punta della
lingua, ripassò il rossetto e limò le unghie.
Ripose di fretta lo scrigno di bellezza e
tirò fuori gli spartiti che avrebbe voluto studiare quel giorno.
Cambiò rapidamente idea e ne scelse
accuratamente uno che le riusciva particolarmente bene ma che voleva
perfezionare.
Lo posizionò sul leggio, si scaldò le
mani con esercizi, massaggi e respirazioni, e finalmente appoggiò le dita
sinuose sui tasti bianchi e neri.
Si immerse nella concentrazione più
profonda, cercando di dimenticare che René sarebbe potuto arrivare da un momento
all’altro.
Le note si rincorrevano con grazia e
veemenza, le armonie si mescolavano in un suono sempre più puro e nel giro di
mezz’ora si radunò in biblioteca una piccola folla di curiosi.
Penelope non si avvide di niente, non si
accorse della gente, non voleva neanche sapere se René fosse arrivato o meno.
Per lei in quel momento tutto era soltanto espresso in forma di note, bianco e
nero si alternavano, crome e semicrome le parvero, forse per la prima volta, le
sue più fidate compagne. Suonò con maestria e sentimento, nella sala dove era
posizionato il pianoforte non si sentiva neanche il respiro delle persone che
si erano là radunate, lei proseguì per un’ora buona senza mai staccare lo
sguardo dallo spartito e dalla tastiera.
Alla fine si fermò e guardò in cerca di
René ma non fece in tempo ad intercettarne lo sguardo perché venne inondata da
un applauso scrosciante.
41.
“Che
mi dicevi prima?”
“Prima quando?”
“Quando
mi hai detto che non sei tanto brava a suonare”
“Che non so suonare in modo eccellente”
“Ah
beh allora tutto il paese è scemo”
“Che c’entra il paese?”
“E
anche quel Maestro di musica è scemo”
“Ma che c’entra?”
“C’entra
perché penso che noi non siamo scemi e tu sei una gran fifona”
“Fifona io?”
“Sì
proprio”
“E di cosa avrei paura sentiamo un po’
che qui abbiamo Mister Coraggio”
“Hai
paura di essere brava, più brava degli altri”
“Ah sì eh?”
“Sì
e hai pure paura di iscriverti al Conservatorio”
“E perché, di grazia?”
“Perché
hai paura che poi non saresti più una di noi ma saresti quella che tutti quanti
si fregiano di conoscere perché è una musicista famosa”
“Tu non sai proprio di cosa stai
parlando e sai che penso?”
“No,
dimmi, che pensi?”
“Penso che tu non capisci niente!”
“E
tu non vuoi suonare perché hai paura di quello che dice la gente”
“Non credo proprio sai?”
“E
se studiassimo sempre insieme? Tu al piano e io in biblioteca?”
“Cioè?”
“Se
invece di stare da sola a studiare il piano ci fossi anche io con te; ammesso e
non concesso che te ne importi qualcosa di me”
“Sarebbe bello ma che ti direbbero i
tuoi amici?”
“Che
mi sono preso una bella cotta per una pianista bravissima”
Senza pensarci oltre la baciò sulla
bocca, un bacio semplice, intenso a labbra serrate. Scappò via ridendo,
lasciandola imbambolata, mentre diceva “Ci
vediamo domani alla stessa ora”.
42.
Penelope si sentiva al settimo cielo, le
sembrava di poter camminare sulle nuvole, i fiori sul suo vestito erano ali con
cui librarsi in volo fin oltre il sistema solare.
Non soltanto René l’aveva notata ma
l’aveva sentita suonare, l’aveva spronata a seguire i suoi sogni, le aveva
promesso di studiare con lei e le aveva anche stampato un bel bacio sulla
bocca.
Il suo sorriso le era entrato nel cuore
come un raggio di arcobaleno e lei sentiva ancora ondate di piacere diffondersi
dalla base della schiena fino alle braccia.
Guardò le sue mani e le parvero meravigliose,
era come se non le avesse mai viste prima, senza neanche accorgersene tornò a
casa di corsa.
Sua madre non le disse niente ma la
guardò con un orgoglio malcelato dietro un burbero rimprovero per i capelli
spettinati.
La notizia che in paese c’era una
pianista giovanissima e piuttosto talentuosa era trapelata ben oltre i confini
territoriali del paese ed era giunta alle orecchie allenate di Nonna Egeria
prima ancora di varcare le mura della biblioteca.
Penelope si specchiò e si accorse di
essere donna, giovanissima ma decisamente una donna e tale consapevolezza di sé
le provocò una strana vertigine.
43.
Lauretta era su di giri, aveva saputo da
fonti certissime che un talent scout o qualcosa del genere sarebbe passato
casualmente in biblioteca un pomeriggio ed era riuscita a convincere Nonna
Egeria a far confezionare un abito come si deve alla giovane Penelope.
Non le aveva spiegato il motivo ma le
aveva fatto capire che forse stavolta Bea, la madre della talentuosa pianista,
sarebbe stata troppo impegnata a crogiolarsi nell’orgoglio materno per
sollevare obiezioni sulla questione del corredo.
Avevano trovato una seta splendida,
morbida e luminosa, con una fantasia perfetta per la giovinetta e Lauretta si
era industriata a cercare un cartamodello che potesse fare al caso loro,
avrebbe dovuto mettere in risalto il volto di Penelope, le sue mani agili, i
fianchi e i seni acerbe rotondità che si stagliavano su lunghe gambe allenate.
Erano riuscite nell’intento e quando
Nonna Egeria portò il vestito Mamma Bea non oppose alcuna resistenza anzi era
più che contenta.
“Meno
male che ci hai pensato tu non sapevo più che fare”
“Perché, che
è successo?”
“Ah, io
non lo so, figurati se mi dice qualcosa ma l’altro giorno è tornata correndo,
sembrava che fosse felicissima e il giorno dopo è arrivata con un muso lungo ma
così tanto che rischiava di inciamparci sopra.”
“E come
mai?”
“Mah dice
che non ha niente da mettere… ha l’armadio stracolmo ma dice strane cose sul
vestito che le hai regalato, pensa che le abbia portato fortuna e che adesso
non sa più che indossare e… beh ci siamo passate tutte quante dai”
“Speriamo le
piaccia…”
“Fammi
vedere”
“Eccolo”
“Ma è
splendido e dove l’hai trovata una seta del genere?”
“L’ho
trovata”
“Hai
fatto benissimo”
44.
Non sapeva nemmeno lui chi gli avesse
dato il coraggio di baciarla ma l’aveva fatto ed era stato bellissimo.
Le labbra di Penelope erano molto più
carnose e morbide e turgide di quanto avesse immaginato e lei era semplicemente
fantastica.
René aveva deciso di riporre l’idea di
imparare a suonare il flauto traverso in un lontano cassetto di desideri da
realizzare forse un giorno, avrebbe soltanto fatto la figura dello scemo e
ormai ne era certo: a Penelope lui piaceva.
Si era anche accorta del cambiamento
nella capigliatura e lo aveva fatto parlare.
Se gli avessero chiesto dove avesse
trovato il coraggio di dirle tutte quelle parole, davvero, non avrebbe saputo
cosa rispondere.
Forse aveva esagerato ma qualcuno
avrebbe dovuto spronarla, incoraggiarla, farle capire che è speciale, non
soltanto ai suoi occhi.
Sentiva di aver fatto la cosa giusta.
Sua madre, vedendolo arrivare tanto
emozionato, si era preoccupata lì per lì ma l’aveva lasciato libero di
sprizzare gioia da tutti i pori e si era limitata a chiedergli se avesse voglia
di acquistare qualcosa di nuovo da indossare o magari un profumo.
Un profumo era una di quelle cose cui
non aveva mai pensato, stava forse diventando grande?
45.
L’idea del profumo gli era piaciuta
molto.
Era uscito, aveva fatto il giro di
profumerie, erboristerie e supermercati comparando prezzi e aromi e gli era
venuto soltanto un forte mal di testa.
Non era riuscito a trovare niente di
niente che, a suo avviso, sarebbe potuto piacere a Penelope.
Si concentrò dunque su qualche dettaglio
unico, qualcosa che lei avrebbe certamente notato.
Entrò in tutti i negozi di abbigliamento
del paese e, anche lì, non riuscì a trovare qualcosa che facesse alla bisogna.
Ad un primo momento di frustrazione si
alternò uno scoramento quindi un’arrabbiatura rumorosa e infine la risoluta
determinazione a risolvere altrimenti la questione.
Cosa avrebbe fatto?
Semplice, avrebbe chiesto a Lauretta.
Lei avrebbe saputo sicuramente escogitare
una qualche soluzione anche se avrebbe dovuto trovare il modo di chiederle
consiglio senza dare troppe spiegazioni.
No, anche quella era un’idea balzana.
Avrebbe domandato a sua nonna, la
sartora.
46.
“Nonna?”
“Dimmi René, che c’è?”
“Senti, posso farti una domanda?”
“Certo basta che sia veloce ché devo
consegnare un po’ di vestiti e ho il laboratorio tutto sossopra”
“Se vuoi posso aiutarti nel frattempo”
“Ma che idea carina e che vorresti fare
nel laboratorio?”
“Non lo so, dimmi tu”
“Oh bella, guarda lì, li vedi quei
cartamodelli?”
“I fogli di carta velina?”
“Sì quelli, ecco vedi se riesci a
trovare il verso e mettili tutti a posto in quella cesta per favore”
“Non è difficile trovare il verso, basta
capire qual è il capo e quale il piede”
“Oh, bella, tua madre non è mai riuscita
a trovarlo quel verso”
“Davvero?”
“Ti risulta che sappia tenere in mano un
ago?”
“Veramente… no”
“Ecco appunto”
“Senti, a me sembra che siano a verso
così”
“E infatti lo sono. Come hai fatto?”
“Ho visto qual era il capo e qual era il
piede e li ho messi a posto”
“Hai trovato subito il verso…”
“Sì, che c’è di difficile?”
“Oh bella è tutto lì, vedi, qualunque
sia la fanciulla che ti fa palpitare il cuore, ehm scusa scusa, la questione
che ti preme tanto, ecco, ogni persona e ogni cosa ha il suo verso, come i
cartamodelli e la stoffa. Ecco vedi quella pezza di stoffa? Se dovessi
tagliarla come faresti?”
“Penso che cercherei il punto in cui non
si sfilaccia e si taglia meglio”
“Oh bella, la taglieresti per il suo
verso”
“Penso di sì perché?”
“Perché tu da domani vieni a bottega da
me, sei bravo. Comunque, se sai capire una stoffa guardandola appena, saprai
anche capire quello che ti preme. A proposito, sarà mica la pianista di cui
parla tutto il paese?”
“Nonna!”
“Oh bella e che ho chiesto?”
47.
I talent scout erano arrivati, avevano
cercato, invano ovviamente, di camuffarsi tra i paesani che, sempre più
numerosi, si radunavano ad ascoltare la giovane pianista.
Nonna Egeria le aveva miracolosamente
fatto giungere il vestito nuovo e l’aveva baciata sulla fronte, quasi a volerle
stampigliare una bella stella d’amore.
Penelope si sentiva agitata ma in suo
soccorso arrivò René che la guardò estasiato, le pupille di lei si spostarono
verso il basso a schivare il rossore che le stava invadendo le gote.
“Che bello questo vestito, Nonna
Egeria?”
“Sì, s’è sbizzarrita”
“Me l’ha detto mia nonna”
“La sartora? Avrei dovuto immaginarlo”
“Vuole che vada a bottega da lei sai?”
“A bottega?
“Sì per imparare il mestiere”
“E il flauto traverso?”
“Non fa per me”
“Ma non era un tuo sogno?”
“Posso confidarti un segreto?”
“Penso proprio di sì”
“Mi prometti che non riderai di me?”
“Dimmi”
“Promettimelo”
“Prometto che non riderò di te”
“Volevo studiare flauto traverso per far
colpo su di te: sembra che la musica sia la tua passione e ho pensato che mi
avresti notato ma forse potrei piacerti anche come sartore, che dici?”
48.
“Hai riso! Ecco, vedi, non avrei dovuto
dirtelo, sono stato un cretino e adesso tu penserai che..”
“Io penso che ho fatto di tutto per
farmi notare da te ed ero convinta che tu non ti fossi mai neanche accorto di
me…”
“Ah sì?”
“Che scemi eh?”
“Parecchio… adesso andiamo però… ho la
sensazione che qualcuno sia venuto a vederti oggi, o almeno così si vocifera in
paese”
“Chi sarebbe questo qualcuno?”
“Un paio di talent scout pare”
“Per cosa?”
“Non lo so però in giro si dice questo”
“Per me?”
“Se vuoi posso provare ad intrattenerli
col flauto traverso ma….”
“Ma se non hai neanche il flauto!”
“Già, penso sia il caso che li incanti
tu”
Odiava quel suo modo di fare, quella sua
insostenibile languidezza quasi a dirle che lei ce l’avrebbe fatta, senza ombra
di dubbio.
Ne era innamorata, di questo era più che
certa ma non era convinta di poter davvero ammaliare qualche talent scout.
Penelope era piuttosto dubbiosa sulla
sua effettiva capacità e possibilità di riuscire davvero bene in qualcosa però
non voleva fare la figura della scema, avvicinò la sua mano a quella di René,
respirò forte, alzò il mento e disse: “Andiamo”
49.
Penelope sentiva una tenaglia di
tensione stritolarle lo stomaco, la pancia irrigidita in una smorfia
spasmodica, nella sala della biblioteca si respiravano onde di aspettativa.
Guardò lo spartito per non respirare le
paure e le speranze di tutte quelle persone che le volevano bene, l’avevano
vista camminare sul passeggino e sbucciarsi le ginocchia, che avevano lottato
nella loro vita per ottenere quello che potevano e che adesso vedevano in lei
il realizzarsi di quei sogni che avevano riposto da qualche parte, per la
giusta occasione.
Si concentrò sullo spartito e suonò come
mai aveva fatto prima.
Nella biblioteca tutti quanti
trattennero il fiato e poi esplosero in un applauso di felicità.
René le rivolse uno sguardo colmo di
orgoglio, gli occhi inumiditi dall’emozione.
50.
I talent scout si avvicinarono a
Penelope, le chiesero se le sarebbe piaciuto approfondire lo studio del
pianoforte ed eventualmente, se tutto fosse andato bene, andare all’estero per
tentare la strada di un prestigioso collegio musicale.
Penelope guardò René e tutte le persone
che erano lì.
“Mi piacerebbe studiare il pianoforte
ma”
“Ma?”
“Ma non andare via dal mio paese”
“Eppure ci sono molte
opportunità all’estero che qui non ci sono”
“Non lo so, però so che non voglio
lasciare la mia famiglia e il mio paese”
“È sicura di quello che
dice? Magari, col tempo, potrebbe cambiare idea”
René capì e si intromise nel discorso
senza neanche sapere a che titolo.
“Questa
scuola di cui parlate dov’è?”
“A New York”, rispose uno di loro
“Negli
Stati Uniti?”, chiese René
sentendosi perduto
“Già”, rispose Penelope abbassando lo
sguardo sconfortata
“E
come si chiama?”, si
informò René
“Juilliard, è la più
importante scuola di musica del mondo”,
spiegò l’altro talent scout.
“Grazie,
potreste aspettare qualche giorno?”,
domandò René
“Non abbiamo fretta”
51.
“René non ci
penso proprio”
“E invece dovresti pensarci, sai?”
“Senti, mi
dispiace deluderti ma io non sono fatta per andarmene in giro di qua e di là”
“Non devi andare in giro di qua e di là devi
soltanto andare a scuola e studiare pianoforte”
“In una città
grande e caotica come New York poi”
“Chiunque vorrebbe andarci”
“Io non sono
chiunque”
“È la grande opportunità della tua vita e io
lavorerò tutte le estati per mettere i soldi da parte per venire a trovarti”
“Non lo farai”
“Sì sei tu che non vorrai più vedere un sartore e ti
vergognerai di me”
“Ecco, lo
vedi, saremmo tutti quanti infelici”
“Penelope, senti, questa è una cosa importante,
forse bisognerebbe parlarne con qualcuno che sappia consigliarti bene”
“René io non
so cosa vi aspettiate tutti quanti da me: io sono soltanto una ragazzina e ho
il diritto di vivere la mia adolescenza come chiunque altro”
“Tu non sei né chiunque né chiunque altro, sei
Penelope e hai un grandissimo talento, fattene una ragione!”
“E a te non
importa proprio niente di me?”
“Certo che mi importa e non capisco per quale motivo
ti ostini a non capire che sei una persona particolare”
“E io non
voglio essere particolare io voglio essere Penelope e basta!”
“Penelope è particolare ed è anche piuttosto pavida a
quanto pare”
“E di che cosa
avrei paura sentiamo?”
“Di essere brava per davvero”
52.
La Juillard School era molto di più di
quanto avesse immaginato.
Penelope ebbe un senso di vertigine.
Forse quello che le aveva detto René era
giusto ma lei non si sentiva una vigliacca. Non aveva paura e sapeva di non
voler trascorrere la sua adolescenza in bianco e nero, ossessionata dalla
tastiera di ebano e avorio, in una città sconosciuta, lontana dai suoi amici,
dai suoi parenti, da quel paese che le andava stretto come un vestito troppo
attillato ma che per lei era tutto ciò che conosceva.
Abbandonare quei ciottoli, la piazzetta
e anche la sala angusta e un po’ scalcinata della biblioteca le sembrava
impossibile.
Tra quelle strade e stradette si sentiva
protetta, a suo agio.
Sapeva, in cuor suo, che non avrebbe più
provato quella sensazione di familiarità e, paradossalmente, di libertà se
fosse andata in una metropoli tanto poco a misura d’uomo dall’altra parte
dell’oceano dove si parlava una lingua straniera e non avrebbe saputo dire cosa
era giusto e cosa sbagliato. Non avrebbe potuto chiedere l’opinione di sua
nonna, sarebbe stata una persona tra le tante in una moltitudine gremita di
respiri e aspirazioni.
Nessuno l’avrebbe guardata male se si
fosse comportata in modo assurdo e forse nessuno se ne sarebbe proprio
avveduto.
Le voci che tanto ben conosceva
sarebbero sparite in un fluttuare incerto di ricordi sfocati e tutto questo le
sembrava insensato.
No, René aveva torto.
Forse era pavida, come le aveva detto,
ma le sue paure riguardavano la sua vita.
Che ne sapeva lui del sentimento di
solitudine che ti avvolge la gola quando i tuoi genitori stanno facendo una
miriade di sacrifici per farti studiare e tu non li vuoi deludere e fai di
tutto per far capire loro che non c’è proprio niente per cui affannarsi, tanto
la musica è soltanto una passione passeggera, qualcosa che non è importante ma
hai la consapevolezza di essere bravissima e sai che prima o poi dovrai
partire, andar via, lasciare tutto quello che conosci e magari, ad un certo
punto, deludere le aspettative di chi ha tanto creduto in te?
Niente ne sapeva, ecco!
Le lacrime le sgorgarono senza far
rumore e Penelope singhiozzò tutta la notte con la faccia immersa nel cuscino per
non farsi sentire, per non destare preoccupazione.
53.
Forse aveva esagerato, adesso Penelope
l’avrebbe odiato e avrebbe pensato che era un tonto, uno scemo, uno che non
capisce niente e che si intromette in questioni che non lo riguardano, un
impiccione senza arte né parte.
Arrivò da sua nonna con una faccia
lugubre e la voglia di sbattere la testa contro il muro.
“Che c’è Renatino, sta’ attento che tra
un po’ ci inciampi in quel muso sai?”
“No no niente”
“Oh bella e che la vuoi dare a bere a me
che t’ho visto attaccato al seno di tua madre?”
“Nonna dai ti ho detto che non ho niente
e vuol dire che non ho niente no?”
“È per via della pianista”
“No! Ma che c’entra?”
“Sono venuti quelli a vederla e tu?”
“Dicono che è brava”
“Oh bella questo lo sapevi anche te no?”
“Sì ma pare che sia piuttosto brava,
cioè parecchio”
“E?”
“E vogliono farla studiare a New York,
in America”
“A New York?”
“Già”
“E tu non vuoi”
“No, è lei che non vuole e io l’ho presa
per il verso sbagliato e le ho detto che ha paura di essere brava per davvero e
invece sono stato stupido”
“Ma perché, lei che dice?”
“Dice che fuori dal paese si sentirebbe
perduta, che non vuole rinunciare alla sua adolescenza e tutte queste scemenze
qui”
“Oh bella non mi sembrano proprio
scemenze e tu che hai fatto?”
“Ho detto a quei tizi di aspettare
qualche giorno perché forse lei ci avrebbe ripensato e poi le ho detto che è
una pavida”
“Proprio così le hai detto? Pavida?”
“Sì”
“Oh bella, è una parola un po’
demodé…comunque, hai fatto bene a temporeggiare con quelli lì, adesso ti aiuta
nonna tua, tu intanto impara a mettere i bottoni e stai a bottega ché io devo
fare un po’ di giri, se viene qualcuno dici di aspettarmi che torno subito, va
bene?”
54.
“Nonna sei riuscita a sapere qualcosa?”
“Oh bella, direi proprio di sì, è venuto
qualcuno a bottega?”
“Sì ti hanno lasciato un paio di buste
con delle riparazioni da fare e una con un acconto in denaro per il vestito
della “
“Ah sì bene bene. Ascolta”
“Dimmi”
“A quanto pare la tua pianista è davvero
brava”
“E questo l’avevo capito da me”
“Oh bella ma lo è parecchio”
“E anche questo lo avevo capito da me”
“Vabbè, comunque pare che la scuola di
New York che le hanno proposto sia”
“Una delle migliori al mondo, questo lo
so Nonna”
“Oh bella, dicono che sia sempre al
primo posto”
“Nonna questo lo so già”
“Vabbè, comunque pare che se venisse
ammessa in quella scuola potrebbe studiare dappertutto”
“Anche in paese?”
“Volendo ma non è la stessa cosa”
“E questo lo immaginavo”
“Oh bella vuoi che studi alla banda
comunale?”
“Insomma?”
“Insomma pare che”
“Che?”
“Oh bella mi lasci parlare? E fammi bere
anche un goccetto d’acqua ché ho una sete!”
“Nonna l’acqua nella bottiglia
dell’acquavite è finita”
“Ah sì? Oh bella anche quella nella
bottiglia della grappa?”
“Sì ma se vuoi ho quella normale”
“Oh bella, e sia, dammene un bicchiere,
non mi farà venire la ruggine, spero”
55.
Renato era uscito dalla bottega della
nonna sartora con gli occhi illuminati da una felicità indicibile. Doveva
assolutamente dirlo a Penelope, doveva vederla, incontrarla, farle capire che
c’è sempre una soluzione, anche quando sembra che non ci siano scelte né
alternative.
Corse verso casa sua, suonò il
campanello, gli rispose sua madre e le disse che non era in casa.
Forse era in biblioteca?
René corse cercando di darsi un
contegno.
Attraversò le stradine con uno strano
presentimento, non sentiva la musica diffondersi nel borgo.
Salì gli scalini dell’adito principale a
due a due, poi scese giù quasi scapicollandosi verso la sala col pianoforte.
Penelope non c’era.
René fu preso dallo sconforto.
Tornò verso la sua casa e chiese alla
madre di entrare, lei lo guardò con aria imbarazzata e gli aprì il portone.
Penelope era in casa, gli occhi rossi,
cerchiati di lacrimoni, il pigiama sgualcito, i capelli arruffati.
René si guardò intorno, istupidito.
Accettò volentieri un succo di frutta e
un bicchiere d’acqua.
56.
“Penelope,
senti, forse non è il momento, forse ho sbagliato a venire”
“No, figurati, è che ho passato una
nottataccia”
“Hai
pensato a quello che ti hanno detto?”
“Sì e forse hai ragione tu, un’occasione
del genere capita soltanto una volta nella vita e sarei un’imbecille a
rifiutare”
“Non
sei un’imbecille, sei una persona con la testa sulle spalle”
“Sì, beh, forse”
“Penelope,
ascolta: sei molto brava e puoi raggiungere i tuoi sogni ma New York è tanto
lontana e pare che ci potrebbe essere una alternativa, sai?”
“Che alternativa?”
“Però
dovresti studiare tutti i giorni e non sgarrare”
“Cioè cosa?”
“Potresti
iscriverti al conservatorio e d’estate frequentare la summer school del Berklee
College a Perugia, all’interno di Umbria Jazz, ne hai mai sentito parlare?”
“No, cos’è?”
“Umbria
Jazz?”
“No, questa cosa del Berklee College”
“In
estate fanno una specializzazione, una specie di corsi, non so bene poi
dovresti informarti meglio, di questa università, college che è considerato tra
i migliori del mondo, così potresti studiare senza dovertene andare, che ne
pensi?”
“Penso che sarebbe bellissimo!”
57.
“Dalla faccia soddisfatta direi che ha
accettato il suggerimento”
“Infatti l’ha accettato, grazie Nonna”
“Raccontami tutto per filo e per segno”
“Va bene ma prima voglio prepararle un
portafortuna”
“Un portafortuna?”
“Sì, qualcosa che possa indossare quando
andrà a parlare coi talent scout”
“Oh bella, lo vedi che hai talento?”
“Perché?”
“Oh bella perché hai già capito che
quando un artigiano mette le mani sulla materia che utilizza, sta modellando un
universo di sogni”
“Nonna non pensavo fossi una poetessa”
“Oh bella e che credi che gli artigiani
non sappiano pensare?”
“Che c’entra?”
“Oh bella mi pare logico”
“Che c’è di logico?”
“L’hai capito da te”
“Cosa ho capito da me?”
“Oh bella, come pensi di farle il
portafortuna?”
“Con bottoni e stoffa”
“Prendi i bottoni e la stoffa e glieli
porti così?”
“No, li voglio modellare a forma di
fiore”
“E perché?”
“Perché un fiore è bello come lei e va
coltivato come il suo talento ma è di stoffa quindi rimarrà sempre con lei”
“Oh bella, lo vedi che hai capito?”
58.
Penelope si sentiva leggera e felice,
René aveva trovato una soluzione e lei non avrebbe dovuto andar via dal suo
paese pur continuando a cercare di realizzare le sue aspirazioni.
Il giorno dell’incontro con i talent
scout era arrivato, respirò profondamente, indossò un vestito ornato da un
pizzo chiacchierino, adornò i capelli con il fermaglio regalatole da sua nonna
per il compleanno, raccolse le sue aspirazioni tra gli spartiti affastellati
nella cartellina.
In quel momento avrebbe voluto davvero
che René fosse lì a stringerle la mano ma doveva andare a bottega dalla nonna
sartora quel pomeriggio e certamente non avrebbe pensato a lei.
Il sorriso le attraversò il volto di
ragazzina da un orecchio all’altro quando lo vide arrivare con un fiore di
stoffa e bottoni cucito appositamente per lei.
“È
la mia prima creazione sartoriale, spero che ti porterà fortuna”
“Come sai dove sto andando?”
“Lo
so”
“Mi fa piacere che tu sia qui”
“Non
potevo mancare, non credi?”
“Giusto”
“Ti
senti pronta?”
“Sì”
“Ti
fa piacere se vengo con te?”
“Sì”
“Andiamo”
“Andiamo”
59.
Arrivarono in biblioteca, Penelope si
appuntò il fiore sul vestito, accanto al cuore. Sembrava animato dal vento
mentre il suo giovane petto danzava al ritmo del respiro, a volte lento, altre
agitato.
“Buongiorno, grazie per aver avuto tanta
pazienza”
“Buongiorno, è un
piacere avere a che fare con persone che, seppur giovani, amano ponderare le
proprie scelte, così evitiamo pericolosi quanto onerosi colpi di testa e
ripensamenti successivi”
“Ho pensato a quello che mi avete detto
e l’opportunità che mi offrite è molto più di quanto avessi mai immaginato nei
più spericolati sogni ad occhi aperti”
“La Juillard School è
effettivamente molto prestigiosa”
“Sì, lo è”
“Dunque ha deciso di
accettare?”
“Io vorrei chiedervi di prendere in
considerazione una specie di controproposta”
“Vuole declinare
l’offerta?”
“Non ho detto questo”
“Quindi?”
Il fiore sul petto di Penelope sembrava
sbatacchiato da un tempestoso temporale estivo.
“Vorrei chiedervi la cortesia di
prendere in considerazione un’alternativa che potrebbe permettermi di avere la
serenità necessaria per continuare a studiare senza dovermi allontanare dai
luoghi e dalle persone che per me sono tanto importanti, vitali, direi, per la
mia stessa ispirazione. Le persone che non vorrò deludere e che sanno spronarmi
quando è necessario, e talvolta, credetemi, i tasti sembrano le ali spiegate di
un’upupa che si crogiola sotto i raggi solari ma altre volte buie feritoie”
“La Juillard non si può
trasferire qui e non possiamo trasferire tutto il paese a New York”
“Oh lo so benissimo e non è questo
quello che vi chiedo”
“Sentiamo”
60.
Penelope spiegò per filo e per segno
quello che aveva elaborato e i talent scout rimasero piuttosto impressionati.
Sembravano piccati all’inizio ma poi
sembrarono ammorbidirsi e comprendere che forse la soluzione proposta sarebbe
stata un buon compromesso, qualcosa che avrebbe, come usa dire, salvato capra e
cavoli.
“Lei ha molto talento e
sembra anche avere la testa sulle spalle, probabilmente ciò che pensa di fare
adesso potrebbe essere la soluzione più adatta a lei.”
“Grazie, New York è una città immensa e
io temo di perdermi tra i suoi viali”
“Questo è probabile
anche se le possibilità che avrebbe lì sono decisamente superiori a quelle che
potrebbe ottenere rimanendo qui. La visibilità, le occasioni, le connessioni e
le conoscenze sono fondamentali per costruire una carriera”
“Anche il mio equilibrio lo è”
“È vero, lei è molto
giovane e potrebbe effettivamente trovarsi molto male in una realtà tanto
competitiva quale è quella newyorkese”
“A me non piace competere, mi piace fare
insieme agli altri”
“Sì, beh, ecco, New
York e la Juillard le permetterebbero certamente di avere molte più possibilità
di incontrare quegli ‘altri’ con cui potrebbe costituire gruppi o trovarsi a
suo agio, tra persone che la pensano nello stesso modo.”
“Sentite, io non conosco New York ma…”
“Ecco, infatti lei non
si rende forse conto che è una città vibrante di vitalità, in perenne fermento
culturale, dove una ragazzina potrebbe trovare una sua collocazione permanente”
“Posso farvi una domanda?”
“Certo”
“Se io dovessi trovare una collocazione
permanente negli Stati Uniti non tornerei più qui? La mia famiglia dovrebbe
scegliere se seguirmi o non vedermi per molto tempo, giusto?”
“Sì però potrebbe
arrivare a guadagnare cifre tali per cui spostarsi da un continente all’altro
Le sembrerebbe semplicissimo, ovvio quasi”
“Ecco però i soldi non si mangiano, non
si respirano, non si guardano dalla finestra. Vedete quel paesaggio? Io non mi
sento a casa se non vedo il profilo di quei monti all’orizzonte”
“Bene, la sua è
sicuramente la scelta migliore per lei. La seguiremo e cercheremo di
indirizzarla il più possibile.”
“Grazie”
“Buona fortuna e
complimenti per il fiore, è molto bello, come lei e va coltivato, come il suo
talento”
61.
“È andata”
“Che
ti hanno detto?”
“Che mi avrebbero seguita e indirizzata
per quanto possibile ma che, fondamentalmente, starei sprecando la più grande
opportunità della mia vita”
“Tu
che vuoi fare?”
“René io lontana dal paese mi sento un
pesce fuor d’acqua”
“Tutto
il mondo è paese”
“Mah”
“Che
fai adesso, piangi?”
“È la tensione”
“Ma
allora non sei felice della tua scelta?”
“René non dire cretinate e abbracciami
forte”
“Se
ti abbraccio mi viene voglia di baciarti… sei così bella”
“Anche coi lacrimoni”
“Anche
coi capelli arruffati”
“Sai che mi hanno fatto i complimenti
per il fiore?”
“Davvero?”
“Sì, mi hanno detto che è bello come me
e che va coltivato come il mio talento”
62.
“Renatino che hai fatto oggi? Com’è che
non sei venuto a bottega? Hai accompagnato la pianista?”
“Nonna, non ti si può nascondere niente
eh”
“Oh bella, il fiore qui non c’è sicché…”
“Sai che le hanno detto?”
“Della sua scelta o del fiore?”
“Del fiore”
“Che è bello come lei e che è come il
suo talento?”
“Nonna ma come fai a sapere tutto?”
“Oh bella perché sì. Della sua scelta
che hanno detto?”
“Che sta sprecando un’opportunità
rarissima e che comunque la seguiranno”
“Sai che ti dico Renatino?”
“Che?”
“Questi talent scout sono bravi a capire
i talenti e tu sei proprio bravo”
“Perché?”
“Oh bella, se con la prima creazione che
hai fatto sei già riuscito a comunicare le tue intenzioni vuol dire che sai
fare le cose a verso.”
“E quindi?”
“Oh bella, per il momento vieni a
bottega ad imparare il mestiere, vediamo se davvero hai talento e nel frattempo
cerchiamo di capire se c’è qualche modo di mandarti in una scuola o in una
sartoria d’eccellenza”
“Nonna ma che dici?”
“Oh bella ma che pensi che soltanto gli
artisti hanno arte? E gli artigiani? Sai che sarebbe questo bel Paese senza
artigiani? Un luogo come ce ne sono tanti e invece è meraviglioso e sai
perché?”
“Perché ci sono stati grandi artisti”
“Oh bella e pensi che siano usciti dal
cilindro come i conigli del mago? No, sono quelli che hanno imparato l’arte
meglio degli altri e che avevano un talento speciale, unico. Sono artigiani
eccellenti ecco cosa”
“Non esagerare nonna”
“Oh bella, non esagero? Ma senti,
Michelangelo lavorava con lo scalpello e lo scalpello che cos’è? Uno strumento
di lavoro artigiano. Prima c’erano i mastri, le maestranze e poi c’erano gli
artisti e i geni assoluti ma come hanno detto quelli? Il talento va coltivato e
va pure fatto crescere nell’ambiente giusto ché se metti il seme del fiore più
bello nel freezer quello non germoglia”
63.
René continuò ad andare a bottega e
tutti i giorni aspettava l’ora in cui Penelope sarebbe andata in biblioteca a
suonare con il cuore che gli palpitava in petto come la grancassa della banda
comunale. Più lei si esercitava a suonare, più lui si impegnava ad imparare il
mestiere del sarto.
Punti, sottopunti, asole, aghi, fili e
bottoni erano diventati i suoi amici più fidati.
La nonna lo spronava e gli insegnava
l’arte come l’avevano insegnata a lei, facendo e rifacendo per giornate intere
le stesse cose. Renatino non sembrava annoiarsi, ci si metteva di buzzo buono.
Ogni settimana imparava qualcosa di nuovo e andava avanti, con costanza e
perseveranza. Studiare gli piaceva ma quello che lo interessava davvero era la
storia, non quella delle battaglie ma quella delle persone. Cercava di capire
come si vestivano nelle varie epoche e ricordava tutto partendo da un
particolare, una tunica o un’uniforme.
Quando andava in biblioteca ad ascoltare
Penelope aveva preso l’abitudine di studiare alcuni tomi sulla storia del
costume. Lo interessavano al punto che talvolta si immergeva nella lettura e
quasi dimenticava di ascoltare la sua bella.
Un giorno Penelope smise di suonare
all’improvviso, c’erano soltanto loro due nella sala e lui non alzò lo sguardo
dal libro.
Stava copiando alcuni dettagli di un
vestito su un quaderno.
I pastelli riproponevano i colori e lui
cancellava tutto fino a che non trovava la giusta corrispondenza di tonalità e
sfumature.
Lei si incantò a guardarlo.
64.
“Cosa fai?”
“Scusa, non mi ero accorto che avessi
smesso di suonare io…”
“Sei molto bravo, sai?”
“Ma ti stavo ascoltando sai?”
“Non sono offesa”
“No?”
“No”
“Davvero?”
“Sì davvero, dai dimmi che cosa stai
facendo”
“Sto copiando i dettagli di alcuni
vestiti che mi piacciono e poi a bottega provo a riprodurli”
“Provi a riprodurre i vestiti?”
“No, soltanto i dettagli”
“Perché?”
“Sto imparando punti e sottopunti, le
tecniche di base, insomma”
“Un po’ come il solfeggio?”
“Penso di sì”
“E quindi?”
“Ecco, i punti non sono tutti uguali
sai? Ce ne sono tantissimi e nel tempo sono cambiati, alcune conoscenze sono
andate perdute, altre si sono affinate, anche in base al tipo di aghi e di
strumenti per lavorare gli utensili necessari a cucire. Una cosa è un ago di
osso, un’altra uno di acciaio, una cosa è un ago fatto a mano e un'altra un ago
sottilissimo creato da un apparecchio industriale. La cosa strana è che ci sono
alcuni stili in cui i fili sono talmente sottili che adesso non si trovano più
perché nessuno sa più come fare a produrli e quindi certi punti non si possono
più fare, capisci?”
“Sì è esattamente come per gli strumenti
musicali”
“Cioè?”
“Il pianoforte, ad esempio, è
relativamente recente e i suoni che riesci ad ottenere con un piano di oggi
sono molto diversi da quelli, che so, di una spinetta. Per cui gli spartiti
vengono sempre reinterpretati più che eseguiti alla lettera perché per ottenere
il suono originale ci sarebbe bisogno degli strumenti per cui è stato pensato e
all’orecchio del pubblico di oggi sembrerebbe forse sgradevole, quasi stonato”
“Ecco, sì qualcosa del genere anche se,
ecco vedi? Questo è pizzo di Burano del 1700 e questo è il fazzoletto con la N
di Napoleone, guarda che perfezione, c’è un quadro all’interno, ricamato con
filo sottilissimo, oggi non si potrebbe più fare perché il filo così sottile
non esiste più, non si trova e non ci sono le persone in grado di ‘filarlo’, ma
il pizzo in sé è di una bellezza sconvolgente.”
65.
“René ho un presentimento”
“Buono o cattivo?”
“Non lo so”
“Vuoi parlarmene?”
“Non lo so”
“Uhm sei misteriosa oggi, eh?”
“Prometti che non mi prenderai in giro
per quello che ti dirò?”
“Prometto che non ti prenderò in giro”
“Per quello che ti dirò”
“Per quello che mi dirai”
“No, lo devi dire tutto insieme”
“Prometto che non ti prenderò in giro
per quello che mi dirai. Va bene?”
“Va bene”
“Qual è questo presentimento?”
“Sai quando mi hanno proposto di andare
a New York?”
“Non potrei certo dimenticarmene”
“Ecco, io penso che..”
“Che?”
“Che forse sarai tu a partire”
“Per andare dove scusa?”
“A crearti la tua strada”
“Perché, non mi vuoi più vedere?”
“Non ho detto questo”
“Sei ancora arrabbiata perché hai
pensato che non ti stessi ascoltando”
“Non sono mai stata arrabbiata per
quello anzi”
“Noooo”
“Davvero”
“Uhm”
“Il fatto è che forse la sartora ha
ragione e ha visto lungo a metterti subito a bottega”
“Ma dai; sto soltanto imparando un
mestiere”
66.
Penelope l’aveva presa alla larga, si
era informata con discrezione e aveva cercato di capire se effettivamente René
fosse bravo a cucire come le era sembrato.
In paese si diceva che la sartora
dedicasse parecchio tempo a lui e, conoscendone il carattere schietto e
burbero, non c’era da temere il contrario: non avrebbe mai perso tutte quelle
ore con Renato se non ne fosse valsa la pena.
Oltretutto, non si era mai sentito
neanche un urlo, un grido o una parola storta, cosa alquanto insolita. Tutte le
persone che avevano provato ad andare a bottega da lei erano scappate a gambe
levate, talvolta anche in lacrime, perché era fatta a modo suo e non sopportava
insegnare a chi non aveva voglia di imparare o capacità di farlo.
Con René non gridava nemmeno quelle rarissime
volte in cui arrivava in ritardo.
Probabilmente aveva una speciale
predilezione per lui o forse ne aveva intuito le capacità, compreso le
potenzialità e lo stava covando come una chioccia.
67.
“René ti sfido”
“Mi sfidi a fare che?”
“Voglio commissionarti un abito, ti va
di cucirlo?”
“Non lo so ancora fare ma ti prenderei
molto volentieri le misure”
“Ah beh, se non lo sai ancora fare…”
“Ma le misure posso prendertele, fidati”
“Che peccato”
“Perché?”
“Mi serviva proprio”
“Che devi fare?”
“Forse posso partecipare ad un concerto
e volevo vestirmi in modo speciale”
“Te l’hanno proposto i talent scout?”
“Come fai a saperlo?”
“Pare che siano passati da queste parti
ultimamente”
“Il taglia e cuci l’hai imparato bene
vedo”
“Che c’entra?”
“Allora, me lo fai questo vestito sì o
no?”
“Ti ho detto che non sono ancora capace”
“E impari, io voglio indossare un abito
cucito da te”
“Devo chiederlo a nonna”
“Quando me lo fai sapere?”
“Domani va bene?”
“Va bene”
68.
“Nonna?”
“Che c’è Renato, t’ha mozzicato la tarantola?”
“No, perché?”
“Oh bella, sembri intimorito e che mi
devi chiedere mai?”
“Ma niente, lascia perdere”
“Oh Renatino, non ti sarai mica messo in
qualche casino?”
“Ma che dici nonna, no il fatto è che?”
“Oh bella ma te l’hanno mangiata quella
lingua? Non aver tema”
“Sai Penelope?”
“La pianista?”
“Eh, sì, la pianista”
“Beh?”
“Forse dovrà partecipare ad un concerto”
“Oh bella, e mi chiedevo che cosa
fossero venuti a fare quei due”
“Ecco, vedi, lei mi ha chiesto”
“Di accompagnarla, ma va bene, e che
problema c’è?”
“No, mi ha chiesto”
“Oh bella ma vuoi parlare o ti devo
tirar fuori le parole con la tenaglia?”
“Di confezionarle un abito”
“Oh bella hai già le prime clienti. E
sia, facciamo così, le prepareremo insieme una tunichina semplicissima e tu la
decorerai, va bene?”
“Grazie nonna”
69.
La sartora aveva chiesto a Lauretta di
andare a prendere le misure della pianista per non destare troppi sospetti con
la madre di Penelope e per evitare inutili pettegolezzi. S’era espressa
chiaramente, i due ragazzini si volevano bene, lei dal canto suo non era poi
così contraria ma neanche troppo d’accordo.
“Sono così giovani Lauretta mia”
“Ma sono due giovani a modino”
“Oh bella, la testa sulle spalle ce
l’hanno, per questo non c’è che dire”
“E non mi hai detto che René viene a
bottega da te?”
“Oh bella, tutti i giorni e non si
lamenta mai né mi fa lamentare sai?”
“Che non faccia lamentare te mi sembra
già qualcosa di straordinario”
“E che ci sarebbe di tanto
straordinario?”
“Tutte e tutti quelli che sono venuti a
bottega da te sono scappati dopo pochi giorni, talvolta piangenti”
“Oh bella e se non hanno voglia di
lavorare o non hanno punto fantasia di imparare non è certo colpa mia”
“Vabbè, quindi mi pare che René invece…”
“È bravo sai? E ha pure tanta voglia di
apprendere il mestiere. Guarda che ha fatto, ti faccio vedere il suo quaderno,
ogni tanto lo lascia qui. Io faccio finta di non sapere che ce l’ha guarda che
disegni fa”
“Belli ma cosa sono?”
“Oh bella, dettagli”
“Dettagli di che?”
“Di costumi, di vestiti d’epoca. Quando
va in biblioteca a sentire la pianista”
“Penelope”
“Eh sì, lei, oh bella, quando va là
scartabella i libri di storia e di storia del costume e ricopia i dettagli, poi
viene a bottega e rifà per ore le cuciture fino a che non gli vengono uguali. È
proprio bravo.”
“Se continua costì ci diventerà un
grande sarto”
70.
“Penelope tesoro, vieni di là con me”
“Va bene Lauretta ma che mi devi dire?”
“È un segreto”
“Ah qui non ci sono segreti, mi dovete
dire cosa state confabulando”
“Mamma io non ne so niente”
“Bea non ti intromettere e non essere
noiosa
“Lauretta ti ricordo che”
“Sì sì poi mi ricorderai, intanto io e
Penelope andiamo di là”
“Lauretta!”
“Ti vogliamo bene Bea”
“Ti vogliamo bene Mamma”
“Ma guarda un po’!”
71.
“Lauretta allora che c’è?”
“Ti dice niente un certo René?”
“René? Perché gli è successo qualcosa?”
“Non gli è successo niente di brutto,
che io sappia, ma non arrossire in quel modo benedetta figliola”
“Non sono arrossita”
“Sembri un’aragosta”
“Uffa”
“Spogliati dai”
“Perché mi dovrei spogliare?”
“Semplice: ti devo prendere le misure”
“Le misure?”
“Sì, pare che il tuo bel René voglia
cucirti addosso un bell’abito ma sua nonna ha pensato che sarebbe stato più
opportuno, o no?”
“O no cosa?”
“No, dico, o forse già le ha prese lui
le misure?”
“Lauretta, René non ha preso nessuna
misura e smettila di fare quella faccia!”
“Quale faccia?”
“Quella che stai facendo, come ad insinuare
chissà cosa”
“Non stavo insinuando niente, figurati,
non vi siete mai dati un bacio?”
“Lauretta!”
“E che ho chiesto mai, figurati! Alza il
braccio un pochino che devo farti passare il centimetro intorno ai fianchi”
“Così?”
“Sì ma adesso riabbassa le braccia.
Ecco, fatto”
72.
“Che voleva Lauretta?”
“Mamma non cominciare anche tu”
“Perché, che ti ho chiesto di tanto
strano?”
“Mamma per favore”
“Ma senti un po’… almeno dimmi perché si
è scomodata a venire fin qui con il centimetro e tutta l’attrezzatura da sarta”
“È venuta a prendermi le misure”
“Le misure?”
“Sì, per un vestito”
“Ma non te l’aveva regalato tua nonna un
vestito?”
“Mamma per cortesia”
“Ma aspetta un po’, non è che per caso
quel ragazzetto che viene sempre a vederti e a cercarti”
“Adesso che hai da dire contro René?”
“Non è il nipote della sartora per
caso?”
“È il nipote della sartora e allora?”
“Niente niente figurati”
“Mamma non fare quella faccia”
“Quale faccia?”
“Di chi la sa lunga”
“Lunga?”
“Tanto non hai capito niente”
“E che cosa avrei dovuto capire?”
“Mamma la smetti?”
“Va bene va bene, comunque è proprio
carino quel ragazzo”
73.
Il Chiacchierino
1.
Muriel aveva appena finito di dipingere
l’insegna con il nome della bottega ed era piuttosto soddisfatta. La grafia era
perfetta, i colori anche. L’effetto esattamente quello che voleva ottenere. “Il
Chiacchierino” non era un negozio in cui entrare per acquistare un prodotto
industriale bensì un luogo di incontro dove parlare, raccontarsi, bere una
tazza di tisana e magari un goccetto di rosolio.
La primavera era ormai alle porte,
mimosa e mandorlo avevano fiorito contemporaneamente nonostante il vento freddo
che proveniva dagli Appennini e su peschi, albicocchi e ciliegi già spuntavano
le gemme. I giorni della merla erano appena trascorsi e quelli della Candelora
parevano assolati, senza pioggia o vento.
“Quando vien la Candelora, dall’inverno
semo fora; ma se piove o tira vento, de l’inverno semo dentro”.
“Già”, rispose annuendo a sé stessa.
A volte le sembrava di sentire la voce
di Nonna Filomena, le rispondeva sempre, quando era da sola lasciava che il
suono riempisse le parole.
“Il sole è piuttosto caldo oggi
nonostante l’aria di neve che arriva dagli Appennini”
“Già Già”, mormorò dando un altro
sguardo soddisfatto all’insegna
“D’altronde Monte Gennaro non ha messo
cappello quindi non c’è certo da prendere l’ombrello”
Nonna Filomena era nata, cresciuta e
pasciuta a Stazzano, non s’era mai spostata dal paese e da lì si vedeva il
Soratte, non Monte Gennaro.
Muriel distolse lo sguardo dall’oggetto
della sua contemplazione, sbatté le palpebre e roteò lievemente gli occhi verso
il punto da cui proveniva la voce di Nonna Filomena, allontanandosi dai suoi
pensieri.
2.
“Il Chiacchierino è proprio un bel nome,
fa pensare al tempo che si trascorre ciarlando mentre si intrecciano i fili del
pizzo vittoriano, che fa tanto suffragette in sordina. E poi è così moderno,
arts and crafts, il nuovo che trae ispirazione dalla tradizione, una
continuità, una progressione che si sviluppa mettendo un punto e poi un altro.”
Una marea di parole veloci, nette,
pronunciate con accuratezza si era materializzata nella calda giornata
invernale sotto un cappello che definire bizzarro sarebbe ingiusto e poco
rispettoso della quantità di ore di lavorazione che erano state evidentemente
necessarie per confezionarlo. Non era particolarmente grande, più che altro era
una giustapposizione di elementi artistici, una specie di compendio di
artigianato di squisita fattura. Le scarpe intonate al copricapo erano
posizionate accanto ad una valigia, anch’essa personalizzata nei minimi
dettagli, e ad un cappotto di raro broccato in velluto di seta finissima.
Eccentricamente colorato senza neanche una nota, per quanto sgargiante e
chiassosa, stonata. Lunghi capelli raccolti in una coda lenta da un nastro
annodato in un fiocco complesso di macramè, calze sconclusionate, blu con
paperelle gialle, un’allegria inopportuna di primo mattino che trapelava da
ogni poro.
Non era Nonna Filomena.
“Forse si starà chiedendo il mio nome”
“Già” rispose cupa Muriel che non aveva
ancora fatto colazione e non era pertanto incline ad alcuna forma di
conversazione che oltrepassasse il limite della semplicità più lineare, un
concetto che sembrava particolarmente alieno alla voce gaudente, ma aveva
apprezzato molto il lei anziché il tu che sembra essere ormai una consuetudine
anche tra estranei. Nonna Filomena si sarebbe offesa se un ‘pischello’ le
avesse rivolto la parola senza conoscerla utilizzando il tu, non si sarebbe
sentita obsoleta come avrebbero voluto farle credere con quel tu tanto amicale
quanto snervante. Piuttosto, avrebbe risposto con una delle sue solite frasi
che variavano da ‘di chi sei figlio?’, per comprendere in quale ramo della
complessa ed articolata serie di soprannomi, famiglie e amicizie
transgenerazionali era ascrivibile l’interlocutore, a ‘sei forestiero?’ quando
era evidente che le regole della buona creanza erano state violate in modo tale
da consentire di pensare bene soltanto nel caso di una presunta estraneità all’universo
finora conosciuto. Presumibilmente con una provenienza morale, oltre che
familiare, da collocare ben oltre il confine delimitato dall’hic sunt leones
delle antiche carte geografiche. Un posto in cui il tu poteva essere
considerato una forma di educazione e il lei di maleducazione. Siccome a
pensare male si fa peccato e Nonna Filomena aveva forse qualche vizio ma
peccati non ne commetteva se non per sbadataggine e tipicamente non era una
persona sbadata, lei lasciava sempre un piccolo adito, uno spiraglio di
possibilità mentale verso chicchessia salvo poi dimostrazione comprovata del
contrario. Il fatto che la prova scientifica delle presunte illazioni fossero
le chiacchiere del paese è un dettaglio del tutto irrilevante.
Più che interrogarsi sul nome della voce
che si era interposta tra lei e la contemplazione dell’insegna, Muriel si stava
domandando perché indossasse calzini blu con paperelle gialle ma questo non lo
disse.
“Mi chiamo Renato ma ormai sono abituato
al nomignolo René”, così facendo stese una mano guantata in pelle e pizzo
chiacchierino con bottoni di opale.
“Piacere, io sono Muriel”
Ci fu un attimo di silenzio attraversato
da un refolo di vento gelido. Una merla grigia si posò sul ramo ancora spoglio
della magnolia, lei si era sempre chiesta se la storia della merla e del camino
fosse vera.
3.
“La leggenda narra di una merla che
veniva maltrattata da Gennaio tutte le volte che usciva a procurarsi il cibo.
La merla decise dunque di fare provviste, rintanarsi in casa e non uscire per
ventotto giorni, che era pressappoco quanto durava il primo mese dell’anno
prima della riforma del Calendario Gregoriano. Finito il mese lei uscì e fece
l’errore, come i Sanniti coi Romani alle Forche Caudine, di motteggiarlo.
Gennaio si vendicò scatenando la sua ira: rubò tre giorni a Febbraio e sputò
freddo e gelo tutto intorno così la merla dovette rintanarsi in un camino e il
suo piumaggio bianchissimo divenne tutto grigio scuro che, a ben guardare,
potrebbe anche essere più elegante del nero lucido col becco giallo. Non so se
questa leggenda abbia un fondo di verità ma a me piace molto”.
Parlava velocemente scandendo tutte le
parole come facevano quelli della radio prima che il tu divenisse un modo
normale di dare del lei agli sconosciuti.
Sentire una buona dizione era gradevole,
le pareva una forma di educazione nei confronti dell’italiano: le lingue
impiegano tanti anni, secoli e talvolta millenni per esprimersi e non c’è
motivo di bistrattarle.
A Muriel piaceva indovinare come erano arredate
le abitazioni delle persone con cui parlava, non soltanto quando per lavoro
doveva renderle più adatte alle loro effettive caratteristiche o alle richieste
della clientela.
Così tanto spesso la gente vive nelle
case senza neanche accorgersene, distrattamente personalizza qualche angolo o
qualche dettaglio ma niente di più. Ci sono mobili che si adattano alle persone
e persone che si adattano ai mobili. Spazi in cui c’è un dialogo costante e
altri in cui la permanenza fisica è un dettaglio in uno schizzo di qualche
architetto con idee considerate modaiole, una di quelle sagome che ben si
intonano con il programma di disegno tecnico e progettazione, con le immagini
viste in un altrove asettico e immaginario.
Muriel detestava entrare in quelle case.
Doveva respirare profondamente,
praticare le esercitazioni mentali imparate al corso di yoga, sfoderare un
sorriso patinato e cercare di fare esattamente il contrario di quello che
avrebbe voluto. Ascoltava i clienti e capiva che a loro sarebbe piaciuto l’opposto
di quello che ne esprimeva l’essenza, un po’ come guardare il negativo di una
fotografia, quando ancora si stampavano nelle camere oscure e bisognava fare
attenzione alla luce, il rovescio di una cucitura grossolana senza neanche la
copertura di una fodera a celarne l’impudica rozzezza. In qualche modo erano
persone che odiavano sé stesse, profondamente insicure, sempre alla ricerca di
conferme nel loro essere al centro dell’attenzione mondana.
Provò ad immaginare la casa di René, non
la visualizzò, ne percepì l’odore, qualcosa che profumava di fiori freschi in
un bel vaso di ceramica decorato a mano. La sensazione le piacque molto.
4.
Muriel lo guardò. René non parlò.
La mattina scorreva placidamente.
Non c’erano nubi all’orizzonte.
René aspettò che Muriel avesse finito di
controllare la qualità delle finiture che sembravano, ed erano, di ottima fattura.
“Il pizzo fiammingo è poco conosciuto da
queste parti”
“Molti lo confondono col chiacchierino
in effetti. Sono contento che lei, Muriel, l’abbia notato”
“Già. Beh, qui ho finito per il momento,
se vuole possiamo fare uno spuntino: io non ho ancora fatto colazione”.
“Mi sembra un’ottima idea, c’è un bar da
queste parti?”
“Sì, certo”
A pochi passi c’era una rosticceria
pasticceria bar, uno di quei locali in cui si fa di tutto un po’, senza infamia
e senza lode. L’arredamento era abbastanza anonimo da dare la sensazione di déjà-vu
ma non tanto da sembrare il bar di una stazione affollata. I prodotti erano
fintamente artigianali, preparati con i semilavorati industriali, senza una
vera e propria ricerca di ingredienti o un’attenzione particolare a qualcosa
che non fosse una mediocrità leggermente superiore ai preconfezionati. Niente
faceva presagire qualcosa di interessante.
René si adeguò all’ambiente e sprigionò
un’allure da personaggio famoso, enigmatico. Chiunque avrebbe potuto credere
che la sua eccentricità fosse modaiola e frutto di un accurato studio
d’immagine e molti avrebbero potuto pensare che fosse un personaggio famoso di
cui non ricordavano il nome ma che certamente avrebbe costituito materiale di
conversazione pettegola per almeno una settimana, se non di più. Muriel sorrise
di sbieco, involontariamente.
5.
Ordinarono caffellatte e paste.
“Non facevo una colazione dolce da
parecchio tempo, è sempre gradevole rimpatriare”, esordì René lasciando
trapelare che non aveva intenzione di proseguire la conversazione prima di aver
finito di gustare il caffellatte. Il sapore cgli evocava la nostalgia del
presente tipica di quando si torna da un lungo viaggio.
Muriel era piuttosto contenta di averlo
incontrato e di non dover parlare prima di aver ingurgitato una quantità di
nutrienti necessaria a poter completare una frase senza perdersi in pensieri
densi.
La bottega artigiana era quasi pronta ma
c’erano molte cose da fare. Il lavoro per spostare le attrezzature era stato
lungo e faticoso. Mentalmente più che fisicamente, e poi tutta quella polvere.
Non aveva neanche pensato di proporre a
René di lasciare la valigia da qualche parte. Forse aveva fatto bene, avrebbe
potuto metterlo a disagio.
C’erano varie etichette di compagnie
aeree, testimonianze grafiche di viaggi ed esplorazioni, senza accorgersene
posò lo sguardo su un adesivo verde, bianco e rosso con la scritta TAP Portugal,
ricordò vagamente di aver letto da qualche parte che i portoghesi hanno una
parola intraducibile nelle altre lingue. Qualcosa di simile alla nostalgia
futura del passato nel presente.
“In portoghese si chiama saudade”
La voce cambiò leggermente quando René pronunciò
proprio quel vocabolo e Muriel ebbe la sensazione di aver parlato senza
accorgersene ma non ebbe il tempo di sincerarsene perché in quel momento
entrarono Carmencita e Lauretta.
6.
Immaginare due persone più diverse tra
loro sarebbe stato difficile.
Carmencita entrò con passo deciso, un
paio di Ray-ban da elicotterista a coprire un trucco studiato nei minimi
particolari, capelli lunghi, scuri, mossi da nette linee ondose. Un tailleur
semplice, essenziale da cui emergeva una camicia molto fru-fru con volant
vaporosi e frivoli che ben si adattavano alle scarpe, spumeggianti, e in
assoluto contrasto con la borsa resistente, funzionale, capiente e non
ingombrante.
Lauretta era tutta un frusciare di
morbidezze in cui sarebbe stato gradevole adagiarsi per un fragrante abbraccio
biscottoso. I lineamenti dolci e tondeggianti, gli occhi e la bocca sorridenti
e una sbadataggine troppo sbandierata per non celare un’attenzione maniacale al
più piccolo dettaglio nascosto.
“Ciao Muriel, buongiorno, hai già preso
il tuo caffellatte vedo, benissimo così possiamo parlare senza preamboli.
Gradisci un caffè con panna? Io ne ho già presi tre ma penso che… ma sì per i
decaffeinati c’è tempo”
“Ciao Carmencita, un caffè con panna lo
prendo volentieri. Lei Renato vuole assaggiarlo?”
“Renato? Che bel nome, oh Carmencita sei
così impetuosa! Buongiorno Muriel” disse placidamente Lauretta assestando un
paio di sonori baci sulle guance di Muriel e tendendo una mano allo
sconosciuto. “Io mi chiamo Lauretta, lei è Carmencita ma aspetta aspetta ora sì
che ho capito dove l’avevo già visto. Ma è mica il Renatino il nipote della
sartora che partì, o beh, saranno passati quanti anni? Almeno almeno una decina
se non di più… per andare, dove, dove? proprio non ricordo ma mi pare dalle
parti della Francia. Eh sì, insomma al Nord, oh bella, al freddo, in uno di
questi Paesi dove piove pure in estate”
Il volto di Renato si illuminò radioso,
si era sentito subito accolto. In effetti era un sentimento che provava un po’
chiunque si accostasse a lei, anche soltanto per qualche istante. Suscitava
immediata familiarità.
“Il nipote della sartora, eh già. Sono
stato…”
“Le storie le raccontiamo dopo che ora
abbiamo da fare, comunque io sono Carmencita, quanti caffè con panna?”
L’alzata di mani espresse un generale
desiderio di tale nera e aromatica bevanda e Carmencita ordinò quattro caffè
con panna e il bordo della tazzina orlato di cioccolato fondente.
7.
“Hanno appena ultimato le rifiniture di
tinta, si sentirà un odore di vernice che neanche all’apertura di una mostra
d’arte ma tant’è, porte e vetrine sono a posto, i manichini no, arriveranno in
giornata, si spera, per cui per il momento mettiamo il mannequin di Nonna Filomena
in bella mostra con il chiacchierino di Zia Bice, i tecnici sono appena andati
via, l’insegna è pronta?”
“Uhm direi proprio di sì”, Muriel
rispose riemergendo dalla distrazione acquosa in cui si era immersa mentre
Carmencita elencava per l’ennesima volta tutto ciò che c’era da fare, che era
stato fatto e che sarebbe stato necessario migliorare.
René si era accorto che lo stava
osservando di sottecchi e lasciò che il suo sguardo si soffermasse sulle tante
perfezioni di cui si componeva la finta casualità degli abbinamenti della sua
mise. Gli piaceva cogliere nello sguardo delle persone ammirazione per la
ricercatezza degli elementi più disparati, dai bottoni ai calzini. Aveva
imparato ad orientare l’attenzione con piccoli gesti, così da suscitare vera e
propria ammirazione per i suoi gioielli: i cappelli che confezionava con rara
maestria.
Le parole di Carmencita si confondevano
con la musica di sottofondo mentre Lauretta e Muriel erano sintonizzate su un
altro canale. Era una specie di tecnica di sopravvivenza necessaria per amare
la militaresca sarta: bisognava soltanto stare attenti alle variazioni di
tonalità che presumevano una risposta, un po’ come quando a scuola c’è una
lezione che non si ha voglia di ascoltare perché i pensieri fluiscono insieme
alle emozioni.
“… comunque mi pare che per quanto
concerne i faldoni non dovrebbero esserci problemi, eventualmente potremmo
foderarli in seguito…”
Muriel aveva cercato di immaginare la
casa di Carmencita la prima volta che l’aveva incontrata ma non era riuscita a
soffermarsi su niente, aveva lasciato che il fiume in piena seguisse il suo
percorso, tanto prima o poi l’avrebbe vista. Il giorno in cui la invitò a
prendere un tè si trovò nella spiacevole situazione di non sapere cosa portare
per cui dovette ripiegare su un vassoio di pasticcini. Buoni quanto si vuole,
particolari e gustosi ma non le era mai capitato di non riuscire ad indovinare lo
stile o per lo meno un oggetto che avrebbe potuto inserirsi con criterio
all’interno di un’abitazione sconosciuta.
“…le ciambelle a cancello e le pizzette.
Hai avuto conferma dall’ufficio stampa ufficioso Lauretta?”
“Sì sì. Figurati se si lasciano scappare
la possibilità di criticare e spettegolare. Fiuuu no no non c’è davvero di che
preoccuparsi, tra l’altro mi hanno confermato che sarebbero venute più che
puntuali. Ho saputo per vie traverse che almeno la metà del paese è andata a
farsi i capelli tra ieri e oggi, e visto che non ci sono cerimonie in giro…
ovvio a meno che non me ne sia persa qualcuna….” Lauretta lasciò cadere
l’ultima frase nel vuoto, come a sottolineare che non c’era cerimonia in paese
di cui lei non fosse a conoscenza. Le sue fonti erano molteplici e tutte molto
affidabili in materia di gossip paesano.
A René sfuggì un sorriso: rammentava
benissimo la sua capacità di ricordare nomi e parentele fino alla ventesima
generazione.
8.
“… e la vernice glitterata sui fiori di
carciofo secchi si è asciugata”
Carmencita si era fermata, stava
sorbendo il suo caffè e ciò voleva dire semplicemente che c’era spazio uditivo
per parlare. Non si era posta il problema di discutere nei minimi dettagli le
questioni relative all’apertura della bottega di fronte ad un estraneo per il
semplice motivo che Lauretta non aveva espresso alcuna perplessità, soprattutto
dopo averlo riconosciuto e avergli dato una collocazione tra le sue
innumerevoli conoscenze. Era evidente che lui non avrebbe costituito un
problema per loro, anche se non sapeva esattamente perché. Certamente era una
persona che non avrebbe spifferato in giro i fatti degli altri, indubbiamente
era particolare e il cappello che indossava piuttosto bello.
“Impara l’arte e mettila da parte” disse
distrattamente René.
Lauretta ebbe la strana sensazione di
aver sentito la voce di Zia Bice che le ripeteva questa frase in continuazione.
In effetti il mestiere gliel’aveva insegnato proprio lei, per un po’ l’aveva lasciato
da parte e poi le era tornato utile fino a diventare il suo lavoro e una
discreta fonte di guadagno.
Rifiniva i vestiti che Carmencita cuciva
ed era bravissima con i sottopunti. A volte ricamava ma non era quella la sua
specialità: per fare le cose come piacevano a lei ci voleva troppo tempo,
giorni, talvolta mesi interi per un lembo di merletto.
Zia Bice le aveva insegnato le basi, col
vecchio metodo, facendole trascorrere ore e ore a provare e riprovare. Lei si
annoiava terribilmente ma l’alternativa ad ago e filo era andare a scuola dalle
suore per fare il tempo pieno, cosa che le sembrava molto più temibile. Aveva
sentito certi racconti su zuppe di fave secche e pane integrale che le facevano
accapponare la pelle. La prospettiva di saltare la merenda a base di tazzona di
latte munto la mattina o tuttalpiù il giorno prima accompagnato da pane caldo
spalmato con un generoso strato di burro e marmellata fatti in casa non le
garbava affatto e così sopportava stoicamente il supplizio. L’unica cosa, oltre
la merenda, che le rendeva il compito meno gravoso era il chiacchiericcio
continuo di parenti e amiche. Dire che la Zia Bice fosse pettegola sarebbe però
ingiusto nei confronti della memoria di Zio Vito, buonanima, che avrebbe ben
potuto guadagnarsi il soprannome affibbiato ad un noto architetto
rinascimentale, Simone del Pollaiolo detto, appunto, ‘Il Cronaca’.
9.
Il placet di Lauretta era una
infallibile luce verde comprovata da generazioni di accurata conoscenza di
tutti i fatti, le persone e le famiglie del paese.
“Allora, che mi racconti di bello?”
disse improvvisamente rivolgendosi a René.
“Ho viaggiato un po’ e ora sono tornato”
Sembrava una risposta sensata ma sapeva
che non sarebbe stata sufficiente per cui principiò a raccontare la sua storia
ma venne interrotto bruscamente dall’arrivo di Guccio, meglio noto col
soprannome di Paolino, il quale, appena lo vide, pensò che forse sua sorella
Brigida non aveva poi tutti i torti, sposarsi in abito bianco, in una chiesetta
di campagna, sarebbe stato bello. Immaginò contestualmente il bouquet e i
fiori, per le bomboniere c’era tempo, meglio non affrettare troppo le cose,
litigare su questioni tanto elementari avrebbe potuto rovinare il loro
idilliaco rapporto e la luna di miele. Oh santa pace, la luna di miele. Beh,
anche di quello avrebbero discusso in seguito, avrebbe potuto cedere,
mostrandosi tollerante con broncio così da avere campo libero sulla torta
nuziale e sui paggetti che avrebbero portato le fedi.
“Buongiorno carissime! Sono così felice
che siate qui e posso offrirvi un dolcetto benaugurante”
Ecco, Guccio, detto Paolino, aveva la
capacità di fare sempre qualcosa di carino per gli altri, più che premuroso era
attento, dedicato e non si poteva non pensare che fosse una persona gentile. C’era
chi affermava che fosse meglio non farlo arrabbiare ma non veniva proprio
voglia di litigare con una persona sempre sorridente, o quasi.
Muriel amava parlare con lui per ore
intere, a volte cenavano insieme e si trovavano immancabilmente a chiacchierare
fino a notte fonda senza mai annoiarsi o distrarsi dietro a qualche pensiero
aquilone. Non avrebbero saputo dire chi avesse utilizzato l’espressione la
prima volta ma poi era rimasta tra loro ad indicare quei pensieri che
distolgono dalla realtà, dai momenti vissuti, dal presente catapultando la
mente in qualche recondita area della psiche o del pensiero.
Paolino stava bene con lei, si sentiva
capito, non giudicato: era l’amica che avrebbe sempre voluto avere e non c’era
altro modo per definire il loro rapporto.
Lauretta subodorò guai e sciagure future
appena Paolino varcò la porta, non perché portasse sfortuna, anzi era una
persona che sapeva infondere il buon umore e quindi era piacevole incontrarlo.
Aveva capito dal suo sguardo che pensava di aver incontrato l’uomo della sua
vita ma lei sapeva benissimo e da fonti certe e certificate nel suo capillare
sistema informativo che Renato, detto René, era innamorato da sempre di
Penelope, una donna quasi della sua stessa età con cui aveva litigato molti
anni prima, per un motivo che neanche lei era riuscita a scoprire, e che forse
non lo aveva mai dimenticato visto e considerato che non si era mai
‘accompagnata’, insomma non aveva mai messo su famiglia.
Paolino sciorinò una serie di messaggi
corporei che confermarono i timori della sarta dal volto tondeggiante e il
corpo accogliente.
Carmencita non si avvide di nulla, era
immersa nelle questioni organizzative e fu molto felice della presenza di Guccio,
che la metteva di buon umore anche nelle giornate più cupe.
“Cuor contento il Ciel l’aiuta! Piacere
io sono Renato, anche se mi chiamano sovente René”
Quando gli strinse la mano, curatissima,
tra le sue, Paolino ebbe la certezza assoluta che René fosse incontestabilmente
e inconfutabilmente l’uomo della sua vita.
L’intero corpo gli sorrise.
Il suo cuore a quel punto era gaudente e
il Cielo evidentemente gli stava fornendo la motivazione per essere tanto
felice di vivere e di esistere.
10.
Lauretta ebbe la sensazione nettissima
che Guccio, detto Paolino, stesse per, se già non era accaduto, innamorarsi
perdutamente di René e se ne rammaricò non poco. Conosceva bene entrambi: li
aveva visti crescere. Due bravi ragazzi, ammodo, un po’ anticonformisti ma non
lasciavano adito a maldicenze.
“L’apparenza inganna”. René pronunciò
queste parole con garbo, quasi le avesse letto nel pensiero.
Lauretta si rasserenò.
“Viaggia spesso?”, chiese Guccio, detto
Paolino interpretando la curiosità generale.
“Più che viaggiare mi sposto: tutto il
mondo è paese”
“Ma dov’è che sei andato esattamente? Su
al Nord?”, domandò Lauretta.
“Ho vissuto nelle Fiandre belghe, ad
Anversa, dove ho studiato all’accademia di moda, ho partecipato ad alcune
sfilate con un discreto successo, poi mi sono specializzato nella creazione e
confezione di cappelli artigianali. Ho seguito la mia vocazione e ho capito
cosa avrei voluto fare nella mia vita. E adesso sono tornato al paese. Sai
niente di Penelope?”
L’ultima domanda gli era sfuggita dalle
labbra. Non era stata una sbavatura, piuttosto una richiesta di informazioni
schietta, senza preamboli. Forse sapeva davvero leggere nel pensiero. Aveva
parlato senza ansia, incantando il suo uditorio e facendo balenare a Carmencita
e Muriel l’idea di farlo lavorare con loro.
Un sorriso pieno, di comprensione
epifanica attraversò il corpo di Lauretta.
11.
Penelope sarebbe venuta
all’inaugurazione, forse. René si era trovato per caso nel posto giusto al
momento giusto.
L’inaugurazione! L’avevano dimenticata
per qualche istante. Non c’era molto tempo per perdersi in chiacchiere.
Muriel chiese a Carmencita e Lauretta,
nel loro codice comunicativo, di appartarsi un momento. Ebbero tutte e tre
un’impellente bisogno di utilizzare il bagno delle donne.
Quando tornarono fu Muriel a parlare per
prima.
“René vorremmo chiederle, ecco se vuole
partecipare all’apertura ed eventualmente cominciare a collaborare con noi, non
siamo una maison affermata ma se la sua intenzione è quella di rimanere in
paese potrebbe essere un’occasione sia per noi che per lei.”
“Al momento non si tratterebbe di
formalizzare niente, se ci troveremo bene potremo poi iniziare un discorso più
strutturato.”, aggiunse lesta Carmencita.
Non avrebbero saputo dire perché ma
tutti quegli insegnamenti dell’insegnante di yoga sembravano essersi
concretizzati nella luce che inondò gli occhi di René.
12.
“I dettagli li stabiliremo in seguito,
se per lei va bene”, affermò Muriel aggiungendo con piglio sicuro: “ora
dobbiamo proprio muoverci altrimenti non faremo in tempo ad organizzare un bel
niente. Se vuole può venire con me nella bottega a sistemare i cappelli, non so
se abbia già un posto dove stare oppure…”
“Grazie, posso venire subito in bottega,
così poi potrò fare una doccia e cambiarmi”. Evidentemente aveva già un luogo
dove andare a dormire.
Non avrebbero saputo dire quanto tempo
avessero trascorso nel bar, a giudicare da quello che affermavano gli orologi
neanche mezz’ora ma il tempo emozionale è ben diverso da quello convenzionale.
René seguì Muriel nella bottega, aprì la
sua valigia da cui quasi per magia estrasse due cappelliere di antica foggia
che contenevano preziose creazioni artigianali. Con un insolito gesto di
consuetudine passò i cappelli all’arredatrice d’interni. Lei li collocò in
punti strategici della bottega. Stettero lì per qualche ora, quasi senza
parlare, lasciando dialogare le loro energie.
Muriel non si perse nei suoi pensieri,
le sembrò per qualche momento che tutto fosse al posto giusto.
René ebbe la sensazione che ciò che
aveva fatto sino a quel momento stesse per prendere forma.
Lauretta entrò senza disturbare e capì
che lui e Penelope si erano, molto probabilmente senza neanche dirselo,
aspettati per tutti quegli anni e che non sarebbe stato facile, per loro, ammetterlo.
13.
“È ora di aprire” sentenziò Carmencita
mezz’ora prima dell’ora prevista per l’inaugurazione.
L’euforia era tangibile nell’aria densa
di aspettative e desideri.
Muriel era insolitamente calma. Non che
normalmente non lo fosse, anzi, era proprio il tipo di persona che non ha mai
scatti di nervosismo, d’ira o di stizza. È che ogni tanto tutto il magma che le
ribolliva sotto la placida superficie prendeva la forma della distrazione.
Si assentava da sé senza neanche
accorgersene. Le capitava sempre più di frequente, tra l’altro, di parlare con
Nonna Filomena, chissà che avrebbe detto della bottega, di Carmencita, Lauretta
e...
“Chi ben comincia è a metà dell’opera”,
sì forse avrebbe detto proprio questo ma era stato René a pronunciare la frase
riportandola fuori dalla viscosità pensierosa in cui stava per impantanarsi.
La bottega era perfetta, anche se si
sentiva ancora un po’ di odore di vernice e di nuovo.
Al centro era stata posta una tavola
perfettamente apparecchiata con prelibatezze varie. I minuti trascorrevano
lenti, pareva che il rumore delle lancette del grande orologio a muro
sovrastasse le armoniose sonorità musicali.
Dapprima arrivò una piccola delegazione
di ragazzette, secondo Lauretta nipoti, pronipoti e parenti di vario grado di
Donna Lia, che le avrebbe esortate a recarsi lì per decidere, in base ai
dettagliati resoconti delle giovinette, se fosse o meno il caso di degnarsi di
presenziare all’evento.
“Buon segno” sussurrò la sarta esperta
in sottopunti e in questioni paesane, aggiungendo che se Donna Lia si era
premurata di inviare una delegazione ben cinque minuti prima dell’apertura
ufficiale voleva dire che era stata dal parrucchiere il giorno precedente se
non la mattina stessa e che ci sarebbe stata parecchia gente: non s’era mai
vista Donna Lia presenziare alcunché se non per farsi rimirare e notare.
Alla spicciolata giunsero curiosi e
addirittura persone i cui alberi genealogici non risultavano nella foresta
parentale di Lauretta, particolarità che non seppe bene in che modo
interpretare.
Nel giro di poche decine di minuti la
bottega si riempì e ci fu un continuo viavai fino a sera quando finalmente
poterono sedersi anche loro e mangiare qualcosa. Il bilancio della giornata era
stato positivo.
14.
La mattina si svegliarono prestissimo per
rimettere tutto in ordine. C’era ancora qualcosa da fare ma la sensazione era
quella di un nuovo inizio, non soltanto per René.
Carmencita si sentiva stranamente ebbra
e non aveva voglia, per qualche motivo, di organizzare tutto. Si era alzata di
buon umore, cosa che le capitava molto di rado, a dire il vero non ricordava
proprio quale fosse stata l’ultima volta in cui ciò era accaduto. Aveva una
lontana memoria di un profumo di dolci appena sfornati, da sua nonna, no, forse
era la sua prozia. Sì, doveva proprio essere zia Proserpina. Prozia, ci teneva
a specificarlo. Quanto era brava a preparare i dolci per lei, soltanto per lei,
che era la sua pronipotina preferita. Non aveva mai viziato i figli con dolci e
altre leccornie, indebolivano il carattere a suo dire ma con lei si
sbizzarriva: Carmencita aveva già un carattere forte, almeno all’apparenza.
“Scorza dura e cuore tenero”.
Carmencita si ridestò come emergendo da
una doccia di acqua gelata dopo una sauna finlandese, si aggrappò mentalmente
alle sue certezze e alla sua disciplina quasi militaresca, guardò verso
l’origine di quella frase. René le stava porgendo un After Eight, non c’era
niente che facesse presupporre altro. Scacciò via la sensazione di intrusione
nella sua intimità con una scrollata di spalle. Serrò le mandibole in un
sorriso che la fece riemergere dal torpore mentale e dai pensieri aquilone che
si erano incuneati nelle sue celluline grigie.
“Grazie ma non ho ancora preso un caffè”
“Neanche io, è che sono ghiotto di
cioccolatini”
“Non si direbbe vista la linea”
“Quando ero ragazzino, un pischelletto,
mi vergognavo quasi di non ingrassare, adesso non mi dispiace: posso indulgere
nei piaceri della tavola senza dover rinunciare ad indossare i miei abiti
preferiti”
“Neanche io tendo ad ingrassare,
comunque seguo un regime alimentare piuttosto rigido”
“Quindi niente dolciumi?”
“Mi piace di più il salato”
15.
Lauretta portò un thermos di tisana
rivitalizzante, chiacchierò un po’ ma le ci sarebbero voluti almeno due giorni
per elaborare la mole di pettegolezzi che aveva incamerato durante
l’inaugurazione quindi sarebbe stato del tutto inutile chiederle qualche commento
‘a caldo’, a meno che si volesse soltanto avere informazioni blande e
stereotipate.
E poi si vedeva lontano un chilometro
che le premeva qualcos’altro.
Dopo aver rifocillato le sue amiche,
prese in disparte René, che per lei era e sempre sarebbe stato Renato, e gli
chiese ragguagli su Penelope.
“È un po’ cambiata dall’ultima volta che
l’hai vista, vero?”
“…”
“Non sai che rispondermi ma i tuoi occhi
sono più luminosi di una stella, nonostante il sonno”
“…”
“Anche lei quando ti ha visto si è, come
dire?”
“Si è?”
“Il volto era”
“Bellissimo, pieno di grazia, sincero”
“Gioioso direi”
“Dici?”
“Eh già, ma tu sai che lei?”
“Immagino che abbia famiglia ormai, dopo
tutti questi anni…”
“No, veramente non ha messo su famiglia,
dopo tutti questi anni”
“Chissà perché…”
“Veramente vorrei chiederlo a te”
“A me? e io cosa pensi che ne sappia?”
“Ah niente niente soltanto che”
“Che?”
“Ma senti Renato, sei andato via che eri
un ragazzino a modino, hai fatto la tua vita, da quello che ho sentito dire in
giro hai fatto anche parecchia strada e dopo tutti questi sforzi torni al
paese, chiedi di fare i cappelli in una bottega artigiana che, per carità, è di
gran qualità ma te hai sempre avuto la stoffa per puntare parecchio in alto.
Torni e l’unica cosa che ti preme davvero è chiedermi di Penelope”
“Ma non è l’unica cosa, neanche per
idea, sai”
“Sì sì”
“E so so”
“E lei, da anni che la vedo spenta,
disinteressata alla vita, appena ti vede che fa?”
“Che fa?”
“Torna la Penelope che conosciamo tutti
quanti; ti pare normale?”
“Ma dai che dici figurati”
“Ah io non mi voglio impicciare di fatti
altrui”
“Ma non ci sono proprio fatti di cui
impicciarsi, davvero, sono soltanto fantasie”
“Fantasie, fantasie, certo certo. Ma
tanto prima o poi mi dirai quello che è successo tra voi due”
16.
“Perché ti interessa tanto la storia di
Penelope e René?”
Muriel glielo aveva chiesto senza
neanche accorgersi di aver parlato. Il suono si era semplicemente materializzato
al di fuori delle sue labbra, prendendo la forma dell’aria. Non le capitava da
moltissimo tempo di esprimere quello che pensava senza soppesare la
punteggiatura, le frasi, talvolta anche le sillabe.
“Sono due persone a cui voglio bene”.
La risposta arrivò inaspettata: l’aria a
volte assumeva delle forme ben strane.
“Forse è difficile spiegare ma li ho
visti crescere e sono sempre state due brave persone, erano innamorati sai, di
quell’amore sincero, era una gioia vederli insieme e poi, non lo so, è accaduto
qualcosa di inspiegabile.”
“Hanno intrapreso strade diverse, non
pensi possa essere stato semplicemente quello?”
“No, Muriel, non so spiegartelo ma due
persone che si amano in quel modo non intraprendono strade diverse, e infatti
così è stato”
“Pensi che René sia tornato con il
preciso intento di ritrovare Penelope? Ma dai!”
“Muriel sei insensibile”
“Non lo sono”
“Lo so ma a volte sì”
“Magari sentiva nostalgia del sole
italiano”
“Il sole?”
“Eh, il sole, dice che in Belgio piove
sempre”
“Ah e siccome gli mancava il sole,
anziché andare in vacanza ai Tropici, ha preferito tornare al paese, cercare
lavoro all’istante e chiedere immediatamente notizie di Penelope. Mi sembra
davvero plausibile, logico…”
“Uhhh e Penelope?”
“Penelope?”
“Eh, Penelope.”
“Ma hai visto che bella donna è? E ha
anche un buon carattere, un po’ a modo suo ma... Ti pare normale che non abbia
mai messo su famiglia?”
“Magari non ha mai trovato quello
giusto”
“Sì che lo ha trovato e in tenera età”
“René?”
“E che c’è di strano?”
“Mah”
17.
Carmencita non aveva voluto dar troppo
peso al fatto che le energie di Lauretta si fossero concentrate su Penelope e
René ma non aveva potuto non accorgersi che ciò aveva immalinconito Muriel.
“Muriel?”
“Uhm?”
“Che dici se mettiamo i cappelli da
parte, intendo da questa parte?”
“Sono proprio belli, forse ha ragione
Lauretta”
“Riguardo a cosa?”
“Ma niente, dice che René avrebbe potuto
puntare molto in alto e non lo ha fatto per motivi personali”
“Tu che ne pensi?”
“Forse è vero”
“No, dico, tu che ne pensi se mettiamo i
cappelli da una parte, qui ad esempio?”
“Vorresti metterli in un cantuccio?”
“Spostarli verso quest’angolo qui”.
Carmencita aveva accompagnato la risposta con un gesto con cui sembrava volesse
togliere, scansare un ostacolo alla loro felicità.
“Non ti piacciono?”
“Non è che non mi piacciano è che mi
fanno inevitabilmente pensare ai tradimenti e a quella commedia coi sonagli”
“Il berretto a sonagli di Pirandello
intendi?”
“Sì quella”
“Già che c’eri avresti potuto farti
anche venire in mente Questi fantasmi di Eduardo, nel dialogo col professore
sul cuppitiello per il becco della caffettiera”
“Dici?”
“Ho la sensazione che non sia un caso se
Renato si sia specializzato nel confezionare proprio cappelli e credo che
Lauretta ce lo saprà dire presto. Mi diverte tutta questa storia, sai?”
“A me sembrava che ti incupisse”
“No, anzi, è il contrario direi”.
Avrebbe voluto aggiungere che i pensieri
avevano iniziato a percorrere strade meno tortuose, ritrovando la linearità
progettuale che la contraddistingueva e che l’aveva portata a studiare i
reconditi segreti dell’ingegneria e dell’architettura d’interni, ma le era
sembrata una mancanza di delicatezza nei confronti di Carmencita. Le era sempre
stata accanto, anche nei momenti più oscuri, quando tutto le era crollato
addosso all’improvviso e la calotta di cristallo sotto cui l’avevano tenuta il
padre e il marito si era sgretolata e lei aveva dovuto rimboccarsi le maniche
senza capire cosa stesse accadendo o, forse, comprendendolo con una lucidità che
le aveva tramortito la capacità di tenere tutto sotto controllo, le emozioni, i
pensieri, i sentimenti.
Le persone non si controllano, lo aveva
compreso. Era convinta di poterlo fare, di averlo sempre fatto, di aver avuto
tutto quanto e tutti quanti in mano. La sua vita, le sue scelte, la sua
indipendenza. Falsità, bugie e menzogne avevano contraddistinto la sua vita
fino al momento in cui tutto era stato diverso, d'emblée, senza preavviso.
“Lauretta dice che chi si è amato come
loro due non si separa mai”
“Beh, certo lei, con quattro matrimoni
alle spalle, di sempiterni amori è un’esperta! Ma dai Muriel…”
“Comunque sarebbe bello sapere che quel
tipo di amore esiste veramente”
“Certo che esiste: tra madre e figlio.
Punto.”
“Anche i padri amano i figli”
“I padri sono uomini”
“Di solito…”
“E anche René è un uomo”. Carmencita
pronunciò quest’ultima frase concludendo il discorso, per il momento,
sottolineando il concetto con un’alzata di sopracciglia che era tutto un
programma.
18.
L’avversione di Carmencita per
l’universo maschile era fondamentalmente giustificata dalla sua esperienza
personale e familiare, nonché da un’educazione rigida, improntata alla netta
divisione di compiti e funzioni.
Uomini, mariti, padri, zii, cugini erano
quasi sempre un accessorio ingombrante seppur necessario alla quotidiana
routine della vita paesana.
In cucina non aiutavano ma criticavano,
in casa sporcavano e non pulivano, soltanto tra trine, merletti e sottopunti
non entravano mai, o quasi. Era considerata un’attività in cui non impicciarsi
e lei si trovava a suo agio in quell’universo di conoscenza e sapere.
Anche i libri, a scuola, parlavano di
grandi eroi che avevano costituito la patria.
E le donne?
Erano per caso emigrate tutte da
un’altra parte mentre gli uomini lottavano valorosamente per il Paese?
E poi perché ‘patria’ e non ‘terra
madre’ o ‘natia’?
Tutto questo la infastidiva.
Anche negli ospedali, i medici parlavano
di instabilità ormonale.
Ma quale instabilità?
Le variazioni ormonali per la donna sono
la normalità altrimenti non ci sarebbe la procreazione, l’allattamento, di
quale instabilità si parla?
Rispetto a cosa?
A chi?
Agli uomini?
E per quale motivo si dovrebbe mettere a
confronto l’attività ormonale maschile con quella femminile?
Il corpo della donna ha una maggiore
capacità di adattamento al cambiamento, è in movimento perpetuo, costante.
È come l’Etna paragonato al Vesuvio.
Il vulcano siciliano erutta in
continuazione ed è pacifico, quello campano esplode raramente e quando lo fa
devasta, distrugge.
René scombussolava tutto, tanto più che
non era come Paolino. E da quello che diceva Lauretta sapeva pure amare,
conosceva la lealtà, sapeva aspettare.
Ah sì?
Davvero?
Certo, sapeva riconoscere un
chiacchierino da un pizzo olandese.
E allora?
“Una rondine non fa primavera”
“Appunto” Aveva forse parlato ad alta
voce? Non se n’era accorta.
Guardò René con un misto di curiosità e
diffidenza.
“Fa freddo fuori, sembra ancora inverno
pieno. Anche tu sei uscita di casa senza cappotto?”
“Freddo? Ah beh, ovvio, fa ancora freddo.
No, no mi sono premurata di prendere una stola calda”.
“È di pelliccia vera?”
“Sì, vecchie pellicce, molto ben tenute.
Buttarle è peggio che utilizzarle e c’è una cooperativa di donne, qui, sai hanno
aperto un centro antiviolenza e hanno avviato un’attività di recupero di lavorazioni
tradizionali. Vengono a lezione da noi per imparare a cucire, noi vendiamo
quello che producono e tratteniamo una piccola percentuale per le spese del
negozio e per le lezioni.”
“È un’idea bellissima. La realizzazione
però potrebbe essere migliorata a mio avviso”
“Forse”
“Puoi farmela vedere per favore?”
“Sì, certo, ecco”
René stette ad osservare a lungo e con
occhio clinico la stola. La allontanò da sé come se stesse guardando un quadro
puntinista, poi si riavvicinò ad osservarne i dettagli. La posò sul tavolo da
lavoro. Si avviò con un’improvvisa ispirazione verso un trolley baule, lo aprì,
all’interno c’erano trine e ricami di rara bellezza, alcuni avrebbero potuto essere
interessanti anche per il Museo del Merletto di Burano. Ne estrasse due o tre
di una foggia che Carmencita non aveva mai visto. Li avvicinò alla stola, cercò
con lo sguardo un prezioso broccato.
Carmencita era affascinata dai movimenti
di quella persona, appoggiò per qualche istante i suoi pregiudizi
nell’ombrelliera in ferro battuto e ceramiche artigianali.
“Ecco, credo che così potrebbe essere
anche più bello”
Il risultato era strabiliante. Era una
bozza, di tutta evidenza, ma originale.
“È particolare”
“Sì, sembra anche a me. Pensi che si
possa proporre di unire questa idea ad un’eccellenza produttiva? Io non mi
intendo molto di questioni, come dire, pratiche?, insomma non che non sia una
persona concreta ma, ecco…”
Sapeva anche ammettere i propri limiti.
Carmencita pensò che forse esiste un luogo in cui uomini e donne sono persone,
con le loro caratteristiche, le loro differenze e magari in casa puliscono,
cucinano e rammendano senza credere di fare qualcosa di strano, come dicevano
Muriel e Lauretta.
“Sai cucinare René?”
“Sì, certo: quando sei all’estero e sei
italiano non puoi non saper cucinare. A dire il vero non è previsto neanche che
non si conoscano bene i vini ma io sono astemio, non mi sono mai piaciuti gli
alcolici.”
“E le droghe?”
“Le droghe? No, non mi piace proprio
niente che alteri la percezione della realtà in modo incontrollabile. Se voglio
avere sensazioni forti scalo una montagna, fa anche bene alla salute, o vado
sull’oceano.”
“Ti piace il mare in inverno?”
“Sì, ecco, se voglio ‘stordirmi’
preferisco una bella passeggiata accanto all’oceano d’inverno, stando attento a
non farmi travolgere dai cavalloni. Perché me lo chiedi?”
“No, niente”
“Gli uomini non sono tutti uguali, sono
come le donne, diversi l’uno dall’altro, ma molti non lo sanno o non hanno il
coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Va bene, l’idea mi sembra buona. Mi
occuperò della parte che tu, Muriel e Lauretta chiamate ‘pratica’. C’è qualcosa
che serve per la parte che io chiamo ‘pratica’, ovvero la realizzazione
concreta?”
“Almeno una persona brava con merletti e
ricami”
“Va bene. Ti faccio sapere”.
19.
“Muriel?”
“Sì Carmencita, che c’è?”
“Che ne pensi di René?”
“Non ti piace, eh?”
“Non ho detto questo”
“No, no. Cos’è che non ti convince?”
“No, no, niente.”
“Carmencita?”
“Sì?”
“Da quanti anni ci conosciamo?”
“Ti sembra normale che un uomo si metta
a fare cappelli da donna e si interessi di trine e merletti, vada ad Anversa a
studiare all’accademia della moda, torni in Italia e si trovi per caso davanti
alla bottega nel momento in cui stiamo per aprire, conosce Lauretta e l’unico
suo interesse reale sembra essere Penelope, no dico, Penelope?”
“Sembra anche a me una persona
telepatica. Se ti devo dire cosa ne penso, mi fa pensare ad un gatto”
“Un gatto?”
“Sì, hai presente quei gatti che ad un
certo punto compaiono nelle vite delle persone e sembra che siano sempre stati
lì e che sappiano comprendere tutto anche meglio di persone care e amiche?”
“Avresti potuto dirmelo che sei
diventata buddista”
“Non sono buddista ma Sibilla parla
sempre dell’energia delle vite precedenti o di quella storia delle tante
dimensioni”
“La teoria della relatività: l’ha
inventata Einstein”
“Ma pensa!”
“Comunque, il paragone è calzante”
“Penelope è tanto una brava persona”
“Non lo metto in dubbio ma ti sembra una
donna che possa ispirare una passione tanto forte da travalicare anni, confini,
esperienze?”
“Oh senti, non so che dirti ma
Lauretta…”
“Eh, Lauretta, Lauretta ma che ne sa lei
dell’amore?”
“Qualcosa avrà pur capito con tutti i
matrimoni e i figli che ha in giro per il paese!”
“Non lo so, c’è qualcosa che non mi
quadra”
“Carmencita?”
“Eh?”
“Non è che, per caso, quello che non ti
quadra è che mette a soqquadro tutti i tuoi pregiudizi e le tue diffidenze nei
confronti dell’universo maschile?”
“Ah, tu e Lauretta dovete smetterla di
pensare che io abbia qualche forma di idiosincrasia particolare o cosa: io non
ho nessun pregiudizio.”
“No, pensi soltanto che gli uomini siano
cretini”
“Il più delle volte”
“Ah vedo che ti stai ammorbidendo”
“Sai che mi ha detto?”
“Chi, René?”
“Eh”
“No, che ti ha detto?”
“Che gli uomini non sono tutti uguali e
che sono persone come noi ma che non hanno il coraggio di ammetterlo a sé
stessi”
“Andiamo a prendere una tazzona di
tisana col ciambellone”
20.
Paolino non si sarebbe perso la serata
di inaugurazione per niente al mondo ma non era riuscito a cambiare il turno di
lavoro e quel giorno era in un altrove in cui avrebbe voluto non essere mai
andato, anche perché si era ritrovato in un bar insieme a colleghi e clienti
che definire retrivi sarebbe stata una forma di gentilezza che avrebbe
travalicato anche le sue più abituali doti di cortesia. Sorridendo per
mascherare il disgusto, aveva dovuto ascoltare chiacchiere insopportabili
riguardo a donne, calcetto, omosessuali, in ordine sparso. Quando la sua
leggendaria tolleranza stava per incrinarsi si era stretto nelle spalle ed era
riuscito a sottrarsi alla compagnia con la scusa di una impellente telefonata
galante. La propria voce interiore lo istigava a rovesciare il tavolo, dire che
gli stava venendo da vomitare, inciampare casualmente su un vassoio di tartine
con la maionese da spalmare addosso ai suoi commensali e urlare quello che
pensava. Aveva preferito la via diplomatica. Non era un ambiente, né un luogo,
in cui avrebbe potuto esprimere la propria natura, per cui, riconquistato un
suo spazietto, si era dedicato alla pratica yogica.
Appena tornato al paese, però, non perse
un istante per andare nella bottega ad informarsi.
“Lauretta buongiorno, cercavo proprio
te, voglio un resoconto dettagliatissimo. Intanto questi sono per voi, qualche
dolcetto per la colazione e un paio di oggetti che non potevo non portarvi.”
“Anche la camelia? Paolino sei uno
spettacolo”
“Sì, ho fatto una piccola deviazione a
Velletri. Dimmi tutto”
Lauretta liberò la mole di informazioni
immagazzinate e riposte in un angolo della sua memoria per lasciare il posto
all’affaire René Penelope e i due rimasero a parlottare per un tempo che sembrò
brevissimo ai due interlocutori.
“Credo sia ora di cena Paolino, vuoi
venire a mangiare da noi?”
“Certo!”
Muriel si era sempre chiesta come
facessero a ricordare tutte quelle generazioni di parentele, amicizie,
intrighi, vestiti e corredi ed era giunta alla conclusione che fosse un mistero
cosmico.
Per Paolino parlare con Lauretta era
rinfrancante: lo faceva sentire bene, all’interno del suo universo di senso.
“Paolino?”
“Dimmi”
“Se non fossi gay saresti il mio
prossimo marito”
“Lauretta, sei l’unica donna che
potrebbe tentarmi”
Ciò detto, si salutarono ridendo dopo
aver chiacchierato per poco meno di ventiquattrore filate.
21.
René uscì a fare una passeggiata.
Aveva la mente piena di merletti, trine,
tessuti e aveva bisogno di pensare in libertà.
Tutto era accaduto velocemente da quando
era tornato in paese e non aveva ancora avuto modo di lasciar decantare le
emozioni.
Aveva affinato la tecnica di non
immergersi in niente che potesse scuoterlo dalle viscere. Tutto poteva essere
osservato dall’esterno.
“René, che piacere inaspettato”
“Paolino, ciao. Sei stato da Lauretta?”
“Si vede molto?”
“Hai lo sguardo tra il felice e il
birichino e la barba non curata. Non so, ma non mi sembra che usciresti di casa
senza esserti occupato della tua toilette”
“Ehi, sai osservare le persone. Bene
allora che ne dici di fare quattro passi insieme nel parco?”
“Volentieri, stavo proprio cercando un
sentiero per una camminata lontano dal traffico”
“Hanno da poco inaugurato il parco
tematico, è piuttosto grande e si può camminare agevolmente sui sentierini. A
me piace molto, hanno addirittura pensato a creare percorsi soltanto per cani
per cui non c’è pericolo di imbattersi in animali nevrotizzati dalla vita
d’appartamento”
“Detesti i cani?”
“Ne ho sei. Ma li lascio vivere
tranquillamente la loro vita senza interferire troppo. Amo rispettare le
diversità.”
“Mi sembra una buona base per una
amicizia sincera”
“Già. Posso farti una domanda?”
“Sì, a patto che sia sufficientemente
indiscreta”
“Se tu fossi gay saremmo una coppia
perfetta. Comunque, perché te e Penelope vi siete abbandonati e cercati e
aspettati per tutti questi anni?”
“Alquanto indiscreta direi. Non lo so.
Pensi che lei mi abbia aspettato?”
“René, è evidente, palese, cristallino.
Dunque, che è successo tra voi?”
“Abbiamo litigato, come si dice? per
futili motivi e poi eravamo talmente orgogliosi che non abbiamo avuto il
coraggio di ammettere che eravamo due cretini”
“Lo siete ancora, per quanto concerne i
sentimenti intendo”
“Ci vai leggero con le parole, eh?”
“Non volevo offenderti è che, beh ecco,
avete intenzione di trascorrere qualche altro lustro prima di capire che
sarebbe il caso di, che ne so, uscire a prendere una pizza, un aperitivo, un
gelato?”
22.
Forse aveva ragione Paolino ma René non
voleva entrare in qualche vortice di speranze disattese. Voleva pensare al suo
lavoro, ai suoi interessi.
Tornare in Italia non era stato semplice
anche se aveva trovato subito un’occupazione.
Gli mancavano molte cose del Belgio,
riabituarsi alla mentalità italiana non era stato così semplice. La
disorganizzazione strutturale nella vita quotidiana può essere scomoda.
Aveva dovuto imparare nuovamente a
guidare.
Utilizzare un’autovettura anziché
contare sull’efficienza del trasporto pubblico e sulla possibilità di camminare
a piedi o muoversi in bicicletta non gli garbava punto.
La mancanza generalizzata del senso
della cittadinanza attiva lo disturbava anche nei piccoli gesti. Trovava
inaudito, ad esempio, doversi accertare che le auto si sarebbero fermate
davanti alle strisce pedonali.
È così difficile capire che se ci sono
delle strisce pedonali e c’è una persona in procinto di attraversare la strada
è necessario rallentare, fermarsi?
Le vie degli antichi romani hanno
resistito per millenni, quelle moderne hanno un asfalto che pare idrosolubile,
i marciapiedi sono un concetto astratto e chi va a piedi viene spesso
considerato un eccentrico o qualcheduno che ha qualche problema, di ordine
economico o di socialità.
La mancanza di bagni decenti nei luoghi
pubblici delle grandi città, inoltre, lo infastidiva alquanto.
Cibo, clima e generale solarità delle
persone, oltre alla straordinaria bellezza paesaggistica e architettonica del
Paese aiutavano ad affrontare i tanti disagi dell’inciviltà statale.
Ascoltare l’italiano ovunque, seppur
bistrattato da una generica disaffezione verso la propria cultura, era
piacevole ma non poteva fare a meno di roteare gli occhi quando udiva scempi
nella coniugazione verbale. In casa era abituato a parlare decentemente, era
una forma di rispetto.
La presenza di Penelope, certo, gli
aveva in qualche modo riaperto uno spiraglio di felicità interiore che aveva
riposto in un qualche angolo nascosto del suo essere ma questo non c’entrava
con quello che diceva Paolino e che forse pensava anche Lauretta. Il detto
latino “vox populi vox dei” gli venne involontariamente in mente ma scacciò il
pensiero con uno scotimento di testa, naso e labbra serratissime.
23.
Brigida aveva deciso di fare un bel
discorsetto a suo fratello Guccio. Anche se a lui Paolino piaceva, lei non lo
avrebbe mai chiamato in quel modo. Era orgogliosa del suo nome, testimonianza
di antiche origini toscane di cui andava fiera.
Era più che evidente che quel Renato,
che si faceva chiamare René, lo aveva abbindolato coi suoi pizzi e merletti e
discorsi vacui su un qualche altrove ma lui non avrebbe dovuto dare scandalo in
paese.
Se era proprio in quel modo, come diceva suo marito, buonanima, che l’onnipotente
l’abbia in gloria, lei non ne aveva colpe e chiunque, nel gruppo di preghiere,
nel coro, e nella confraternita avrebbe potuto testimoniare i suoi enormi
sforzi per riportarlo sulla giusta via.
L’unica possibile, l’unica che non
andasse contro natura e che rispettasse la suprema volontà, checché ne
dicessero certi religiosi che si definivano ‘moderni’.
Ora, va bene tutto, ma che cosa c’entrasse
la modernità con la negazione della normalità non lo aveva né lo avrebbe mai
capito.
Era assolutamente fuori discussione che
il fatto che lei guidasse la sua automobile, caricasse la lavastoviglie e
andasse ad esercitarsi nelle simulazioni di guerra tutti i giovedì avesse
qualcosa a che fare con, beh sì insomma quella cosa lì, la sodomia, che solo a pronunciare la parola le venivano i brividi di
ribrezzo dietro la schiena.
Oh, ci aveva davvero provato in tutti i
modi, con le buone e con le cattive. Aveva chiamato specialisti e negromanti ma
non c’era stato proprio niente da fare, per il momento.
Certo, l’arrivo di quel cicisbeo non
aveva fatto gioco alla sua santa causa di redenzione.
Lauretta l’aveva poi fatta proprio
andare su tutte le furie, sembrava che fosse stata lei a dire che era una
persona ammodo. Certo, lei con tutti quei mariti e quei divorzi cosa fosse la
normalità non l’aveva mai veramente capito ma da qui ad avallare quella cosa lì
ce ne passa, oh se ce ne passa.
Li avevano anche visti insieme nel
parco, che sfacciataggine, non aveva per niente pensato alle conseguenze per i suoi nipotini a
scuola, che già avevano avuto le segnalazioni dalla preside per, come si chiama
adesso, ah sì, bullismo. Soltanto poi perché avevano reagito alle infamanti
accuse rivolte alla loro madre, che tesori. Sì, certo, il più grande era un po’
irruento, forse appiccicare l’insegnante all’appendiabiti per non avergli
consentito di digerire apertamente e sonoramente in classe era stata una
reazione un po’ troppo virile. Ma almeno li stava crescendo maschi, nel pieno
rispetto delle leggi divine.
24.
Donna Lia era conosciuta, rispettata e
vagamente temuta in tutto il paese e dintorni.
Le sue osservazioni, i suoi appunti,
quando espressi apertamente, se così si vuol chiamare il complesso di formalità
di cui ammantava le proprie frasi, erano vere e proprie sentenze, il più delle
volte senza appello.
Non c’era evento, mondano o privato, che
avesse una certa rilevanza sociale a cui lei non era invitata caldamente a
partecipare.
La sua presenza era garanzia di buona
reputazione e solida aderenza ai dettami delle tante leggi non scritte di bon
ton.
Qualcuno, non senza invidia, asseriva
che fosse invece garanzia di noia e ingessata formalità. Con lei spaparanzarsi
al sole su un bel plaid a cantare e ballare a piedi nudi sarebbe stato
impensabile. Si poteva, certamente, organizzare un pic-nic ma con stile ed
eleganza, il che equivaleva, per i maligni di cui sopra, ad una odiosa
ostentazione di oggetti modaioli e di pregio, conversazioni laccate e grandi
sbadigli.
Una significativa alzata di sopracciglia
metteva a tacere le chiacchiere meschine di chi, sbandierando libertà, non
faceva altro che intaccare le conquiste di educazione dell’era moderna.
Al giorno d’oggi anche una persona di
estrazione se non infima comunque bassina poteva, con le dovute accortezze,
adeguarsi, apprendere quelle regole di comportamento che distinguono l’uomo dai
cavernicoli, possibilmente andando a reprimere con disciplina ed esercizio
costante l’elemento dionisiaco, i sentimenti, gli istinti primordiali.
A cominciare dal cibo e dalla repressione
di quei bassi istinti che molti confondevano con l’amore. Figurarsi, come se un
abbraccio appassionato potesse garantire la retta dell’università!
Esercitare la propria volontà con
rigorosissime diete, preparando piatti elaborati, scenografici era inoltre un
suo punto fermo.
L’arrivo di René, così disinvolto ed
elegante, tanto diverso da lei avrebbe forse potuto incrinare il suo prestigio
tanto faticosamente conquistato ma lei avrebbe saputo certamente come irretirlo
e inserirlo nella sua cerchia di conoscenze così da poterne controllare
movimenti e impatto degli stessi su quello che lei, in base a sue
personalissime teorie, aveva assurto a suo territorio.
25.
Dal giorno dell’inaugurazione Penelope
si sentiva più leggera. La cupezza che le attanagliava il cuore da un tempo di
cui non ricordava l’inizio si era improvvisamente diradata, un po’ come la
bruma nelle mattine d’autunno.
Le era sempre piaciuto guardare la
nebbia che avvolgeva i paesaggi rendendoli per qualche tempo invisibili, diversi.
I contorni, le linee di confine tra
spazio ed elementi che lo compongono parevano smussarsi fino a dissolversi per
poi riaffiorare alla superficie dell’immanenza.
Le sembrava che in quelle ore, in quegli
istanti anche lei potesse diventare indistinto elemento del tutto e che il
tutto divenisse partecipe di quel sentimento di incompiutezza che ne
contraddistingueva l’umore da qualche tempo, non avrebbe saputo dire quanto,
forse da quando René se n’era andato la prima volta, ma non ne era certa e
comunque non voleva pensarci.
Non aveva mai veramente dato peso a
quella sensazione di parzialità costante che ne attenuava la forza passionale,
una caratteristica forse discutibile ma peculiare del suo essere. Ultimamente
aveva imparato a reprimerla per non lanciarsi più in qualche progetto che le
prosciugava le energie e alla fine non la soddisfaceva mai fino in fondo anche
se gli altri pensavano che tutto fosse straordinariamente ben fatto, e in così
poco tempo!
I suoi occhi erano febbrilmente vivi,
sembrava la stessero cercando.
Non voleva farsi illusioni.
Sarebbe stato bene tenere i remi
saldamente in barca.
Per il momento avrebbe evitato di andare
nella bottega.
Almeno fino a quando non avesse chiarito
con sé stessa le sue priorità.
La camminata mattutina l’aveva aiutata a
pensare nel giusto modo.
Era anche un po’ stanca, aveva fatto un
giro ben lungo.
“Penelope, ciao, che piacere vederti,
entra, entra a prendere una tisana con noi”
Era proprio la voce inconfondibile di
Muriel.
Il suo sguardo aveva vagato in cerca di
una spiegazione plausibile fino a fermarsi sull’insegna pitturata a mano.
“Ti piace l’insegna? L’ho dipinta io,
dai entra, ti vedo un po’ stanca”
Entrò e riuscì a balbettare, tra la
soddisfatta curiosità di Lauretta e la preoccupata premura di Carmencita, che
sì, era un po’ stanca perché aveva camminato a lungo per un motivo che non
riuscì a precisare.
René era andato a prendere qualcosa da
mangiare visto che Paolino aveva dovuto correre dalla sorella Brigida per
qualche questione urgente.
Penelope si rilassò sapendo di avere
qualche minuto a disposizione per elaborare una scusa plausibile ma le sue
riflessioni vennero intercettate dagli occhi di Lauretta che sapeva benissimo
in che modo intrattenere una lunghissima conversazione con una persona senza
destare sospetti e soprattutto senza lasciar via, né tempo, di fuga.
Muriel e Carmencita le ressero il gioco,
pur non essendo edotte sui particolari avevano ben capito la situazione e,
senza neanche bisogno di un cenno d’intesa, avevano iniziato un vero e proprio
balletto di parole e battute cui Penelope non avrebbe potuto sottrarsi.
26.
Cosa volesse mai Brigida da Paolino era
presto detto: gli avrebbe fatto una bella lavata di capo stavolta e non avrebbe
lasciato correre come avevano sempre fatto i loro genitori.
La presenza del fratello nella bottega
era quanto mai sconveniente, le persiane e le serrande del paese la schernivano
già.
Ne era più che certa.
Sant’Anselmo di Canterbury e San
Sebastiano non avrebbero potuto proteggerlo dagli sguardi pettegoli e cattivi
delle malelingue.
Dapprima aveva pensato che Guccio fosse
un’emanazione del maligno ma poi si era convinta che fosse un’espressione della
volontà dell’Altissimo per mettere alla prova la sua fede in Lui. Ah ma avrebbe
potuto star certo che lei non si sarebbe fatta scrupolo di dimostrare tutta la
sua pia devozione in qualunque modo avesse potuto, l’ispirazione e la guida
gliel’avrebbe infusa tutto il suo amore per Santa Caterina da Siena.
“Guccio carissimo, che piacere vederti.
Ti trovo sciupato, che fai mangi poco?”
“Brigida cara, dici? Te sei in splendida
forma invece.”
“Forse hai bisogno di mangiare qualcosa
di buono, ben cucinato”
“A proposito, quasi dimenticavo. Ti ho
portato una Sacher fatta con le mie mani, so che ti piace tanto. La panna
d’alpeggio non l’ho trovata, mi spiace, per cui ho dovuto acquistare quella di
allevamento, non intensivo s’intende ma il sapore è leggermente diverso. Anche
il burro, ho usato il crudo della fromagerie Saint Xavier ma non è la stessa
cosa.”
“Oh grazie, non dovevi disturbarti”
“Nessun disturbo, sai che cucinare mi
rilassa. Ho preparato pure qualcosa di salato ché tanto tu coi fornelli hai
litigato da tempo immemore, non te ne avere a male Brigidina cara ma prevenire
è meglio che curare”
“No, no, figurati. Ecco appunto, Guccio,
prevenire è meglio che curare”
“Brigida allora che ti è capitato
stavolta?”
“A me assolutamente niente. Comunque la
differenza col il burro d’alpeggio la senti soltanto tu questa Sacher è
squisita.”
“Mi fa piacere che ti piaccia. Ognuno ha
i suoi gusti… oh santa miseria ti è andato per traverso, sei diventata paonazza”
“No, tutto bene, tutto bene. Senti
Guccio, la mia è una convocazione in piena regola”
“Ah tesoro, lasciami stare che ho le
lune storte da qualche giorno”
“Da quando ha aperto il negozio di
quella tua amica senza vergogna?”
“Chi è senza peccato scagli la prima
pietra, ricordi? Comunque immagino tu stia parlando di Lauretta.”
“Proprio! E ha pure portato il prete
sulla cattiva strada, in chiesa si è risposata per ben quattro volte, senza
neanche avere la buona creanza di…”
“…di uccidere il marito come la tua
amica?”
“Non lo ha ucciso”
“Gli ha semplicemente somministrato una
zuppa di galerina marginata e cortinarius speciosissimus con secondo di botelus
satanas e contorno di carpaccio di amanita verna, così tanto per non sbagliare”
“Non è colpa sua se non conosce i
funghi”
“Per raccoglierli è necessaria una
apposita licenza, un patentino”
“E lei li ha raccolti lo stesso, ma una
cosa è una multa per mancanza di patentino raccogli funghi e un’altra un’accusa
di omicidio”
“Già già, la vedova inconsolabile. Dov’è
adesso?”
“L’ultima cartolina l’ha inviata dalle
Cayman”
“Ah, dimenticavo che il nuovo consorte è
un trafficante d’armi”
“Non è un trafficante d’armi, lavora per
una importante multinazionale”
“Che produce armi”
“Non le fabbrica mica lui”
“Certo, certo”
“Sei impossibile”
“Che volevi dirmi?”
“Ti volevo chiedere di quel René”
“Tranquilla, è etero. Non ti chiederò di
farmi da testimone di nozze per il momento, puoi mangiare la Sacher con tutta
la serenità che richiede”
“Non è questo il punto”
“Brigida, anch’io ti voglio bene pure se
sei una bigotta con ossessioni ricorrenti, ora devo andare”
“Guccio, non ho finito!”
“Ciao Brigidina cara, stammi bene e
saluta le amiche di preghiera”
“Guccioooo!”
27.
“Chi lascia la via vecchia per la nuova
sa quello che lascia ma non quello che trova. Pensavo di prendere una
scorciatoia e invece mi sono perso tra le case costruite di recente. C’erano
prati e canneti quando ero ragazzetto e adesso sembra una nuova città. Comunque
eccomi qua, croissant e ciambelle… direi tiepide. Ciao Penelope, che ci fai
qui?”
“Ciao René, ma niente, stavo facendo una
camminata e mi sono persa, poi ho chiacchierato un po’ con Carmencita, Muriel e
Lauretta…”
“Ah e dove sono adesso?”
“Sei nella bottega, ma ti senti bene?”
“No, dico, dove sono loro adesso?”
“Come dove sono loro… adesso… già, dove
sono loro adesso?”
“Forse sono venute a cercarmi?”
“Me lo avrebbero detto, penso”
“Già. Sei sicura di star bene?”
“Sì sì, tolgo subito il disturbo,
tranquillo, magari tu pensi che io stessi parlando con… non so con il mannequin.
Io veramente quando mi sono accorta di essere arrivata qui avrei voluto proprio
andarmene e non so perché… stavo passeggiando per godere un po’ di aria
frizzante… sai è… è tonificante e poi pulisce la mente e manda via le nubi…
cioè non che io abbia le nuvole in testa di solito è che avevo voglia di
camminare”
“È un’ottima abitudine”
“Cosa?”
“Camminare e perdersi nei propri
pensieri nebulosi per poi ritrovarsi in un posto che si stava cercando di
evitare, è così?”
“No, che c’entra a me questa bottega
piace moltissimo, è carina, non stavo cercando di evitare proprio un bel niente
è che”
“Anch’io stavo cercando di evitarti”
“Ah ma io proprio non so di che parli”
“Non stavi cercando di evitarmi?”
“Proprio no, cioè non ti sono venuta a
cercare, stavo semplicemente facendo una camminata e mi sono trovata qui, poi
Lauretta e Muriel e Carmencita… ma dove saranno adesso?... hanno iniziato a
parlare e non la finivano più, non che non mi piaccia discorrere con loro ma
già avevo fatto un giro lungo e l’unica cosa da fare sarebbe stata tornare a
casa”
“Vuoi un croissant o preferisci una
ciambella?”
“Scusa?”
“Ho portato la colazione ma se loro sono
uscite per qualche incombenza intanto potremmo spizzicare qualcosa. Io ho una
fame e se tu hai fatto un giro così lungo avrai probabilmente bisogno di
mangiar qualcosa”
“Ah, beh, sì, perché no?”
“Quale preferisci?”
“Non saprei”
“Facciamo così: prendiamo mezza
ciambella e mezzo croissant per uno, ti va?”
Muriel, Lauretta e Carmencita si erano
praticamente dileguate lasciando a Penelope e René tutto il tempo, e l’agio, di
fare colazione insieme.
28.
“Pensi che si siano accorti che siamo
uscite dalla porta di servizio?”, chiese ridacchiando Carmencita che non si
sentiva così allegra da quando era una ragazzina, le era sembrato di tornare ai
tempi di piripiribozza, cucciolapentola e di quegli altri giochi scemi che si
facevano in paese.
Giocare a campana o fare le figure con
l’elastico nel cortile della scuola le era sempre piaciuto tanto, era
bravissima ma aveva quasi dimenticato la spensierata gaiezza di quei pomeriggi,
almeno fino a quel momento.
“Non mi sembra che si siano premurati di
venirci a cercare” rispose Muriel ridendo sguaiatamente.
“Vabbe’, che dite li andiamo a
disturbare un po’?”, propose maliziosamente Lauretta.
Aspettarono quel tanto che bastava per
farle smettere di gongolare e ridacchiare e si incamminarono verso la bottega
ma dovettero tornare indietro un paio di volte perché continuavano ad avere la
‘ridarella’.
Quando entrarono nella bottega avevano
gli occhi felici, birichini e inumiditi dalle lacrime ma cercarono di darsi un
contegno con qualche colpetto sui fianchi o un pizzicotto di quando in quando.
29.
“Oh René, sei qui, ma dove sei andato a
compare i cornetti?” chiese con aria innocente Lauretta
“Penelope, scusa se ti abbiamo lasciato
sola ma vedo che hai trovato compagnia”, rincalzò Muriel mordendosi la lingua
per non ridere
“Buongiorno, no ma io stavo proprio per
andar via”
“Ma no, che dici, prendiamo un caffè”,
la fermò Carmencita che si stava ormai divertendo moltissimo.
“Chi la fa l’aspetti”, affermò René
aggiungendo “so che siamo tutti quanti a dieta ma queste ciambelle sono proprio
soffici e i cornetti così ben sfogliati…”
“Ma sì dai, faremo uno strappetto alla
regola. Passami la bomba con la crema al cioccolato” rispose ridendo Lauretta
guardando Muriel di sottecchi
“Magari Lauretta quella al cioccolato la
mangio io, tu prendi il cornetto vegano”, la rimbrottò Carmencita che sembrava
tornata bambina
“No, il cornetto vegano no, dai”
“Sì, il cornetto vegano sì”, asserì
Muriel mettendole la pasta tra le mani e togliendole così ogni speranza di
tuffarsi nella più grassa e calorica brioche.
“Io devo proprio andare, davvero o farò
tardi per… per”
“Rimani, tanto queste tre pesti non ti
lasceranno andare, anzi sai che ti dico?, posso accompagnarti?”
“Dove René?”
“Ovunque”
30.
Lauretta era soddisfatta e felice.
Avrebbe proprio voluto vedere Guccio, detto Paolino, e chiacchierare con lui
per tutta la notte, raccontando per filo, per segno e con parecchia fantasia,
quello che era accaduto quella mattina. Sembrava che tutto avesse
improvvisamente iniziato ad avere un senso compiuto.
Paolino però non sarebbe tornato prima
di tre giorni e parlare attraverso qualche mezzo elettronico non era nella
natura della loro amicizia.
Attese pazientemente e si accorse che la
sua vita era sempre stata piena di tante passioni e poco amore. Si incupì, la
sua proverbiale allegrezza sembrò svanire d’incanto insieme alla sua voglia di
fare. Decise che avrebbe trascorso le ore che la separavano dall’incontro col
suo amico in apatico torpore.
“Buongiorno Muriel, ma erano René e
Penelope quelli che ho visto uscire poco fa?”
“Buongiorno Paolino, ma non dovevi
essere all’estero? Va di là che Lauretta ha deciso di chiudersi a riccio,
magari se ti vede potrebbe cambiarle l’umore”
“Corro”
Quando lo vide un sorriso luminoso la
trascinò via dai suoi pensieri aquilone e la riportò alla sua abituale gaiezza.
Si mise a parlare fitto fitto cercando
di non ferire il suo amico Guccio, il quale cercò di consolarla asserendo che
era rimasto con una scusa perché aveva incontrato una persona ammodo. Forse non
sarebbe stato campane e abito bianco ma si piacevano. Le mostrò le foto e le
raccontò che faceva l’aviatore.
“Bellino è bellino, sembra pure
simpatico ma dici che è fedele?”
“Potrebbe e comunque questo dovrai
dirmelo tu”
Le comunicò tutti i dettagli che aveva
potuto apprendere. Lauretta era galvanizzata dalla nuova missione in cui si
sarebbe lanciata con gran fervore chiudendo per sempre la porticina del
rimpianto, della saudade, per il grande amore che non aveva, e forse mai
avrebbe, incontrato.
31.
Carmencita sistemò la bottega con la
solerzia che la caratterizzava quando decideva di rimettere a posto qualcosa di
importante.
La presenza di René aveva scombussolato
fin troppo le sue convinzioni, i suoi piani e le vite delle sue socie e
migliori amiche.
Si sentiva un po’ più fiduciosa nelle
persone, questo sì, e aveva anche riso come non le capitava da tantissimi anni,
era vero, ma…ma forse non c’era proprio nessun ‘ma’, avrebbe dovuto ammettere
che era felice, tutto sommato, della sua presenza.
Non avrebbe mai creduto, se
gliel’avessero raccontato, che avrebbe provato un senso di benessere anche
grazie ad un uomo che non era uguale a tutti gli altri, che poi, a ben
guardare, neanche gli altri erano proprio tanto simili, anche loro avevano
sentimenti, esigenze, paure, pensieri. Beh, magari meglio non esagerare. La
stragrande maggioranza rientrava nelle categorie in cui li aveva relegati e non
avrebbero dovuto intrecciare il placido scorrere della sua esistenza.
Aveva che suo marito aveva talune
fragilità che tentava di mascherare dietro una facciata di cliché. Per qualche
istante le era sembrato che lui detestasse le partite e guardare gli sport ma
che lo facesse perché così avrebbe avuto qualcosa di cui parlare con gli altri
mariti che ben sapevano di non dover forzare gli steccati che dividevano il
loro mondo dall’universo delle loro consorti.
Provò a parlargli della bottega, lui la
guardò smarrito, cercando un appiglio cui aggrapparsi nel caso avesse fornito
la risposta sbagliata. Carmencita gli stava raccontando qualcosa di sé e lui
non sapeva davvero come reagire. Avrebbe dovuto preoccuparsi o dimostrare
interesse? Ricordò una barzelletta che aveva letto da qualche parte, le porse
un bicchiere di vino e le avvicinò qualche stuzzichino senza offrirglielo, non
era certo che le piacessero, se stesse facendo una qualche dieta che proibiva
proprio quel cibo. Il movimento fu cauto e circospetto, Carmencita notò per la
prima volta la quantità di attenzioni che racchiudeva quel semplice gesto, le
venne spontaneo accarezzargli la mano. Lui non la mosse, non poté fare a meno
di spostare lo sguardo a destra e sinistra, alternativamente, lei intrecciò le
loro dita e con l’altra mano gli assestò una carezza sul volto. Lui era in
tilt, non capiva il perché di tanta improvvisa dolcezza, gli piaceva ma non
sapeva cosa lei si aspettava che lui facesse. Non voleva interrompere quel
momento: era rilassante, gradevole. Le disse che era molto orgoglioso di lei.
32.
Muriel osservò soddisfatta l’insegna.
“Il Chiacchierino” era proprio quello
che avrebbe voluto, una bottega, non un negozio dove acquistare cose che poi si
lasciano da qualche parte, distrattamente.
Un refolo di vento le scompigliò i
capelli.
Provò una gran voglia di concedersi un
lusso.
Salutò le sue amiche e socie e si recò
senza indugio verso la sua meta.
Entrò in libreria, acquistò un romanzo,
si accomodò ad un tavolino, ordinò una bella centrifuga di frutta e trascorse
il pomeriggio a leggere.
33.
“Voglio che tu sia sincero”
“Lo sono sempre stato”
“Uhmm è vero ma voglio sapere una cosa”
“Dimmi”
“Perché te ne sei andato?”
“Perché me ne sono andato?”
“Eh, sì”
“Hai la memoria corta, vedo”
“Non ho la memoria corta, non pensavo
che…”
“…che avrei preferito andarmene?”
“Ma preferito a che cosa, scusa?”
“Che vuol dire a che cosa ma non ricordi
che non mi volevi più vedere né sentire?!? Io continuavo a portarti fiori,
sembravo quel personaggio maschile della Canzone di Marinella che ‘bussò
cent’anni ancora alla tua porta’ e non ti degnavi neanche di parlarmi”
“Ah io? Devo proprio avere la memoria
corta perché mi pareva il contrario sai…”
“Ti propongo un gioco”
“Dimmi”
“Facciamo che invece di rinfacciarci
cose accadute qualche lustro fa decidiamo di goderci la vita ed essere felici
insieme?”
34.
Penelope ebbe un sussulto quando vide
arrivare René con un cestino di vimini intrecciato a mano, rivestito con un
canapone rifinito all’uncinetto e foglie verdi a forma di cuore, colmo di
frutti arancioni.
Appena li ebbe assaggiati un senso di
vertigine la avvolse tra le spire di un déjà-vu che la riportò anni indietro.
Il sapore delle albicocche mature colte
di primo mattino è indimenticabile, fresco, dolce e asprigno al contempo, una
di quelle sensazioni che rimangono impresse nella memoria emotiva.
I suoi genitori avevano acquistato un
marchingegno per preparare ottimi succhi di frutta e quell’anno gli alberi si
erano orgogliosamente gonfiati di succulente prelibatezze. Appena svegli
andavano nel giardino, non lontano dalle mura, raccoglievano quelle bontà… quante
ce n’erano!
La cucina era un trionfo di arancione e
verde, il grande pentolone per marmellate e conserve sempre in giro, l’odore
dolciastro si univa alla spensierata allegrezza di quell’estate.
Lei era appena all’inizio della sua
pubertà, stava diventando una splendida giovane donna ma non se n’era ancora avveduta.
Sua madre, le sue zie e le sue cugine
più anziane la motteggiavano ma lei non capiva perché le dicessero tutte quelle
sciocchezze.
Un giorno era tornata a casa con il
volto livido, le labbra tremanti e un broncio nouvelle vague.
35.
“Amore che è successo, che è quella
faccia?”, aveva chiesto preoccupata sua madre
“Ah niente, figurati”, aveva risposto
Penelope piccata
“Cosa devo figurarmi?”
“Niente di niente di niente”
“E cos’è questo niente di niente di
niente?”
“Ah non te ne sei accorta?”
“Di cosa tesoro di zia?”, era
intervenuta preoccupata la zia
“Non vedi come sono vestita?”
“Perché come sei vestita?”, s’era
intromessa Gaia la più anziana tra le sue cugine
“Non ti ci mettere anche tu!” aveva
replicato piccata Penelope
“Ma perché che ho detto?” aveva risposto
Gaia andando ad aprire un pacchetto di patatine
“Dai Penelope, non la tirare per le
lunghe, che è successo?” aveva chiesto Laura, la più giovane tra le cugine più
anziane
“Mi guardavano tutti quanti!”
Una risata liberatoria aveva riempito lo
spazio sonoro della stanza e i cuori delle donne, Penelope le aveva guardate
con due occhi offesi da adolescente incompresa, la zia si prese la briga di
spiegarle:
“Amore di zia, sei piccola ma sembri già
una donna e sei bellissima, è per questo che ti guardavano”
36.
René non l’aveva guardata, ne era certa.
Non si era proprio accorto di lei neanche quando, di proposito, si era vestita
di tutto punto, aveva acconciato i capelli e si era anche truccata un po’, non
troppo, giusto per sentirsi più carina.
Aveva indossato il vestito che le aveva
regalato sua nonna, di seta con inserti in pizzo a contrasto.
Nonna Egeria aveva cercato di aggirare
il divieto della madre di Penelope a crearle il corredo regalandole di quando
in quando un vestito, una sottoveste o un asciugamano particolare e così aveva,
come si suol dire, salvato capra e cavoli.
I fiori corallo e acquamarina si
modellavano voluttuosi intorno alle rotondità sode e morbide della sua giovane
età mettendo in risalto le labbra carnose, gli occhi vivaci.
Un’eleganza naturale, unita alla
goffezza adolescenziale, traspariva dal modo in cui si muoveva, la seta le
scivolava morbidamente sul corpo, Penelope riabbassava l’orlo che si era alzato
troppo spingendolo in basso con il palmo delle mani.
Le gambe si muovevano incerte su scarpe
troppo serie per la sua indole, alternando slanci da valchiria a passetti da
geisha.
Il trucco le illuminava il volto ma ne
offuscava in qualche modo la gentilezza nei lineamenti.
Aveva convinto Lauretta, che non era mai
struccata neanche in casa e si raccontava che subito dopo il travaglio
chiedesse sempre uno specchietto per controllare trucco e parrucco, ad
insegnarle le arti cosmetiche ma in cambio aveva dovuto fare lo slalom tra le
tantissime domande sul motivo di tale richiesta.
Come prevedibile, Lauretta aveva
compreso ben prima di iniziare il suo personalissimo, e molto raffinato,
interrogatorio, cosa stesse accadendo e dentro di sé gongolava di contentezza.
37.
René aveva deciso di prendere lezioni di
flauto traverso, voleva, doveva imparare a suonare o Penelope non lo avrebbe
mai neanche degnato di uno sguardo con quegli occhi che gli facevano ribollire
il sangue soltanto a pensarci.
Quando l’aveva vista camminare un po’
sghemba con quel vestito addosso il suo unico pensiero era stato come trovare
il modo di diventare interessante per lei. Voleva stupirla, intrigarla, farla
innamorare di lui e inebriarla come lei lo aveva stregato fino a fargli perdere
il sonno.
Non era stato facile addormentarsi dopo
aver annusato il suo odore nel frusciare sensuale di quei fiori che scorrevano
liberi sulla pelle di lei e che lui avrebbe tanto voluto trattenere tra le sue
mani. I capelli e un filo di trucco avevano mostrato lo splendore assoluto degli
astri che rilucevano appena sopra le labbra, tenero adito di denti forti e
taglienti.
Si sarebbe impegnato senza sosta,
avrebbe trovato il modo, la maniera per acquistare quello strumento, suonandolo
avrebbe pensato soltanto a lei e gli sarebbe parso di poterla baciare
attraverso la boccola dell’argentea testata.
Apollo dionisiaco avrebbe voluto
divenire per poterla abbracciare e tenerla stretta a sé per l’eternità.
Aveva sentito Penelope suonare il
pianoforte in biblioteca, era bravissima e René non voleva sfigurare.
Ebbe una vertigine immaginandola vestita
in quel modo con le mani sulla tastiera bianca e nera, il mondo girava
velocemente e lui non aveva intenzione alcuna di scendere.
Decise di costituire un gruppo musicale
anche se non sapeva ancora suonare bene. Avrebbe imparato col tempo.
Intanto, si sarebbe fatto crescere i
capelli.
38.
“Ciao”
“Ciao,
che fai di bello?”
“Sto andando in biblioteca”
“Davvero?”
“Sì, vorrei suonare un po’”
“Ah
beh, certo, l’allenamento è importante”
“Sì, dicono che si dovrebbe suonare
tutti i giorni”
“Ma
non ci si riesce mai, eh?”
“Già, chissà perché”
“Perché
suoni sempre in biblioteca?”
“Oh bella, perché lì hanno un
pianoforte”
“E
tu non ce l’hai un pianoforte?”
“No, ho una tastiera”
“Non
è la stessa cosa, certo”
“L’hai notato anche tu? Voglio dire, una
cosa è fare gli esercizi sulla tastiera, e va benissimo, ma poi il pianoforte è
tutta un’altra sonorità”
“Io
sto cercando di mettere su un gruppetto ma è sempre complicato”
“Suoni?”
“Sto
imparando, cioè voglio imparare il flauto traverso”
“È uno strumento molto bello, difficile
produrre i suoni all’inizio ma una volta che hai capito il meccanismo pare sia
splendido, un po’ come il violino, entra in risonanza con il corpo del
musicista”
“Ti
accompagno se vuoi?”
“Al piano?”
“In
biblioteca, devo fare delle ricerche”
“Volentieri”
39.
“Penelope?”
“Dimmi Renato”
“Pensi
davvero che imparare a suonare il flauto traverso sia tanto difficile?”
“Più che è altro è abbastanza frustrante
all’inizio perché soffi soffi e il suono non esce”
“Ma
non è uno strumento musicale?”
“Che richiede molta dedizione”
“Pensi
che io sia incostante?”
“No però se debbo essere sincera…”
“Dimmi”
“Non credo che potrai imparare decentemente
prima di tre o quattro anni di esercizi costanti”
“Tre
o quattro anni è un tempo lunghissimo”
“Insomma”
“Da
quanti anni suoni il piano?”
“Ho iniziato a cinque anni”
“Ecco
perché sei così brava”
“Veramente non sono brava ma non mi
importa perché suonare mi piace e mi rilassa”
“In
paese dicono tutti quanti che sei bravissima”
“Qualche tempo fa avrei voluto diventare
una pianista, sai?”
“E?”
“E poi ho capito che non sarei mai stata
eccellente e mi sarei dovuta accontentare, con molti sforzi, di essere una buona
pianista senza arrivare mai ad essere sublime e allora non vale la pena
rinunciare alla mia adolescenza per essere abbastanza brava ma non geniale, mi
capisci?”
“Penso
che ti sottovaluti e poi perché dovresti rinunciare alla tua adolescenza
scusa?”
“Perché richiede tanto esercizio, per
suonare bene devi farne tantissimo e per essere meravigliosa devi avere talento
e fondamentalmente suonare tante ore e senza riposare neanche un giorno.”
“E
quindi smetti?”
“No, lo faccio per mio piacere
personale”
“Ma
puoi sempre mettere su una band”
“Rock?”
“Perché
no?”
“Verresti a vedermi suonare?”
“Sarei
sempre in prima fila”
“Dai non fare lo scemo”
“Davvero.
Comunque…”
“Che c’è?”
“Questo
vestito ti sta benissimo”
“Grazie”
40.
“Prendo
i libri che mi servono per la ricerca e vengo a sentirti suonare, va bene?”
Penelope non credeva alle sue orecchie,
forse il vestito che le aveva regalato Nonna Egeria le stava portando fortuna,
non avrebbe saputo dirlo, certamente non si aspettava che René le avrebbe
chiesto una cosa del genere.
Sistemò lo sgabello, controllò i tasti e
fece attenzione a come si sedeva.
Lauretta le aveva consigliato di portare
con sé uno specchietto per ritoccarsi il trucco di quando in quando e diede
ascolto alle sue parole.
Estrasse un piccolo beauty case dalla
borsa, si pettinò i capelli, umettò le labbra carnose con la punta della
lingua, ripassò il rossetto e limò le unghie.
Ripose di fretta lo scrigno di bellezza e
tirò fuori gli spartiti che avrebbe voluto studiare quel giorno.
Cambiò rapidamente idea e ne scelse
accuratamente uno che le riusciva particolarmente bene ma che voleva
perfezionare.
Lo posizionò sul leggio, si scaldò le
mani con esercizi, massaggi e respirazioni, e finalmente appoggiò le dita
sinuose sui tasti bianchi e neri.
Si immerse nella concentrazione più
profonda, cercando di dimenticare che René sarebbe potuto arrivare da un momento
all’altro.
Le note si rincorrevano con grazia e
veemenza, le armonie si mescolavano in un suono sempre più puro e nel giro di
mezz’ora si radunò in biblioteca una piccola folla di curiosi.
Penelope non si avvide di niente, non si
accorse della gente, non voleva neanche sapere se René fosse arrivato o meno.
Per lei in quel momento tutto era soltanto espresso in forma di note, bianco e
nero si alternavano, crome e semicrome le parvero, forse per la prima volta, le
sue più fidate compagne. Suonò con maestria e sentimento, nella sala dove era
posizionato il pianoforte non si sentiva neanche il respiro delle persone che
si erano là radunate, lei proseguì per un’ora buona senza mai staccare lo
sguardo dallo spartito e dalla tastiera.
Alla fine si fermò e guardò in cerca di
René ma non fece in tempo ad intercettarne lo sguardo perché venne inondata da
un applauso scrosciante.
41.
“Che
mi dicevi prima?”
“Prima quando?”
“Quando
mi hai detto che non sei tanto brava a suonare”
“Che non so suonare in modo eccellente”
“Ah
beh allora tutto il paese è scemo”
“Che c’entra il paese?”
“E
anche quel Maestro di musica è scemo”
“Ma che c’entra?”
“C’entra
perché penso che noi non siamo scemi e tu sei una gran fifona”
“Fifona io?”
“Sì
proprio”
“E di cosa avrei paura sentiamo un po’
che qui abbiamo Mister Coraggio”
“Hai
paura di essere brava, più brava degli altri”
“Ah sì eh?”
“Sì
e hai pure paura di iscriverti al Conservatorio”
“E perché, di grazia?”
“Perché
hai paura che poi non saresti più una di noi ma saresti quella che tutti quanti
si fregiano di conoscere perché è una musicista famosa”
“Tu non sai proprio di cosa stai
parlando e sai che penso?”
“No,
dimmi, che pensi?”
“Penso che tu non capisci niente!”
“E
tu non vuoi suonare perché hai paura di quello che dice la gente”
“Non credo proprio sai?”
“E
se studiassimo sempre insieme? Tu al piano e io in biblioteca?”
“Cioè?”
“Se
invece di stare da sola a studiare il piano ci fossi anche io con te; ammesso e
non concesso che te ne importi qualcosa di me”
“Sarebbe bello ma che ti direbbero i
tuoi amici?”
“Che
mi sono preso una bella cotta per una pianista bravissima”
Senza pensarci oltre la baciò sulla
bocca, un bacio semplice, intenso a labbra serrate. Scappò via ridendo,
lasciandola imbambolata, mentre diceva “Ci
vediamo domani alla stessa ora”.
42.
Penelope si sentiva al settimo cielo, le
sembrava di poter camminare sulle nuvole, i fiori sul suo vestito erano ali con
cui librarsi in volo fin oltre il sistema solare.
Non soltanto René l’aveva notata ma
l’aveva sentita suonare, l’aveva spronata a seguire i suoi sogni, le aveva
promesso di studiare con lei e le aveva anche stampato un bel bacio sulla
bocca.
Il suo sorriso le era entrato nel cuore
come un raggio di arcobaleno e lei sentiva ancora ondate di piacere diffondersi
dalla base della schiena fino alle braccia.
Guardò le sue mani e le parvero meravigliose,
era come se non le avesse mai viste prima, senza neanche accorgersene tornò a
casa di corsa.
Sua madre non le disse niente ma la
guardò con un orgoglio malcelato dietro un burbero rimprovero per i capelli
spettinati.
La notizia che in paese c’era una
pianista giovanissima e piuttosto talentuosa era trapelata ben oltre i confini
territoriali del paese ed era giunta alle orecchie allenate di Nonna Egeria
prima ancora di varcare le mura della biblioteca.
Penelope si specchiò e si accorse di
essere donna, giovanissima ma decisamente una donna e tale consapevolezza di sé
le provocò una strana vertigine.
43.
Lauretta era su di giri, aveva saputo da
fonti certissime che un talent scout o qualcosa del genere sarebbe passato
casualmente in biblioteca un pomeriggio ed era riuscita a convincere Nonna
Egeria a far confezionare un abito come si deve alla giovane Penelope.
Non le aveva spiegato il motivo ma le
aveva fatto capire che forse stavolta Bea, la madre della talentuosa pianista,
sarebbe stata troppo impegnata a crogiolarsi nell’orgoglio materno per
sollevare obiezioni sulla questione del corredo.
Avevano trovato una seta splendida,
morbida e luminosa, con una fantasia perfetta per la giovinetta e Lauretta si
era industriata a cercare un cartamodello che potesse fare al caso loro,
avrebbe dovuto mettere in risalto il volto di Penelope, le sue mani agili, i
fianchi e i seni acerbe rotondità che si stagliavano su lunghe gambe allenate.
Erano riuscite nell’intento e quando
Nonna Egeria portò il vestito Mamma Bea non oppose alcuna resistenza anzi era
più che contenta.
“Meno
male che ci hai pensato tu non sapevo più che fare”
“Perché, che
è successo?”
“Ah, io
non lo so, figurati se mi dice qualcosa ma l’altro giorno è tornata correndo,
sembrava che fosse felicissima e il giorno dopo è arrivata con un muso lungo ma
così tanto che rischiava di inciamparci sopra.”
“E come
mai?”
“Mah dice
che non ha niente da mettere… ha l’armadio stracolmo ma dice strane cose sul
vestito che le hai regalato, pensa che le abbia portato fortuna e che adesso
non sa più che indossare e… beh ci siamo passate tutte quante dai”
“Speriamo le
piaccia…”
“Fammi
vedere”
“Eccolo”
“Ma è
splendido e dove l’hai trovata una seta del genere?”
“L’ho
trovata”
“Hai
fatto benissimo”
44.
Non sapeva nemmeno lui chi gli avesse
dato il coraggio di baciarla ma l’aveva fatto ed era stato bellissimo.
Le labbra di Penelope erano molto più
carnose e morbide e turgide di quanto avesse immaginato e lei era semplicemente
fantastica.
René aveva deciso di riporre l’idea di
imparare a suonare il flauto traverso in un lontano cassetto di desideri da
realizzare forse un giorno, avrebbe soltanto fatto la figura dello scemo e
ormai ne era certo: a Penelope lui piaceva.
Si era anche accorta del cambiamento
nella capigliatura e lo aveva fatto parlare.
Se gli avessero chiesto dove avesse
trovato il coraggio di dirle tutte quelle parole, davvero, non avrebbe saputo
cosa rispondere.
Forse aveva esagerato ma qualcuno
avrebbe dovuto spronarla, incoraggiarla, farle capire che è speciale, non
soltanto ai suoi occhi.
Sentiva di aver fatto la cosa giusta.
Sua madre, vedendolo arrivare tanto
emozionato, si era preoccupata lì per lì ma l’aveva lasciato libero di
sprizzare gioia da tutti i pori e si era limitata a chiedergli se avesse voglia
di acquistare qualcosa di nuovo da indossare o magari un profumo.
Un profumo era una di quelle cose cui
non aveva mai pensato, stava forse diventando grande?
45.
L’idea del profumo gli era piaciuta
molto.
Era uscito, aveva fatto il giro di
profumerie, erboristerie e supermercati comparando prezzi e aromi e gli era
venuto soltanto un forte mal di testa.
Non era riuscito a trovare niente di
niente che, a suo avviso, sarebbe potuto piacere a Penelope.
Si concentrò dunque su qualche dettaglio
unico, qualcosa che lei avrebbe certamente notato.
Entrò in tutti i negozi di abbigliamento
del paese e, anche lì, non riuscì a trovare qualcosa che facesse alla bisogna.
Ad un primo momento di frustrazione si
alternò uno scoramento quindi un’arrabbiatura rumorosa e infine la risoluta
determinazione a risolvere altrimenti la questione.
Cosa avrebbe fatto?
Semplice, avrebbe chiesto a Lauretta.
Lei avrebbe saputo sicuramente escogitare
una qualche soluzione anche se avrebbe dovuto trovare il modo di chiederle
consiglio senza dare troppe spiegazioni.
No, anche quella era un’idea balzana.
Avrebbe domandato a sua nonna, la
sartora.
46.
“Nonna?”
“Dimmi René, che c’è?”
“Senti, posso farti una domanda?”
“Certo basta che sia veloce ché devo
consegnare un po’ di vestiti e ho il laboratorio tutto sossopra”
“Se vuoi posso aiutarti nel frattempo”
“Ma che idea carina e che vorresti fare
nel laboratorio?”
“Non lo so, dimmi tu”
“Oh bella, guarda lì, li vedi quei
cartamodelli?”
“I fogli di carta velina?”
“Sì quelli, ecco vedi se riesci a
trovare il verso e mettili tutti a posto in quella cesta per favore”
“Non è difficile trovare il verso, basta
capire qual è il capo e quale il piede”
“Oh, bella, tua madre non è mai riuscita
a trovarlo quel verso”
“Davvero?”
“Ti risulta che sappia tenere in mano un
ago?”
“Veramente… no”
“Ecco appunto”
“Senti, a me sembra che siano a verso
così”
“E infatti lo sono. Come hai fatto?”
“Ho visto qual era il capo e qual era il
piede e li ho messi a posto”
“Hai trovato subito il verso…”
“Sì, che c’è di difficile?”
“Oh bella è tutto lì, vedi, qualunque
sia la fanciulla che ti fa palpitare il cuore, ehm scusa scusa, la questione
che ti preme tanto, ecco, ogni persona e ogni cosa ha il suo verso, come i
cartamodelli e la stoffa. Ecco vedi quella pezza di stoffa? Se dovessi
tagliarla come faresti?”
“Penso che cercherei il punto in cui non
si sfilaccia e si taglia meglio”
“Oh bella, la taglieresti per il suo
verso”
“Penso di sì perché?”
“Perché tu da domani vieni a bottega da
me, sei bravo. Comunque, se sai capire una stoffa guardandola appena, saprai
anche capire quello che ti preme. A proposito, sarà mica la pianista di cui
parla tutto il paese?”
“Nonna!”
“Oh bella e che ho chiesto?”
47.
I talent scout erano arrivati, avevano
cercato, invano ovviamente, di camuffarsi tra i paesani che, sempre più
numerosi, si radunavano ad ascoltare la giovane pianista.
Nonna Egeria le aveva miracolosamente
fatto giungere il vestito nuovo e l’aveva baciata sulla fronte, quasi a volerle
stampigliare una bella stella d’amore.
Penelope si sentiva agitata ma in suo
soccorso arrivò René che la guardò estasiato, le pupille di lei si spostarono
verso il basso a schivare il rossore che le stava invadendo le gote.
“Che bello questo vestito, Nonna
Egeria?”
“Sì, s’è sbizzarrita”
“Me l’ha detto mia nonna”
“La sartora? Avrei dovuto immaginarlo”
“Vuole che vada a bottega da lei sai?”
“A bottega?
“Sì per imparare il mestiere”
“E il flauto traverso?”
“Non fa per me”
“Ma non era un tuo sogno?”
“Posso confidarti un segreto?”
“Penso proprio di sì”
“Mi prometti che non riderai di me?”
“Dimmi”
“Promettimelo”
“Prometto che non riderò di te”
“Volevo studiare flauto traverso per far
colpo su di te: sembra che la musica sia la tua passione e ho pensato che mi
avresti notato ma forse potrei piacerti anche come sartore, che dici?”
48.
“Hai riso! Ecco, vedi, non avrei dovuto
dirtelo, sono stato un cretino e adesso tu penserai che..”
“Io penso che ho fatto di tutto per
farmi notare da te ed ero convinta che tu non ti fossi mai neanche accorto di
me…”
“Ah sì?”
“Che scemi eh?”
“Parecchio… adesso andiamo però… ho la
sensazione che qualcuno sia venuto a vederti oggi, o almeno così si vocifera in
paese”
“Chi sarebbe questo qualcuno?”
“Un paio di talent scout pare”
“Per cosa?”
“Non lo so però in giro si dice questo”
“Per me?”
“Se vuoi posso provare ad intrattenerli
col flauto traverso ma….”
“Ma se non hai neanche il flauto!”
“Già, penso sia il caso che li incanti
tu”
Odiava quel suo modo di fare, quella sua
insostenibile languidezza quasi a dirle che lei ce l’avrebbe fatta, senza ombra
di dubbio.
Ne era innamorata, di questo era più che
certa ma non era convinta di poter davvero ammaliare qualche talent scout.
Penelope era piuttosto dubbiosa sulla
sua effettiva capacità e possibilità di riuscire davvero bene in qualcosa però
non voleva fare la figura della scema, avvicinò la sua mano a quella di René,
respirò forte, alzò il mento e disse: “Andiamo”
49.
Penelope sentiva una tenaglia di
tensione stritolarle lo stomaco, la pancia irrigidita in una smorfia
spasmodica, nella sala della biblioteca si respiravano onde di aspettativa.
Guardò lo spartito per non respirare le
paure e le speranze di tutte quelle persone che le volevano bene, l’avevano
vista camminare sul passeggino e sbucciarsi le ginocchia, che avevano lottato
nella loro vita per ottenere quello che potevano e che adesso vedevano in lei
il realizzarsi di quei sogni che avevano riposto da qualche parte, per la
giusta occasione.
Si concentrò sullo spartito e suonò come
mai aveva fatto prima.
Nella biblioteca tutti quanti
trattennero il fiato e poi esplosero in un applauso di felicità.
René le rivolse uno sguardo colmo di
orgoglio, gli occhi inumiditi dall’emozione.
50.
I talent scout si avvicinarono a
Penelope, le chiesero se le sarebbe piaciuto approfondire lo studio del
pianoforte ed eventualmente, se tutto fosse andato bene, andare all’estero per
tentare la strada di un prestigioso collegio musicale.
Penelope guardò René e tutte le persone
che erano lì.
“Mi piacerebbe studiare il pianoforte
ma”
“Ma?”
“Ma non andare via dal mio paese”
“Eppure ci sono molte
opportunità all’estero che qui non ci sono”
“Non lo so, però so che non voglio
lasciare la mia famiglia e il mio paese”
“È sicura di quello che
dice? Magari, col tempo, potrebbe cambiare idea”
René capì e si intromise nel discorso
senza neanche sapere a che titolo.
“Questa
scuola di cui parlate dov’è?”
“A New York”, rispose uno di loro
“Negli
Stati Uniti?”, chiese René
sentendosi perduto
“Già”, rispose Penelope abbassando lo
sguardo sconfortata
“E
come si chiama?”, si
informò René
“Juilliard, è la più
importante scuola di musica del mondo”,
spiegò l’altro talent scout.
“Grazie,
potreste aspettare qualche giorno?”,
domandò René
“Non abbiamo fretta”
51.
“René non ci
penso proprio”
“E invece dovresti pensarci, sai?”
“Senti, mi
dispiace deluderti ma io non sono fatta per andarmene in giro di qua e di là”
“Non devi andare in giro di qua e di là devi
soltanto andare a scuola e studiare pianoforte”
“In una città
grande e caotica come New York poi”
“Chiunque vorrebbe andarci”
“Io non sono
chiunque”
“È la grande opportunità della tua vita e io
lavorerò tutte le estati per mettere i soldi da parte per venire a trovarti”
“Non lo farai”
“Sì sei tu che non vorrai più vedere un sartore e ti
vergognerai di me”
“Ecco, lo
vedi, saremmo tutti quanti infelici”
“Penelope, senti, questa è una cosa importante,
forse bisognerebbe parlarne con qualcuno che sappia consigliarti bene”
“René io non
so cosa vi aspettiate tutti quanti da me: io sono soltanto una ragazzina e ho
il diritto di vivere la mia adolescenza come chiunque altro”
“Tu non sei né chiunque né chiunque altro, sei
Penelope e hai un grandissimo talento, fattene una ragione!”
“E a te non
importa proprio niente di me?”
“Certo che mi importa e non capisco per quale motivo
ti ostini a non capire che sei una persona particolare”
“E io non
voglio essere particolare io voglio essere Penelope e basta!”
“Penelope è particolare ed è anche piuttosto pavida a
quanto pare”
“E di che cosa
avrei paura sentiamo?”
“Di essere brava per davvero”
52.
La Juillard School era molto di più di
quanto avesse immaginato.
Penelope ebbe un senso di vertigine.
Forse quello che le aveva detto René era
giusto ma lei non si sentiva una vigliacca. Non aveva paura e sapeva di non
voler trascorrere la sua adolescenza in bianco e nero, ossessionata dalla
tastiera di ebano e avorio, in una città sconosciuta, lontana dai suoi amici,
dai suoi parenti, da quel paese che le andava stretto come un vestito troppo
attillato ma che per lei era tutto ciò che conosceva.
Abbandonare quei ciottoli, la piazzetta
e anche la sala angusta e un po’ scalcinata della biblioteca le sembrava
impossibile.
Tra quelle strade e stradette si sentiva
protetta, a suo agio.
Sapeva, in cuor suo, che non avrebbe più
provato quella sensazione di familiarità e, paradossalmente, di libertà se
fosse andata in una metropoli tanto poco a misura d’uomo dall’altra parte
dell’oceano dove si parlava una lingua straniera e non avrebbe saputo dire cosa
era giusto e cosa sbagliato. Non avrebbe potuto chiedere l’opinione di sua
nonna, sarebbe stata una persona tra le tante in una moltitudine gremita di
respiri e aspirazioni.
Nessuno l’avrebbe guardata male se si
fosse comportata in modo assurdo e forse nessuno se ne sarebbe proprio
avveduto.
Le voci che tanto ben conosceva
sarebbero sparite in un fluttuare incerto di ricordi sfocati e tutto questo le
sembrava insensato.
No, René aveva torto.
Forse era pavida, come le aveva detto,
ma le sue paure riguardavano la sua vita.
Che ne sapeva lui del sentimento di
solitudine che ti avvolge la gola quando i tuoi genitori stanno facendo una
miriade di sacrifici per farti studiare e tu non li vuoi deludere e fai di
tutto per far capire loro che non c’è proprio niente per cui affannarsi, tanto
la musica è soltanto una passione passeggera, qualcosa che non è importante ma
hai la consapevolezza di essere bravissima e sai che prima o poi dovrai
partire, andar via, lasciare tutto quello che conosci e magari, ad un certo
punto, deludere le aspettative di chi ha tanto creduto in te?
Niente ne sapeva, ecco!
Le lacrime le sgorgarono senza far
rumore e Penelope singhiozzò tutta la notte con la faccia immersa nel cuscino per
non farsi sentire, per non destare preoccupazione.
53.
Forse aveva esagerato, adesso Penelope
l’avrebbe odiato e avrebbe pensato che era un tonto, uno scemo, uno che non
capisce niente e che si intromette in questioni che non lo riguardano, un
impiccione senza arte né parte.
Arrivò da sua nonna con una faccia
lugubre e la voglia di sbattere la testa contro il muro.
“Che c’è Renatino, sta’ attento che tra
un po’ ci inciampi in quel muso sai?”
“No no niente”
“Oh bella e che la vuoi dare a bere a me
che t’ho visto attaccato al seno di tua madre?”
“Nonna dai ti ho detto che non ho niente
e vuol dire che non ho niente no?”
“È per via della pianista”
“No! Ma che c’entra?”
“Sono venuti quelli a vederla e tu?”
“Dicono che è brava”
“Oh bella questo lo sapevi anche te no?”
“Sì ma pare che sia piuttosto brava,
cioè parecchio”
“E?”
“E vogliono farla studiare a New York,
in America”
“A New York?”
“Già”
“E tu non vuoi”
“No, è lei che non vuole e io l’ho presa
per il verso sbagliato e le ho detto che ha paura di essere brava per davvero e
invece sono stato stupido”
“Ma perché, lei che dice?”
“Dice che fuori dal paese si sentirebbe
perduta, che non vuole rinunciare alla sua adolescenza e tutte queste scemenze
qui”
“Oh bella non mi sembrano proprio
scemenze e tu che hai fatto?”
“Ho detto a quei tizi di aspettare
qualche giorno perché forse lei ci avrebbe ripensato e poi le ho detto che è
una pavida”
“Proprio così le hai detto? Pavida?”
“Sì”
“Oh bella, è una parola un po’
demodé…comunque, hai fatto bene a temporeggiare con quelli lì, adesso ti aiuta
nonna tua, tu intanto impara a mettere i bottoni e stai a bottega ché io devo
fare un po’ di giri, se viene qualcuno dici di aspettarmi che torno subito, va
bene?”
54.
“Nonna sei riuscita a sapere qualcosa?”
“Oh bella, direi proprio di sì, è venuto
qualcuno a bottega?”
“Sì ti hanno lasciato un paio di buste
con delle riparazioni da fare e una con un acconto in denaro per il vestito
della “
“Ah sì bene bene. Ascolta”
“Dimmi”
“A quanto pare la tua pianista è davvero
brava”
“E questo l’avevo capito da me”
“Oh bella ma lo è parecchio”
“E anche questo lo avevo capito da me”
“Vabbè, comunque pare che la scuola di
New York che le hanno proposto sia”
“Una delle migliori al mondo, questo lo
so Nonna”
“Oh bella, dicono che sia sempre al
primo posto”
“Nonna questo lo so già”
“Vabbè, comunque pare che se venisse
ammessa in quella scuola potrebbe studiare dappertutto”
“Anche in paese?”
“Volendo ma non è la stessa cosa”
“E questo lo immaginavo”
“Oh bella vuoi che studi alla banda
comunale?”
“Insomma?”
“Insomma pare che”
“Che?”
“Oh bella mi lasci parlare? E fammi bere
anche un goccetto d’acqua ché ho una sete!”
“Nonna l’acqua nella bottiglia
dell’acquavite è finita”
“Ah sì? Oh bella anche quella nella
bottiglia della grappa?”
“Sì ma se vuoi ho quella normale”
“Oh bella, e sia, dammene un bicchiere,
non mi farà venire la ruggine, spero”
55.
Renato era uscito dalla bottega della
nonna sartora con gli occhi illuminati da una felicità indicibile. Doveva
assolutamente dirlo a Penelope, doveva vederla, incontrarla, farle capire che
c’è sempre una soluzione, anche quando sembra che non ci siano scelte né
alternative.
Corse verso casa sua, suonò il
campanello, gli rispose sua madre e le disse che non era in casa.
Forse era in biblioteca?
René corse cercando di darsi un
contegno.
Attraversò le stradine con uno strano
presentimento, non sentiva la musica diffondersi nel borgo.
Salì gli scalini dell’adito principale a
due a due, poi scese giù quasi scapicollandosi verso la sala col pianoforte.
Penelope non c’era.
René fu preso dallo sconforto.
Tornò verso la sua casa e chiese alla
madre di entrare, lei lo guardò con aria imbarazzata e gli aprì il portone.
Penelope era in casa, gli occhi rossi,
cerchiati di lacrimoni, il pigiama sgualcito, i capelli arruffati.
René si guardò intorno, istupidito.
Accettò volentieri un succo di frutta e
un bicchiere d’acqua.
56.
“Penelope,
senti, forse non è il momento, forse ho sbagliato a venire”
“No, figurati, è che ho passato una
nottataccia”
“Hai
pensato a quello che ti hanno detto?”
“Sì e forse hai ragione tu, un’occasione
del genere capita soltanto una volta nella vita e sarei un’imbecille a
rifiutare”
“Non
sei un’imbecille, sei una persona con la testa sulle spalle”
“Sì, beh, forse”
“Penelope,
ascolta: sei molto brava e puoi raggiungere i tuoi sogni ma New York è tanto
lontana e pare che ci potrebbe essere una alternativa, sai?”
“Che alternativa?”
“Però
dovresti studiare tutti i giorni e non sgarrare”
“Cioè cosa?”
“Potresti
iscriverti al conservatorio e d’estate frequentare la summer school del Berklee
College a Perugia, all’interno di Umbria Jazz, ne hai mai sentito parlare?”
“No, cos’è?”
“Umbria
Jazz?”
“No, questa cosa del Berklee College”
“In
estate fanno una specializzazione, una specie di corsi, non so bene poi
dovresti informarti meglio, di questa università, college che è considerato tra
i migliori del mondo, così potresti studiare senza dovertene andare, che ne
pensi?”
“Penso che sarebbe bellissimo!”
57.
“Dalla faccia soddisfatta direi che ha
accettato il suggerimento”
“Infatti l’ha accettato, grazie Nonna”
“Raccontami tutto per filo e per segno”
“Va bene ma prima voglio prepararle un
portafortuna”
“Un portafortuna?”
“Sì, qualcosa che possa indossare quando
andrà a parlare coi talent scout”
“Oh bella, lo vedi che hai talento?”
“Perché?”
“Oh bella perché hai già capito che
quando un artigiano mette le mani sulla materia che utilizza, sta modellando un
universo di sogni”
“Nonna non pensavo fossi una poetessa”
“Oh bella e che credi che gli artigiani
non sappiano pensare?”
“Che c’entra?”
“Oh bella mi pare logico”
“Che c’è di logico?”
“L’hai capito da te”
“Cosa ho capito da me?”
“Oh bella, come pensi di farle il
portafortuna?”
“Con bottoni e stoffa”
“Prendi i bottoni e la stoffa e glieli
porti così?”
“No, li voglio modellare a forma di
fiore”
“E perché?”
“Perché un fiore è bello come lei e va
coltivato come il suo talento ma è di stoffa quindi rimarrà sempre con lei”
“Oh bella, lo vedi che hai capito?”
58.
Penelope si sentiva leggera e felice,
René aveva trovato una soluzione e lei non avrebbe dovuto andar via dal suo
paese pur continuando a cercare di realizzare le sue aspirazioni.
Il giorno dell’incontro con i talent
scout era arrivato, respirò profondamente, indossò un vestito ornato da un
pizzo chiacchierino, adornò i capelli con il fermaglio regalatole da sua nonna
per il compleanno, raccolse le sue aspirazioni tra gli spartiti affastellati
nella cartellina.
In quel momento avrebbe voluto davvero
che René fosse lì a stringerle la mano ma doveva andare a bottega dalla nonna
sartora quel pomeriggio e certamente non avrebbe pensato a lei.
Il sorriso le attraversò il volto di
ragazzina da un orecchio all’altro quando lo vide arrivare con un fiore di
stoffa e bottoni cucito appositamente per lei.
“È
la mia prima creazione sartoriale, spero che ti porterà fortuna”
“Come sai dove sto andando?”
“Lo
so”
“Mi fa piacere che tu sia qui”
“Non
potevo mancare, non credi?”
“Giusto”
“Ti
senti pronta?”
“Sì”
“Ti
fa piacere se vengo con te?”
“Sì”
“Andiamo”
“Andiamo”
59.
Arrivarono in biblioteca, Penelope si
appuntò il fiore sul vestito, accanto al cuore. Sembrava animato dal vento
mentre il suo giovane petto danzava al ritmo del respiro, a volte lento, altre
agitato.
“Buongiorno, grazie per aver avuto tanta
pazienza”
“Buongiorno, è un
piacere avere a che fare con persone che, seppur giovani, amano ponderare le
proprie scelte, così evitiamo pericolosi quanto onerosi colpi di testa e
ripensamenti successivi”
“Ho pensato a quello che mi avete detto
e l’opportunità che mi offrite è molto più di quanto avessi mai immaginato nei
più spericolati sogni ad occhi aperti”
“La Juillard School è
effettivamente molto prestigiosa”
“Sì, lo è”
“Dunque ha deciso di
accettare?”
“Io vorrei chiedervi di prendere in
considerazione una specie di controproposta”
“Vuole declinare
l’offerta?”
“Non ho detto questo”
“Quindi?”
Il fiore sul petto di Penelope sembrava
sbatacchiato da un tempestoso temporale estivo.
“Vorrei chiedervi la cortesia di
prendere in considerazione un’alternativa che potrebbe permettermi di avere la
serenità necessaria per continuare a studiare senza dovermi allontanare dai
luoghi e dalle persone che per me sono tanto importanti, vitali, direi, per la
mia stessa ispirazione. Le persone che non vorrò deludere e che sanno spronarmi
quando è necessario, e talvolta, credetemi, i tasti sembrano le ali spiegate di
un’upupa che si crogiola sotto i raggi solari ma altre volte buie feritoie”
“La Juillard non si può
trasferire qui e non possiamo trasferire tutto il paese a New York”
“Oh lo so benissimo e non è questo
quello che vi chiedo”
“Sentiamo”
60.
Penelope spiegò per filo e per segno
quello che aveva elaborato e i talent scout rimasero piuttosto impressionati.
Sembravano piccati all’inizio ma poi
sembrarono ammorbidirsi e comprendere che forse la soluzione proposta sarebbe
stata un buon compromesso, qualcosa che avrebbe, come usa dire, salvato capra e
cavoli.
“Lei ha molto talento e
sembra anche avere la testa sulle spalle, probabilmente ciò che pensa di fare
adesso potrebbe essere la soluzione più adatta a lei.”
“Grazie, New York è una città immensa e
io temo di perdermi tra i suoi viali”
“Questo è probabile
anche se le possibilità che avrebbe lì sono decisamente superiori a quelle che
potrebbe ottenere rimanendo qui. La visibilità, le occasioni, le connessioni e
le conoscenze sono fondamentali per costruire una carriera”
“Anche il mio equilibrio lo è”
“È vero, lei è molto
giovane e potrebbe effettivamente trovarsi molto male in una realtà tanto
competitiva quale è quella newyorkese”
“A me non piace competere, mi piace fare
insieme agli altri”
“Sì, beh, ecco, New
York e la Juillard le permetterebbero certamente di avere molte più possibilità
di incontrare quegli ‘altri’ con cui potrebbe costituire gruppi o trovarsi a
suo agio, tra persone che la pensano nello stesso modo.”
“Sentite, io non conosco New York ma…”
“Ecco, infatti lei non
si rende forse conto che è una città vibrante di vitalità, in perenne fermento
culturale, dove una ragazzina potrebbe trovare una sua collocazione permanente”
“Posso farvi una domanda?”
“Certo”
“Se io dovessi trovare una collocazione
permanente negli Stati Uniti non tornerei più qui? La mia famiglia dovrebbe
scegliere se seguirmi o non vedermi per molto tempo, giusto?”
“Sì però potrebbe
arrivare a guadagnare cifre tali per cui spostarsi da un continente all’altro
Le sembrerebbe semplicissimo, ovvio quasi”
“Ecco però i soldi non si mangiano, non
si respirano, non si guardano dalla finestra. Vedete quel paesaggio? Io non mi
sento a casa se non vedo il profilo di quei monti all’orizzonte”
“Bene, la sua è
sicuramente la scelta migliore per lei. La seguiremo e cercheremo di
indirizzarla il più possibile.”
“Grazie”
“Buona fortuna e
complimenti per il fiore, è molto bello, come lei e va coltivato, come il suo
talento”
61.
“È andata”
“Che
ti hanno detto?”
“Che mi avrebbero seguita e indirizzata
per quanto possibile ma che, fondamentalmente, starei sprecando la più grande
opportunità della mia vita”
“Tu
che vuoi fare?”
“René io lontana dal paese mi sento un
pesce fuor d’acqua”
“Tutto
il mondo è paese”
“Mah”
“Che
fai adesso, piangi?”
“È la tensione”
“Ma
allora non sei felice della tua scelta?”
“René non dire cretinate e abbracciami
forte”
“Se
ti abbraccio mi viene voglia di baciarti… sei così bella”
“Anche coi lacrimoni”
“Anche
coi capelli arruffati”
“Sai che mi hanno fatto i complimenti
per il fiore?”
“Davvero?”
“Sì, mi hanno detto che è bello come me
e che va coltivato come il mio talento”
62.
“Renatino che hai fatto oggi? Com’è che
non sei venuto a bottega? Hai accompagnato la pianista?”
“Nonna, non ti si può nascondere niente
eh”
“Oh bella, il fiore qui non c’è sicché…”
“Sai che le hanno detto?”
“Della sua scelta o del fiore?”
“Del fiore”
“Che è bello come lei e che è come il
suo talento?”
“Nonna ma come fai a sapere tutto?”
“Oh bella perché sì. Della sua scelta
che hanno detto?”
“Che sta sprecando un’opportunità
rarissima e che comunque la seguiranno”
“Sai che ti dico Renatino?”
“Che?”
“Questi talent scout sono bravi a capire
i talenti e tu sei proprio bravo”
“Perché?”
“Oh bella, se con la prima creazione che
hai fatto sei già riuscito a comunicare le tue intenzioni vuol dire che sai
fare le cose a verso.”
“E quindi?”
“Oh bella, per il momento vieni a
bottega ad imparare il mestiere, vediamo se davvero hai talento e nel frattempo
cerchiamo di capire se c’è qualche modo di mandarti in una scuola o in una
sartoria d’eccellenza”
“Nonna ma che dici?”
“Oh bella ma che pensi che soltanto gli
artisti hanno arte? E gli artigiani? Sai che sarebbe questo bel Paese senza
artigiani? Un luogo come ce ne sono tanti e invece è meraviglioso e sai
perché?”
“Perché ci sono stati grandi artisti”
“Oh bella e pensi che siano usciti dal
cilindro come i conigli del mago? No, sono quelli che hanno imparato l’arte
meglio degli altri e che avevano un talento speciale, unico. Sono artigiani
eccellenti ecco cosa”
“Non esagerare nonna”
“Oh bella, non esagero? Ma senti,
Michelangelo lavorava con lo scalpello e lo scalpello che cos’è? Uno strumento
di lavoro artigiano. Prima c’erano i mastri, le maestranze e poi c’erano gli
artisti e i geni assoluti ma come hanno detto quelli? Il talento va coltivato e
va pure fatto crescere nell’ambiente giusto ché se metti il seme del fiore più
bello nel freezer quello non germoglia”
63.
René continuò ad andare a bottega e
tutti i giorni aspettava l’ora in cui Penelope sarebbe andata in biblioteca a
suonare con il cuore che gli palpitava in petto come la grancassa della banda
comunale. Più lei si esercitava a suonare, più lui si impegnava ad imparare il
mestiere del sarto.
Punti, sottopunti, asole, aghi, fili e
bottoni erano diventati i suoi amici più fidati.
La nonna lo spronava e gli insegnava
l’arte come l’avevano insegnata a lei, facendo e rifacendo per giornate intere
le stesse cose. Renatino non sembrava annoiarsi, ci si metteva di buzzo buono.
Ogni settimana imparava qualcosa di nuovo e andava avanti, con costanza e
perseveranza. Studiare gli piaceva ma quello che lo interessava davvero era la
storia, non quella delle battaglie ma quella delle persone. Cercava di capire
come si vestivano nelle varie epoche e ricordava tutto partendo da un
particolare, una tunica o un’uniforme.
Quando andava in biblioteca ad ascoltare
Penelope aveva preso l’abitudine di studiare alcuni tomi sulla storia del
costume. Lo interessavano al punto che talvolta si immergeva nella lettura e
quasi dimenticava di ascoltare la sua bella.
Un giorno Penelope smise di suonare
all’improvviso, c’erano soltanto loro due nella sala e lui non alzò lo sguardo
dal libro.
Stava copiando alcuni dettagli di un
vestito su un quaderno.
I pastelli riproponevano i colori e lui
cancellava tutto fino a che non trovava la giusta corrispondenza di tonalità e
sfumature.
Lei si incantò a guardarlo.
64.
“Cosa fai?”
“Scusa, non mi ero accorto che avessi
smesso di suonare io…”
“Sei molto bravo, sai?”
“Ma ti stavo ascoltando sai?”
“Non sono offesa”
“No?”
“No”
“Davvero?”
“Sì davvero, dai dimmi che cosa stai
facendo”
“Sto copiando i dettagli di alcuni
vestiti che mi piacciono e poi a bottega provo a riprodurli”
“Provi a riprodurre i vestiti?”
“No, soltanto i dettagli”
“Perché?”
“Sto imparando punti e sottopunti, le
tecniche di base, insomma”
“Un po’ come il solfeggio?”
“Penso di sì”
“E quindi?”
“Ecco, i punti non sono tutti uguali
sai? Ce ne sono tantissimi e nel tempo sono cambiati, alcune conoscenze sono
andate perdute, altre si sono affinate, anche in base al tipo di aghi e di
strumenti per lavorare gli utensili necessari a cucire. Una cosa è un ago di
osso, un’altra uno di acciaio, una cosa è un ago fatto a mano e un'altra un ago
sottilissimo creato da un apparecchio industriale. La cosa strana è che ci sono
alcuni stili in cui i fili sono talmente sottili che adesso non si trovano più
perché nessuno sa più come fare a produrli e quindi certi punti non si possono
più fare, capisci?”
“Sì è esattamente come per gli strumenti
musicali”
“Cioè?”
“Il pianoforte, ad esempio, è
relativamente recente e i suoni che riesci ad ottenere con un piano di oggi
sono molto diversi da quelli, che so, di una spinetta. Per cui gli spartiti
vengono sempre reinterpretati più che eseguiti alla lettera perché per ottenere
il suono originale ci sarebbe bisogno degli strumenti per cui è stato pensato e
all’orecchio del pubblico di oggi sembrerebbe forse sgradevole, quasi stonato”
“Ecco, sì qualcosa del genere anche se,
ecco vedi? Questo è pizzo di Burano del 1700 e questo è il fazzoletto con la N
di Napoleone, guarda che perfezione, c’è un quadro all’interno, ricamato con
filo sottilissimo, oggi non si potrebbe più fare perché il filo così sottile
non esiste più, non si trova e non ci sono le persone in grado di ‘filarlo’, ma
il pizzo in sé è di una bellezza sconvolgente.”
65.
“René ho un presentimento”
“Buono o cattivo?”
“Non lo so”
“Vuoi parlarmene?”
“Non lo so”
“Uhm sei misteriosa oggi, eh?”
“Prometti che non mi prenderai in giro
per quello che ti dirò?”
“Prometto che non ti prenderò in giro”
“Per quello che ti dirò”
“Per quello che mi dirai”
“No, lo devi dire tutto insieme”
“Prometto che non ti prenderò in giro
per quello che mi dirai. Va bene?”
“Va bene”
“Qual è questo presentimento?”
“Sai quando mi hanno proposto di andare
a New York?”
“Non potrei certo dimenticarmene”
“Ecco, io penso che..”
“Che?”
“Che forse sarai tu a partire”
“Per andare dove scusa?”
“A crearti la tua strada”
“Perché, non mi vuoi più vedere?”
“Non ho detto questo”
“Sei ancora arrabbiata perché hai
pensato che non ti stessi ascoltando”
“Non sono mai stata arrabbiata per
quello anzi”
“Noooo”
“Davvero”
“Uhm”
“Il fatto è che forse la sartora ha
ragione e ha visto lungo a metterti subito a bottega”
“Ma dai; sto soltanto imparando un
mestiere”
66.
Penelope l’aveva presa alla larga, si
era informata con discrezione e aveva cercato di capire se effettivamente René
fosse bravo a cucire come le era sembrato.
In paese si diceva che la sartora
dedicasse parecchio tempo a lui e, conoscendone il carattere schietto e
burbero, non c’era da temere il contrario: non avrebbe mai perso tutte quelle
ore con Renato se non ne fosse valsa la pena.
Oltretutto, non si era mai sentito
neanche un urlo, un grido o una parola storta, cosa alquanto insolita. Tutte le
persone che avevano provato ad andare a bottega da lei erano scappate a gambe
levate, talvolta anche in lacrime, perché era fatta a modo suo e non sopportava
insegnare a chi non aveva voglia di imparare o capacità di farlo.
Con René non gridava nemmeno quelle rarissime
volte in cui arrivava in ritardo.
Probabilmente aveva una speciale
predilezione per lui o forse ne aveva intuito le capacità, compreso le
potenzialità e lo stava covando come una chioccia.
67.
“René ti sfido”
“Mi sfidi a fare che?”
“Voglio commissionarti un abito, ti va
di cucirlo?”
“Non lo so ancora fare ma ti prenderei
molto volentieri le misure”
“Ah beh, se non lo sai ancora fare…”
“Ma le misure posso prendertele, fidati”
“Che peccato”
“Perché?”
“Mi serviva proprio”
“Che devi fare?”
“Forse posso partecipare ad un concerto
e volevo vestirmi in modo speciale”
“Te l’hanno proposto i talent scout?”
“Come fai a saperlo?”
“Pare che siano passati da queste parti
ultimamente”
“Il taglia e cuci l’hai imparato bene
vedo”
“Che c’entra?”
“Allora, me lo fai questo vestito sì o
no?”
“Ti ho detto che non sono ancora capace”
“E impari, io voglio indossare un abito
cucito da te”
“Devo chiederlo a nonna”
“Quando me lo fai sapere?”
“Domani va bene?”
“Va bene”
68.
“Nonna?”
“Che c’è Renato, t’ha mozzicato la tarantola?”
“No, perché?”
“Oh bella, sembri intimorito e che mi
devi chiedere mai?”
“Ma niente, lascia perdere”
“Oh Renatino, non ti sarai mica messo in
qualche casino?”
“Ma che dici nonna, no il fatto è che?”
“Oh bella ma te l’hanno mangiata quella
lingua? Non aver tema”
“Sai Penelope?”
“La pianista?”
“Eh, sì, la pianista”
“Beh?”
“Forse dovrà partecipare ad un concerto”
“Oh bella, e mi chiedevo che cosa
fossero venuti a fare quei due”
“Ecco, vedi, lei mi ha chiesto”
“Di accompagnarla, ma va bene, e che
problema c’è?”
“No, mi ha chiesto”
“Oh bella ma vuoi parlare o ti devo
tirar fuori le parole con la tenaglia?”
“Di confezionarle un abito”
“Oh bella hai già le prime clienti. E
sia, facciamo così, le prepareremo insieme una tunichina semplicissima e tu la
decorerai, va bene?”
“Grazie nonna”
69.
La sartora aveva chiesto a Lauretta di
andare a prendere le misure della pianista per non destare troppi sospetti con
la madre di Penelope e per evitare inutili pettegolezzi. S’era espressa
chiaramente, i due ragazzini si volevano bene, lei dal canto suo non era poi
così contraria ma neanche troppo d’accordo.
“Sono così giovani Lauretta mia”
“Ma sono due giovani a modino”
“Oh bella, la testa sulle spalle ce
l’hanno, per questo non c’è che dire”
“E non mi hai detto che René viene a
bottega da te?”
“Oh bella, tutti i giorni e non si
lamenta mai né mi fa lamentare sai?”
“Che non faccia lamentare te mi sembra
già qualcosa di straordinario”
“E che ci sarebbe di tanto
straordinario?”
“Tutte e tutti quelli che sono venuti a
bottega da te sono scappati dopo pochi giorni, talvolta piangenti”
“Oh bella e se non hanno voglia di
lavorare o non hanno punto fantasia di imparare non è certo colpa mia”
“Vabbè, quindi mi pare che René invece…”
“È bravo sai? E ha pure tanta voglia di
apprendere il mestiere. Guarda che ha fatto, ti faccio vedere il suo quaderno,
ogni tanto lo lascia qui. Io faccio finta di non sapere che ce l’ha guarda che
disegni fa”
“Belli ma cosa sono?”
“Oh bella, dettagli”
“Dettagli di che?”
“Di costumi, di vestiti d’epoca. Quando
va in biblioteca a sentire la pianista”
“Penelope”
“Eh sì, lei, oh bella, quando va là
scartabella i libri di storia e di storia del costume e ricopia i dettagli, poi
viene a bottega e rifà per ore le cuciture fino a che non gli vengono uguali. È
proprio bravo.”
“Se continua costì ci diventerà un
grande sarto”
70.
“Penelope tesoro, vieni di là con me”
“Va bene Lauretta ma che mi devi dire?”
“È un segreto”
“Ah qui non ci sono segreti, mi dovete
dire cosa state confabulando”
“Mamma io non ne so niente”
“Bea non ti intromettere e non essere
noiosa
“Lauretta ti ricordo che”
“Sì sì poi mi ricorderai, intanto io e
Penelope andiamo di là”
“Lauretta!”
“Ti vogliamo bene Bea”
“Ti vogliamo bene Mamma”
“Ma guarda un po’!”
71.
“Lauretta allora che c’è?”
“Ti dice niente un certo René?”
“René? Perché gli è successo qualcosa?”
“Non gli è successo niente di brutto,
che io sappia, ma non arrossire in quel modo benedetta figliola”
“Non sono arrossita”
“Sembri un’aragosta”
“Uffa”
“Spogliati dai”
“Perché mi dovrei spogliare?”
“Semplice: ti devo prendere le misure”
“Le misure?”
“Sì, pare che il tuo bel René voglia
cucirti addosso un bell’abito ma sua nonna ha pensato che sarebbe stato più
opportuno, o no?”
“O no cosa?”
“No, dico, o forse già le ha prese lui
le misure?”
“Lauretta, René non ha preso nessuna
misura e smettila di fare quella faccia!”
“Quale faccia?”
“Quella che stai facendo, come ad insinuare
chissà cosa”
“Non stavo insinuando niente, figurati,
non vi siete mai dati un bacio?”
“Lauretta!”
“E che ho chiesto mai, figurati! Alza il
braccio un pochino che devo farti passare il centimetro intorno ai fianchi”
“Così?”
“Sì ma adesso riabbassa le braccia.
Ecco, fatto”
72.
“Che voleva Lauretta?”
“Mamma non cominciare anche tu”
“Perché, che ti ho chiesto di tanto
strano?”
“Mamma per favore”
“Ma senti un po’… almeno dimmi perché si
è scomodata a venire fin qui con il centimetro e tutta l’attrezzatura da sarta”
“È venuta a prendermi le misure”
“Le misure?”
“Sì, per un vestito”
“Ma non te l’aveva regalato tua nonna un
vestito?”
“Mamma per cortesia”
“Ma aspetta un po’, non è che per caso
quel ragazzetto che viene sempre a vederti e a cercarti”
“Adesso che hai da dire contro René?”
“Non è il nipote della sartora per
caso?”
“È il nipote della sartora e allora?”
“Niente niente figurati”
“Mamma non fare quella faccia”
“Quale faccia?”
“Di chi la sa lunga”
“Lunga?”
“Tanto non hai capito niente”
“E che cosa avrei dovuto capire?”
“Mamma la smetti?”
“Va bene va bene, comunque è proprio
carino quel ragazzo”