martedì 31 luglio 2018

Giulietta e Topiglio, Ringhello e Chiavella


Topiglio, Ringhello e Chiavella

Topiglio, Ringhello e Chiavella se ne stavano bellamente appoggiate sul loro anello pieno di palline colorate quando Giulietta arrivò di soppiatto a ciancicarli coi suoi nuovi dentini.
“Ma che fai?” chiese Ringhello vedendo che Topiglio stava per esser divorato dalle sue fauci
“Mordicchio”
“Tranquillo Ringhello, non mi sta facendo del male”
“Sei sicuro Topiglio?”
“Sì mi fa il solletico, dovreste provare anche voi”
“Giulietta puoi ciancicare anche noi?”, chiese Chiavella
“Va bene”
“È divertente”, risposero in coro

lunedì 30 luglio 2018

Il trenino Celestino


Il trenino Celestino

Ciuf ciuf ciufola il trenino Celestino
Che trasporta il secchiello e la paletta di un bambino
Ha la scocca rossa e gialla e le ruote grandi grandi
Un setaccio blu e tante formine colorate
Per creare mondi incantati e fiabe fatate

Ciuf ciuf ciufola il trenino Celestino
Che trasporta il rastrello da spiaggia di un bambino
Con la gialla tartaruga e la stellina azzurro blé 
Un delfino tutto verde per esplorare il mare e
Per creare mondi iridati e fiabe colorate

Ciuf ciuf ciufola il trenino Celestino
Che trasporta i sogni di un bambino


Giulietta incontra Eleopatra Farfalla


Giulietta incontra Eleopatra Farfalla

Giulietta sta per andar via dalla Villa Borghese di Nettuno e mentre sta rimettendo in ordine giochi e carabattole, incontra Eleopatra Farfalla.

“Ciao che fai di bello?”
“Ciao io sto tornando a casa, tu?”
“Io svolazzo felice”
“Che bello, hai delle ali molto colorate”
“Sì sono una farfalla ma prima ero un bruco”
“Un bruco?”
“Sì e poi sono diventata crisalide e adesso eccomi qui, guarda come sono bella”
“Sei bellissima ma adesso devo andare, ciao”
“Ciao”

domenica 29 luglio 2018

Giulietta incontra Larus Gabbiano e Apus Rondone


Giulietta incontra Larus Gabbiano e Apus Rondone

Giulietta sta cercando di estrarre alcuni pinoli da una pigna nella Villa Borghese di Nettuno e mentre è intenta in tale attività incontro Larus Gabbiano e Apus Rondone, il primo è bianco con la punta delle ali nere, l’altro ha le ali che sembrano una mezzaluna.

“Ciao, che stai facendo di bello?”, la saluta Larus Gabbiano planandole accanto
“Sto cercando di estrarre i pinoli dalla pigna”, risponde Giulietta
“E cosa ci fai con i pinoli?”, si informa Apus Rondone
“Li mangio”, spiega Giulietta
“E non sai farci altro?”, chiede Laurs Gabbiano
“Cosa dovrei farci?”, domanda incuriosita Giulietta
“Una bella torta!”, afferma Apus Rondone
“Va bene, chiederò a mia nonna”, conclude Giulietta

sabato 28 luglio 2018

Il Chiachierino (bozza filato aggiornato da 1 a 72 completo)


Il Chiacchierino

1.
Muriel aveva appena finito di dipingere l’insegna con il nome della bottega ed era piuttosto soddisfatta. La grafia era perfetta, i colori anche. L’effetto esattamente quello che voleva ottenere. “Il Chiacchierino” non era un negozio in cui entrare per acquistare un prodotto industriale bensì un luogo di incontro dove parlare, raccontarsi, bere una tazza di tisana e magari un goccetto di rosolio.
La primavera era ormai alle porte, mimosa e mandorlo avevano fiorito contemporaneamente nonostante il vento freddo che proveniva dagli Appennini e su peschi, albicocchi e ciliegi già spuntavano le gemme. I giorni della merla erano appena trascorsi e quelli della Candelora parevano assolati, senza pioggia o vento.

“Quando vien la Candelora, dall’inverno semo fora; ma se piove o tira vento, de l’inverno semo dentro”.

“Già”, rispose annuendo a sé stessa.

A volte le sembrava di sentire la voce di Nonna Filomena, le rispondeva sempre, quando era da sola lasciava che il suono riempisse le parole.

“Il sole è piuttosto caldo oggi nonostante l’aria di neve che arriva dagli Appennini”

“Già Già”, mormorò dando un altro sguardo soddisfatto all’insegna

“D’altronde Monte Gennaro non ha messo cappello quindi non c’è certo da prendere l’ombrello”

Nonna Filomena era nata, cresciuta e pasciuta a Stazzano, non s’era mai spostata dal paese e da lì si vedeva il Soratte, non Monte Gennaro.

Muriel distolse lo sguardo dall’oggetto della sua contemplazione, sbatté le palpebre e roteò lievemente gli occhi verso il punto da cui proveniva la voce di Nonna Filomena, allontanandosi dai suoi pensieri.


2.

“Il Chiacchierino è proprio un bel nome, fa pensare al tempo che si trascorre ciarlando mentre si intrecciano i fili del pizzo vittoriano, che fa tanto suffragette in sordina. E poi è così moderno, arts and crafts, il nuovo che trae ispirazione dalla tradizione, una continuità, una progressione che si sviluppa mettendo un punto e poi un altro.”

Una marea di parole veloci, nette, pronunciate con accuratezza si era materializzata nella calda giornata invernale sotto un cappello che definire bizzarro sarebbe ingiusto e poco rispettoso della quantità di ore di lavorazione che erano state evidentemente necessarie per confezionarlo. Non era particolarmente grande, più che altro era una giustapposizione di elementi artistici, una specie di compendio di artigianato di squisita fattura. Le scarpe intonate al copricapo erano posizionate accanto ad una valigia, anch’essa personalizzata nei minimi dettagli, e ad un cappotto di raro broccato in velluto di seta finissima. Eccentricamente colorato senza neanche una nota, per quanto sgargiante e chiassosa, stonata. Lunghi capelli raccolti in una coda lenta da un nastro annodato in un fiocco complesso di macramè, calze sconclusionate, blu con paperelle gialle, un’allegria inopportuna di primo mattino che trapelava da ogni poro.

Non era Nonna Filomena.

“Forse si starà chiedendo il mio nome”

“Già” rispose cupa Muriel che non aveva ancora fatto colazione e non era pertanto incline ad alcuna forma di conversazione che oltrepassasse il limite della semplicità più lineare, un concetto che sembrava particolarmente alieno alla voce gaudente, ma aveva apprezzato molto il lei anziché il tu che sembra essere ormai una consuetudine anche tra estranei. Nonna Filomena si sarebbe offesa se un ‘pischello’ le avesse rivolto la parola senza conoscerla utilizzando il tu, non si sarebbe sentita obsoleta come avrebbero voluto farle credere con quel tu tanto amicale quanto snervante. Piuttosto, avrebbe risposto con una delle sue solite frasi che variavano da ‘di chi sei figlio?’, per comprendere in quale ramo della complessa ed articolata serie di soprannomi, famiglie e amicizie transgenerazionali era ascrivibile l’interlocutore, a ‘sei forestiero?’ quando era evidente che le regole della buona creanza erano state violate in modo tale da consentire di pensare bene soltanto nel caso di una presunta estraneità all’universo finora conosciuto. Presumibilmente con una provenienza morale, oltre che familiare, da collocare ben oltre il confine delimitato dall’hic sunt leones delle antiche carte geografiche. Un posto in cui il tu poteva essere considerato una forma di educazione e il lei di maleducazione. Siccome a pensare male si fa peccato e Nonna Filomena aveva forse qualche vizio ma peccati non ne commetteva se non per sbadataggine e tipicamente non era una persona sbadata, lei lasciava sempre un piccolo adito, uno spiraglio di possibilità mentale verso chicchessia salvo poi dimostrazione comprovata del contrario. Il fatto che la prova scientifica delle presunte illazioni fossero le chiacchiere del paese è un dettaglio del tutto irrilevante.
Più che interrogarsi sul nome della voce che si era interposta tra lei e la contemplazione dell’insegna, Muriel si stava domandando perché indossasse calzini blu con paperelle gialle ma questo non lo disse.

“Mi chiamo Renato ma ormai sono abituato al nomignolo René”, così facendo stese una mano guantata in pelle e pizzo chiacchierino con bottoni di opale.

“Piacere, io sono Muriel”

Ci fu un attimo di silenzio attraversato da un refolo di vento gelido. Una merla grigia si posò sul ramo ancora spoglio della magnolia, lei si era sempre chiesta se la storia della merla e del camino fosse vera.


3.

“La leggenda narra di una merla che veniva maltrattata da Gennaio tutte le volte che usciva a procurarsi il cibo. La merla decise dunque di fare provviste, rintanarsi in casa e non uscire per ventotto giorni, che era pressappoco quanto durava il primo mese dell’anno prima della riforma del Calendario Gregoriano. Finito il mese lei uscì e fece l’errore, come i Sanniti coi Romani alle Forche Caudine, di motteggiarlo. Gennaio si vendicò scatenando la sua ira: rubò tre giorni a Febbraio e sputò freddo e gelo tutto intorno così la merla dovette rintanarsi in un camino e il suo piumaggio bianchissimo divenne tutto grigio scuro che, a ben guardare, potrebbe anche essere più elegante del nero lucido col becco giallo. Non so se questa leggenda abbia un fondo di verità ma a me piace molto”.

Parlava velocemente scandendo tutte le parole come facevano quelli della radio prima che il tu divenisse un modo normale di dare del lei agli sconosciuti.
Sentire una buona dizione era gradevole, le pareva una forma di educazione nei confronti dell’italiano: le lingue impiegano tanti anni, secoli e talvolta millenni per esprimersi e non c’è motivo di bistrattarle.
A Muriel piaceva indovinare come erano arredate le abitazioni delle persone con cui parlava, non soltanto quando per lavoro doveva renderle più adatte alle loro effettive caratteristiche o alle richieste della clientela.
Così tanto spesso la gente vive nelle case senza neanche accorgersene, distrattamente personalizza qualche angolo o qualche dettaglio ma niente di più. Ci sono mobili che si adattano alle persone e persone che si adattano ai mobili. Spazi in cui c’è un dialogo costante e altri in cui la permanenza fisica è un dettaglio in uno schizzo di qualche architetto con idee considerate modaiole, una di quelle sagome che ben si intonano con il programma di disegno tecnico e progettazione, con le immagini viste in un altrove asettico e immaginario.
Muriel detestava entrare in quelle case.
Doveva respirare profondamente, praticare le esercitazioni mentali imparate al corso di yoga, sfoderare un sorriso patinato e cercare di fare esattamente il contrario di quello che avrebbe voluto. Ascoltava i clienti e capiva che a loro sarebbe piaciuto l’opposto di quello che ne esprimeva l’essenza, un po’ come guardare il negativo di una fotografia, quando ancora si stampavano nelle camere oscure e bisognava fare attenzione alla luce, il rovescio di una cucitura grossolana senza neanche la copertura di una fodera a celarne l’impudica rozzezza. In qualche modo erano persone che odiavano sé stesse, profondamente insicure, sempre alla ricerca di conferme nel loro essere al centro dell’attenzione mondana.
Provò ad immaginare la casa di René, non la visualizzò, ne percepì l’odore, qualcosa che profumava di fiori freschi in un bel vaso di ceramica decorato a mano. La sensazione le piacque molto.
 
4.

Muriel lo guardò. René non parlò.
La mattina scorreva placidamente.
Non c’erano nubi all’orizzonte.
René aspettò che Muriel avesse finito di controllare la qualità delle finiture che sembravano, ed erano, di ottima fattura.

“Il pizzo fiammingo è poco conosciuto da queste parti”
“Molti lo confondono col chiacchierino in effetti. Sono contento che lei, Muriel, l’abbia notato”
“Già. Beh, qui ho finito per il momento, se vuole possiamo fare uno spuntino: io non ho ancora fatto colazione”.
“Mi sembra un’ottima idea, c’è un bar da queste parti?”
“Sì, certo”

A pochi passi c’era una rosticceria pasticceria bar, uno di quei locali in cui si fa di tutto un po’, senza infamia e senza lode. L’arredamento era abbastanza anonimo da dare la sensazione di déjà-vu ma non tanto da sembrare il bar di una stazione affollata. I prodotti erano fintamente artigianali, preparati con i semilavorati industriali, senza una vera e propria ricerca di ingredienti o un’attenzione particolare a qualcosa che non fosse una mediocrità leggermente superiore ai preconfezionati. Niente faceva presagire qualcosa di interessante.
René si adeguò all’ambiente e sprigionò un’allure da personaggio famoso, enigmatico. Chiunque avrebbe potuto credere che la sua eccentricità fosse modaiola e frutto di un accurato studio d’immagine e molti avrebbero potuto pensare che fosse un personaggio famoso di cui non ricordavano il nome ma che certamente avrebbe costituito materiale di conversazione pettegola per almeno una settimana, se non di più. Muriel sorrise di sbieco, involontariamente.



5.

Ordinarono caffellatte e paste.

“Non facevo una colazione dolce da parecchio tempo, è sempre gradevole rimpatriare”, esordì René lasciando trapelare che non aveva intenzione di proseguire la conversazione prima di aver finito di gustare il caffellatte. Il sapore cgli evocava la nostalgia del presente tipica di quando si torna da un lungo viaggio.
Muriel era piuttosto contenta di averlo incontrato e di non dover parlare prima di aver ingurgitato una quantità di nutrienti necessaria a poter completare una frase senza perdersi in pensieri densi.
La bottega artigiana era quasi pronta ma c’erano molte cose da fare. Il lavoro per spostare le attrezzature era stato lungo e faticoso. Mentalmente più che fisicamente, e poi tutta quella polvere.
Non aveva neanche pensato di proporre a René di lasciare la valigia da qualche parte. Forse aveva fatto bene, avrebbe potuto metterlo a disagio.
C’erano varie etichette di compagnie aeree, testimonianze grafiche di viaggi ed esplorazioni, senza accorgersene posò lo sguardo su un adesivo verde, bianco e rosso con la scritta TAP Portugal, ricordò vagamente di aver letto da qualche parte che i portoghesi hanno una parola intraducibile nelle altre lingue. Qualcosa di simile alla nostalgia futura del passato nel presente.

“In portoghese si chiama saudade”

La voce cambiò leggermente quando René pronunciò proprio quel vocabolo e Muriel ebbe la sensazione di aver parlato senza accorgersene ma non ebbe il tempo di sincerarsene perché in quel momento entrarono Carmencita e Lauretta.


6.

Immaginare due persone più diverse tra loro sarebbe stato difficile.
Carmencita entrò con passo deciso, un paio di Ray-ban da elicotterista a coprire un trucco studiato nei minimi particolari, capelli lunghi, scuri, mossi da nette linee ondose. Un tailleur semplice, essenziale da cui emergeva una camicia molto fru-fru con volant vaporosi e frivoli che ben si adattavano alle scarpe, spumeggianti, e in assoluto contrasto con la borsa resistente, funzionale, capiente e non ingombrante.
Lauretta era tutta un frusciare di morbidezze in cui sarebbe stato gradevole adagiarsi per un fragrante abbraccio biscottoso. I lineamenti dolci e tondeggianti, gli occhi e la bocca sorridenti e una sbadataggine troppo sbandierata per non celare un’attenzione maniacale al più piccolo dettaglio nascosto.

“Ciao Muriel, buongiorno, hai già preso il tuo caffellatte vedo, benissimo così possiamo parlare senza preamboli. Gradisci un caffè con panna? Io ne ho già presi tre ma penso che… ma sì per i decaffeinati c’è tempo”

“Ciao Carmencita, un caffè con panna lo prendo volentieri. Lei Renato vuole assaggiarlo?”

“Renato? Che bel nome, oh Carmencita sei così impetuosa! Buongiorno Muriel” disse placidamente Lauretta assestando un paio di sonori baci sulle guance di Muriel e tendendo una mano allo sconosciuto. “Io mi chiamo Lauretta, lei è Carmencita ma aspetta aspetta ora sì che ho capito dove l’avevo già visto. Ma è mica il Renatino il nipote della sartora che partì, o beh, saranno passati quanti anni? Almeno almeno una decina se non di più… per andare, dove, dove? proprio non ricordo ma mi pare dalle parti della Francia. Eh sì, insomma al Nord, oh bella, al freddo, in uno di questi Paesi dove piove pure in estate”

Il volto di Renato si illuminò radioso, si era sentito subito accolto. In effetti era un sentimento che provava un po’ chiunque si accostasse a lei, anche soltanto per qualche istante. Suscitava immediata familiarità.

“Il nipote della sartora, eh già. Sono stato…”
“Le storie le raccontiamo dopo che ora abbiamo da fare, comunque io sono Carmencita, quanti caffè con panna?”

L’alzata di mani espresse un generale desiderio di tale nera e aromatica bevanda e Carmencita ordinò quattro caffè con panna e il bordo della tazzina orlato di cioccolato fondente.


7.

“Hanno appena ultimato le rifiniture di tinta, si sentirà un odore di vernice che neanche all’apertura di una mostra d’arte ma tant’è, porte e vetrine sono a posto, i manichini no, arriveranno in giornata, si spera, per cui per il momento mettiamo il mannequin di Nonna Filomena in bella mostra con il chiacchierino di Zia Bice, i tecnici sono appena andati via, l’insegna è pronta?”
“Uhm direi proprio di sì”, Muriel rispose riemergendo dalla distrazione acquosa in cui si era immersa mentre Carmencita elencava per l’ennesima volta tutto ciò che c’era da fare, che era stato fatto e che sarebbe stato necessario migliorare.
René si era accorto che lo stava osservando di sottecchi e lasciò che il suo sguardo si soffermasse sulle tante perfezioni di cui si componeva la finta casualità degli abbinamenti della sua mise. Gli piaceva cogliere nello sguardo delle persone ammirazione per la ricercatezza degli elementi più disparati, dai bottoni ai calzini. Aveva imparato ad orientare l’attenzione con piccoli gesti, così da suscitare vera e propria ammirazione per i suoi gioielli: i cappelli che confezionava con rara maestria.
Le parole di Carmencita si confondevano con la musica di sottofondo mentre Lauretta e Muriel erano sintonizzate su un altro canale. Era una specie di tecnica di sopravvivenza necessaria per amare la militaresca sarta: bisognava soltanto stare attenti alle variazioni di tonalità che presumevano una risposta, un po’ come quando a scuola c’è una lezione che non si ha voglia di ascoltare perché i pensieri fluiscono insieme alle emozioni.
“… comunque mi pare che per quanto concerne i faldoni non dovrebbero esserci problemi, eventualmente potremmo foderarli in seguito…”
Muriel aveva cercato di immaginare la casa di Carmencita la prima volta che l’aveva incontrata ma non era riuscita a soffermarsi su niente, aveva lasciato che il fiume in piena seguisse il suo percorso, tanto prima o poi l’avrebbe vista. Il giorno in cui la invitò a prendere un tè si trovò nella spiacevole situazione di non sapere cosa portare per cui dovette ripiegare su un vassoio di pasticcini. Buoni quanto si vuole, particolari e gustosi ma non le era mai capitato di non riuscire ad indovinare lo stile o per lo meno un oggetto che avrebbe potuto inserirsi con criterio all’interno di un’abitazione sconosciuta.
“…le ciambelle a cancello e le pizzette. Hai avuto conferma dall’ufficio stampa ufficioso Lauretta?”
“Sì sì. Figurati se si lasciano scappare la possibilità di criticare e spettegolare. Fiuuu no no non c’è davvero di che preoccuparsi, tra l’altro mi hanno confermato che sarebbero venute più che puntuali. Ho saputo per vie traverse che almeno la metà del paese è andata a farsi i capelli tra ieri e oggi, e visto che non ci sono cerimonie in giro… ovvio a meno che non me ne sia persa qualcuna….” Lauretta lasciò cadere l’ultima frase nel vuoto, come a sottolineare che non c’era cerimonia in paese di cui lei non fosse a conoscenza. Le sue fonti erano molteplici e tutte molto affidabili in materia di gossip paesano.
A René sfuggì un sorriso: rammentava benissimo la sua capacità di ricordare nomi e parentele fino alla ventesima generazione.


8.

“… e la vernice glitterata sui fiori di carciofo secchi si è asciugata”
Carmencita si era fermata, stava sorbendo il suo caffè e ciò voleva dire semplicemente che c’era spazio uditivo per parlare. Non si era posta il problema di discutere nei minimi dettagli le questioni relative all’apertura della bottega di fronte ad un estraneo per il semplice motivo che Lauretta non aveva espresso alcuna perplessità, soprattutto dopo averlo riconosciuto e avergli dato una collocazione tra le sue innumerevoli conoscenze. Era evidente che lui non avrebbe costituito un problema per loro, anche se non sapeva esattamente perché. Certamente era una persona che non avrebbe spifferato in giro i fatti degli altri, indubbiamente era particolare e il cappello che indossava piuttosto bello.

“Impara l’arte e mettila da parte” disse distrattamente René.

Lauretta ebbe la strana sensazione di aver sentito la voce di Zia Bice che le ripeteva questa frase in continuazione. In effetti il mestiere gliel’aveva insegnato proprio lei, per un po’ l’aveva lasciato da parte e poi le era tornato utile fino a diventare il suo lavoro e una discreta fonte di guadagno.
Rifiniva i vestiti che Carmencita cuciva ed era bravissima con i sottopunti. A volte ricamava ma non era quella la sua specialità: per fare le cose come piacevano a lei ci voleva troppo tempo, giorni, talvolta mesi interi per un lembo di merletto.
Zia Bice le aveva insegnato le basi, col vecchio metodo, facendole trascorrere ore e ore a provare e riprovare. Lei si annoiava terribilmente ma l’alternativa ad ago e filo era andare a scuola dalle suore per fare il tempo pieno, cosa che le sembrava molto più temibile. Aveva sentito certi racconti su zuppe di fave secche e pane integrale che le facevano accapponare la pelle. La prospettiva di saltare la merenda a base di tazzona di latte munto la mattina o tuttalpiù il giorno prima accompagnato da pane caldo spalmato con un generoso strato di burro e marmellata fatti in casa non le garbava affatto e così sopportava stoicamente il supplizio. L’unica cosa, oltre la merenda, che le rendeva il compito meno gravoso era il chiacchiericcio continuo di parenti e amiche. Dire che la Zia Bice fosse pettegola sarebbe però ingiusto nei confronti della memoria di Zio Vito, buonanima, che avrebbe ben potuto guadagnarsi il soprannome affibbiato ad un noto architetto rinascimentale, Simone del Pollaiolo detto, appunto, ‘Il Cronaca’.


9.

Il placet di Lauretta era una infallibile luce verde comprovata da generazioni di accurata conoscenza di tutti i fatti, le persone e le famiglie del paese.

“Allora, che mi racconti di bello?” disse improvvisamente rivolgendosi a René.
“Ho viaggiato un po’ e ora sono tornato”
Sembrava una risposta sensata ma sapeva che non sarebbe stata sufficiente per cui principiò a raccontare la sua storia ma venne interrotto bruscamente dall’arrivo di Guccio, meglio noto col soprannome di Paolino, il quale, appena lo vide, pensò che forse sua sorella Brigida non aveva poi tutti i torti, sposarsi in abito bianco, in una chiesetta di campagna, sarebbe stato bello. Immaginò contestualmente il bouquet e i fiori, per le bomboniere c’era tempo, meglio non affrettare troppo le cose, litigare su questioni tanto elementari avrebbe potuto rovinare il loro idilliaco rapporto e la luna di miele. Oh santa pace, la luna di miele. Beh, anche di quello avrebbero discusso in seguito, avrebbe potuto cedere, mostrandosi tollerante con broncio così da avere campo libero sulla torta nuziale e sui paggetti che avrebbero portato le fedi.

“Buongiorno carissime! Sono così felice che siate qui e posso offrirvi un dolcetto benaugurante”

Ecco, Guccio, detto Paolino, aveva la capacità di fare sempre qualcosa di carino per gli altri, più che premuroso era attento, dedicato e non si poteva non pensare che fosse una persona gentile. C’era chi affermava che fosse meglio non farlo arrabbiare ma non veniva proprio voglia di litigare con una persona sempre sorridente, o quasi.
Muriel amava parlare con lui per ore intere, a volte cenavano insieme e si trovavano immancabilmente a chiacchierare fino a notte fonda senza mai annoiarsi o distrarsi dietro a qualche pensiero aquilone. Non avrebbero saputo dire chi avesse utilizzato l’espressione la prima volta ma poi era rimasta tra loro ad indicare quei pensieri che distolgono dalla realtà, dai momenti vissuti, dal presente catapultando la mente in qualche recondita area della psiche o del pensiero.  
Paolino stava bene con lei, si sentiva capito, non giudicato: era l’amica che avrebbe sempre voluto avere e non c’era altro modo per definire il loro rapporto.

Lauretta subodorò guai e sciagure future appena Paolino varcò la porta, non perché portasse sfortuna, anzi era una persona che sapeva infondere il buon umore e quindi era piacevole incontrarlo. Aveva capito dal suo sguardo che pensava di aver incontrato l’uomo della sua vita ma lei sapeva benissimo e da fonti certe e certificate nel suo capillare sistema informativo che Renato, detto René, era innamorato da sempre di Penelope, una donna quasi della sua stessa età con cui aveva litigato molti anni prima, per un motivo che neanche lei era riuscita a scoprire, e che forse non lo aveva mai dimenticato visto e considerato che non si era mai ‘accompagnata’, insomma non aveva mai messo su famiglia.

Paolino sciorinò una serie di messaggi corporei che confermarono i timori della sarta dal volto tondeggiante e il corpo accogliente.

Carmencita non si avvide di nulla, era immersa nelle questioni organizzative e fu molto felice della presenza di Guccio, che la metteva di buon umore anche nelle giornate più cupe.

“Cuor contento il Ciel l’aiuta! Piacere io sono Renato, anche se mi chiamano sovente René”

Quando gli strinse la mano, curatissima, tra le sue, Paolino ebbe la certezza assoluta che René fosse incontestabilmente e inconfutabilmente l’uomo della sua vita.
L’intero corpo gli sorrise.
Il suo cuore a quel punto era gaudente e il Cielo evidentemente gli stava fornendo la motivazione per essere tanto felice di vivere e di esistere.


10.

Lauretta ebbe la sensazione nettissima che Guccio, detto Paolino, stesse per, se già non era accaduto, innamorarsi perdutamente di René e se ne rammaricò non poco. Conosceva bene entrambi: li aveva visti crescere. Due bravi ragazzi, ammodo, un po’ anticonformisti ma non lasciavano adito a maldicenze.

“L’apparenza inganna”. René pronunciò queste parole con garbo, quasi le avesse letto nel pensiero.

Lauretta si rasserenò.

“Viaggia spesso?”, chiese Guccio, detto Paolino interpretando la curiosità generale.

“Più che viaggiare mi sposto: tutto il mondo è paese”

“Ma dov’è che sei andato esattamente? Su al Nord?”, domandò Lauretta.

“Ho vissuto nelle Fiandre belghe, ad Anversa, dove ho studiato all’accademia di moda, ho partecipato ad alcune sfilate con un discreto successo, poi mi sono specializzato nella creazione e confezione di cappelli artigianali. Ho seguito la mia vocazione e ho capito cosa avrei voluto fare nella mia vita. E adesso sono tornato al paese. Sai niente di Penelope?”

L’ultima domanda gli era sfuggita dalle labbra. Non era stata una sbavatura, piuttosto una richiesta di informazioni schietta, senza preamboli. Forse sapeva davvero leggere nel pensiero. Aveva parlato senza ansia, incantando il suo uditorio e facendo balenare a Carmencita e Muriel l’idea di farlo lavorare con loro.

Un sorriso pieno, di comprensione epifanica attraversò il corpo di Lauretta.


11.

Penelope sarebbe venuta all’inaugurazione, forse. René si era trovato per caso nel posto giusto al momento giusto.

L’inaugurazione! L’avevano dimenticata per qualche istante. Non c’era molto tempo per perdersi in chiacchiere.

Muriel chiese a Carmencita e Lauretta, nel loro codice comunicativo, di appartarsi un momento. Ebbero tutte e tre un’impellente bisogno di utilizzare il bagno delle donne.

Quando tornarono fu Muriel a parlare per prima.

“René vorremmo chiederle, ecco se vuole partecipare all’apertura ed eventualmente cominciare a collaborare con noi, non siamo una maison affermata ma se la sua intenzione è quella di rimanere in paese potrebbe essere un’occasione sia per noi che per lei.”

“Al momento non si tratterebbe di formalizzare niente, se ci troveremo bene potremo poi iniziare un discorso più strutturato.”, aggiunse lesta Carmencita.

Non avrebbero saputo dire perché ma tutti quegli insegnamenti dell’insegnante di yoga sembravano essersi concretizzati nella luce che inondò gli occhi di René.

12.

“I dettagli li stabiliremo in seguito, se per lei va bene”, affermò Muriel aggiungendo con piglio sicuro: “ora dobbiamo proprio muoverci altrimenti non faremo in tempo ad organizzare un bel niente. Se vuole può venire con me nella bottega a sistemare i cappelli, non so se abbia già un posto dove stare oppure…”

“Grazie, posso venire subito in bottega, così poi potrò fare una doccia e cambiarmi”. Evidentemente aveva già un luogo dove andare a dormire.

Non avrebbero saputo dire quanto tempo avessero trascorso nel bar, a giudicare da quello che affermavano gli orologi neanche mezz’ora ma il tempo emozionale è ben diverso da quello convenzionale.

René seguì Muriel nella bottega, aprì la sua valigia da cui quasi per magia estrasse due cappelliere di antica foggia che contenevano preziose creazioni artigianali. Con un insolito gesto di consuetudine passò i cappelli all’arredatrice d’interni. Lei li collocò in punti strategici della bottega. Stettero lì per qualche ora, quasi senza parlare, lasciando dialogare le loro energie.

Muriel non si perse nei suoi pensieri, le sembrò per qualche momento che tutto fosse al posto giusto.

René ebbe la sensazione che ciò che aveva fatto sino a quel momento stesse per prendere forma.

Lauretta entrò senza disturbare e capì che lui e Penelope si erano, molto probabilmente senza neanche dirselo, aspettati per tutti quegli anni e che non sarebbe stato facile, per loro, ammetterlo.


13.

“È ora di aprire” sentenziò Carmencita mezz’ora prima dell’ora prevista per l’inaugurazione.
L’euforia era tangibile nell’aria densa di aspettative e desideri.
Muriel era insolitamente calma. Non che normalmente non lo fosse, anzi, era proprio il tipo di persona che non ha mai scatti di nervosismo, d’ira o di stizza. È che ogni tanto tutto il magma che le ribolliva sotto la placida superficie prendeva la forma della distrazione.
Si assentava da sé senza neanche accorgersene. Le capitava sempre più di frequente, tra l’altro, di parlare con Nonna Filomena, chissà che avrebbe detto della bottega, di Carmencita, Lauretta e...
“Chi ben comincia è a metà dell’opera”, sì forse avrebbe detto proprio questo ma era stato René a pronunciare la frase riportandola fuori dalla viscosità pensierosa in cui stava per impantanarsi.
La bottega era perfetta, anche se si sentiva ancora un po’ di odore di vernice e di nuovo.
Al centro era stata posta una tavola perfettamente apparecchiata con prelibatezze varie. I minuti trascorrevano lenti, pareva che il rumore delle lancette del grande orologio a muro sovrastasse le armoniose sonorità musicali.
Dapprima arrivò una piccola delegazione di ragazzette, secondo Lauretta nipoti, pronipoti e parenti di vario grado di Donna Lia, che le avrebbe esortate a recarsi lì per decidere, in base ai dettagliati resoconti delle giovinette, se fosse o meno il caso di degnarsi di presenziare all’evento.
“Buon segno” sussurrò la sarta esperta in sottopunti e in questioni paesane, aggiungendo che se Donna Lia si era premurata di inviare una delegazione ben cinque minuti prima dell’apertura ufficiale voleva dire che era stata dal parrucchiere il giorno precedente se non la mattina stessa e che ci sarebbe stata parecchia gente: non s’era mai vista Donna Lia presenziare alcunché se non per farsi rimirare e notare.
Alla spicciolata giunsero curiosi e addirittura persone i cui alberi genealogici non risultavano nella foresta parentale di Lauretta, particolarità che non seppe bene in che modo interpretare.
Nel giro di poche decine di minuti la bottega si riempì e ci fu un continuo viavai fino a sera quando finalmente poterono sedersi anche loro e mangiare qualcosa. Il bilancio della giornata era stato positivo.


14.

La mattina si svegliarono prestissimo per rimettere tutto in ordine. C’era ancora qualcosa da fare ma la sensazione era quella di un nuovo inizio, non soltanto per René.

Carmencita si sentiva stranamente ebbra e non aveva voglia, per qualche motivo, di organizzare tutto. Si era alzata di buon umore, cosa che le capitava molto di rado, a dire il vero non ricordava proprio quale fosse stata l’ultima volta in cui ciò era accaduto. Aveva una lontana memoria di un profumo di dolci appena sfornati, da sua nonna, no, forse era la sua prozia. Sì, doveva proprio essere zia Proserpina. Prozia, ci teneva a specificarlo. Quanto era brava a preparare i dolci per lei, soltanto per lei, che era la sua pronipotina preferita. Non aveva mai viziato i figli con dolci e altre leccornie, indebolivano il carattere a suo dire ma con lei si sbizzarriva: Carmencita aveva già un carattere forte, almeno all’apparenza.

“Scorza dura e cuore tenero”.

Carmencita si ridestò come emergendo da una doccia di acqua gelata dopo una sauna finlandese, si aggrappò mentalmente alle sue certezze e alla sua disciplina quasi militaresca, guardò verso l’origine di quella frase. René le stava porgendo un After Eight, non c’era niente che facesse presupporre altro. Scacciò via la sensazione di intrusione nella sua intimità con una scrollata di spalle. Serrò le mandibole in un sorriso che la fece riemergere dal torpore mentale e dai pensieri aquilone che si erano incuneati nelle sue celluline grigie.

“Grazie ma non ho ancora preso un caffè”
“Neanche io, è che sono ghiotto di cioccolatini”
“Non si direbbe vista la linea”
“Quando ero ragazzino, un pischelletto, mi vergognavo quasi di non ingrassare, adesso non mi dispiace: posso indulgere nei piaceri della tavola senza dover rinunciare ad indossare i miei abiti preferiti”
“Neanche io tendo ad ingrassare, comunque seguo un regime alimentare piuttosto rigido”
“Quindi niente dolciumi?”
“Mi piace di più il salato”


15.

Lauretta portò un thermos di tisana rivitalizzante, chiacchierò un po’ ma le ci sarebbero voluti almeno due giorni per elaborare la mole di pettegolezzi che aveva incamerato durante l’inaugurazione quindi sarebbe stato del tutto inutile chiederle qualche commento ‘a caldo’, a meno che si volesse soltanto avere informazioni blande e stereotipate.
E poi si vedeva lontano un chilometro che le premeva qualcos’altro.
Dopo aver rifocillato le sue amiche, prese in disparte René, che per lei era e sempre sarebbe stato Renato, e gli chiese ragguagli su Penelope.

“È un po’ cambiata dall’ultima volta che l’hai vista, vero?”
“…”
“Non sai che rispondermi ma i tuoi occhi sono più luminosi di una stella, nonostante il sonno”
“…”
“Anche lei quando ti ha visto si è, come dire?”
“Si è?”
“Il volto era”
“Bellissimo, pieno di grazia, sincero”
“Gioioso direi”
“Dici?”
“Eh già, ma tu sai che lei?”
“Immagino che abbia famiglia ormai, dopo tutti questi anni…”
“No, veramente non ha messo su famiglia, dopo tutti questi anni”
“Chissà perché…”
“Veramente vorrei chiederlo a te”
“A me? e io cosa pensi che ne sappia?”
“Ah niente niente soltanto che”
“Che?”
“Ma senti Renato, sei andato via che eri un ragazzino a modino, hai fatto la tua vita, da quello che ho sentito dire in giro hai fatto anche parecchia strada e dopo tutti questi sforzi torni al paese, chiedi di fare i cappelli in una bottega artigiana che, per carità, è di gran qualità ma te hai sempre avuto la stoffa per puntare parecchio in alto. Torni e l’unica cosa che ti preme davvero è chiedermi di Penelope”
“Ma non è l’unica cosa, neanche per idea, sai”
“Sì sì”
“E so so”
“E lei, da anni che la vedo spenta, disinteressata alla vita, appena ti vede che fa?”
“Che fa?”
“Torna la Penelope che conosciamo tutti quanti; ti pare normale?”
“Ma dai che dici figurati”
“Ah io non mi voglio impicciare di fatti altrui”
“Ma non ci sono proprio fatti di cui impicciarsi, davvero, sono soltanto fantasie”
“Fantasie, fantasie, certo certo. Ma tanto prima o poi mi dirai quello che è successo tra voi due”


16.

“Perché ti interessa tanto la storia di Penelope e René?”
Muriel glielo aveva chiesto senza neanche accorgersi di aver parlato. Il suono si era semplicemente materializzato al di fuori delle sue labbra, prendendo la forma dell’aria. Non le capitava da moltissimo tempo di esprimere quello che pensava senza soppesare la punteggiatura, le frasi, talvolta anche le sillabe.

“Sono due persone a cui voglio bene”.
La risposta arrivò inaspettata: l’aria a volte assumeva delle forme ben strane.

“Forse è difficile spiegare ma li ho visti crescere e sono sempre state due brave persone, erano innamorati sai, di quell’amore sincero, era una gioia vederli insieme e poi, non lo so, è accaduto qualcosa di inspiegabile.”
“Hanno intrapreso strade diverse, non pensi possa essere stato semplicemente quello?”
“No, Muriel, non so spiegartelo ma due persone che si amano in quel modo non intraprendono strade diverse, e infatti così è stato”
“Pensi che René sia tornato con il preciso intento di ritrovare Penelope? Ma dai!”
“Muriel sei insensibile”
“Non lo sono”
“Lo so ma a volte sì”
“Magari sentiva nostalgia del sole italiano”
“Il sole?”
“Eh, il sole, dice che in Belgio piove sempre”
“Ah e siccome gli mancava il sole, anziché andare in vacanza ai Tropici, ha preferito tornare al paese, cercare lavoro all’istante e chiedere immediatamente notizie di Penelope. Mi sembra davvero plausibile, logico…”
“Uhhh e Penelope?”
“Penelope?”
“Eh, Penelope.”
“Ma hai visto che bella donna è? E ha anche un buon carattere, un po’ a modo suo ma... Ti pare normale che non abbia mai messo su famiglia?”
“Magari non ha mai trovato quello giusto”
“Sì che lo ha trovato e in tenera età”
“René?”
“E che c’è di strano?”
“Mah”


17.

Carmencita non aveva voluto dar troppo peso al fatto che le energie di Lauretta si fossero concentrate su Penelope e René ma non aveva potuto non accorgersi che ciò aveva immalinconito Muriel.

“Muriel?”
“Uhm?”
“Che dici se mettiamo i cappelli da parte, intendo da questa parte?”
“Sono proprio belli, forse ha ragione Lauretta”
“Riguardo a cosa?”
“Ma niente, dice che René avrebbe potuto puntare molto in alto e non lo ha fatto per motivi personali”
“Tu che ne pensi?”
“Forse è vero”
“No, dico, tu che ne pensi se mettiamo i cappelli da una parte, qui ad esempio?”
“Vorresti metterli in un cantuccio?”
“Spostarli verso quest’angolo qui”. Carmencita aveva accompagnato la risposta con un gesto con cui sembrava volesse togliere, scansare un ostacolo alla loro felicità.
“Non ti piacciono?”
“Non è che non mi piacciano è che mi fanno inevitabilmente pensare ai tradimenti e a quella commedia coi sonagli”
“Il berretto a sonagli di Pirandello intendi?”
“Sì quella”
“Già che c’eri avresti potuto farti anche venire in mente Questi fantasmi di Eduardo, nel dialogo col professore sul cuppitiello per il becco della caffettiera”
“Dici?”
“Ho la sensazione che non sia un caso se Renato si sia specializzato nel confezionare proprio cappelli e credo che Lauretta ce lo saprà dire presto. Mi diverte tutta questa storia, sai?”
“A me sembrava che ti incupisse”
“No, anzi, è il contrario direi”.
Avrebbe voluto aggiungere che i pensieri avevano iniziato a percorrere strade meno tortuose, ritrovando la linearità progettuale che la contraddistingueva e che l’aveva portata a studiare i reconditi segreti dell’ingegneria e dell’architettura d’interni, ma le era sembrata una mancanza di delicatezza nei confronti di Carmencita. Le era sempre stata accanto, anche nei momenti più oscuri, quando tutto le era crollato addosso all’improvviso e la calotta di cristallo sotto cui l’avevano tenuta il padre e il marito si era sgretolata e lei aveva dovuto rimboccarsi le maniche senza capire cosa stesse accadendo o, forse, comprendendolo con una lucidità che le aveva tramortito la capacità di tenere tutto sotto controllo, le emozioni, i pensieri, i sentimenti.
Le persone non si controllano, lo aveva compreso. Era convinta di poterlo fare, di averlo sempre fatto, di aver avuto tutto quanto e tutti quanti in mano. La sua vita, le sue scelte, la sua indipendenza. Falsità, bugie e menzogne avevano contraddistinto la sua vita fino al momento in cui tutto era stato diverso, d'emblée, senza preavviso.

“Lauretta dice che chi si è amato come loro due non si separa mai”
“Beh, certo lei, con quattro matrimoni alle spalle, di sempiterni amori è un’esperta! Ma dai Muriel…”
“Comunque sarebbe bello sapere che quel tipo di amore esiste veramente”
“Certo che esiste: tra madre e figlio. Punto.”
“Anche i padri amano i figli”
“I padri sono uomini”
“Di solito…”
“E anche René è un uomo”. Carmencita pronunciò quest’ultima frase concludendo il discorso, per il momento, sottolineando il concetto con un’alzata di sopracciglia che era tutto un programma.


18.

L’avversione di Carmencita per l’universo maschile era fondamentalmente giustificata dalla sua esperienza personale e familiare, nonché da un’educazione rigida, improntata alla netta divisione di compiti e funzioni.
Uomini, mariti, padri, zii, cugini erano quasi sempre un accessorio ingombrante seppur necessario alla quotidiana routine della vita paesana.
In cucina non aiutavano ma criticavano, in casa sporcavano e non pulivano, soltanto tra trine, merletti e sottopunti non entravano mai, o quasi. Era considerata un’attività in cui non impicciarsi e lei si trovava a suo agio in quell’universo di conoscenza e sapere.
Anche i libri, a scuola, parlavano di grandi eroi che avevano costituito la patria.
E le donne?
Erano per caso emigrate tutte da un’altra parte mentre gli uomini lottavano valorosamente per il Paese?
E poi perché ‘patria’ e non ‘terra madre’ o ‘natia’?
Tutto questo la infastidiva.
Anche negli ospedali, i medici parlavano di instabilità ormonale.
Ma quale instabilità?
Le variazioni ormonali per la donna sono la normalità altrimenti non ci sarebbe la procreazione, l’allattamento, di quale instabilità si parla?
Rispetto a cosa?
A chi?
Agli uomini?
E per quale motivo si dovrebbe mettere a confronto l’attività ormonale maschile con quella femminile?
Il corpo della donna ha una maggiore capacità di adattamento al cambiamento, è in movimento perpetuo, costante.
È come l’Etna paragonato al Vesuvio.
Il vulcano siciliano erutta in continuazione ed è pacifico, quello campano esplode raramente e quando lo fa devasta, distrugge.

René scombussolava tutto, tanto più che non era come Paolino. E da quello che diceva Lauretta sapeva pure amare, conosceva la lealtà, sapeva aspettare.
Ah sì?
Davvero?
Certo, sapeva riconoscere un chiacchierino da un pizzo olandese.
E allora?

“Una rondine non fa primavera”
“Appunto” Aveva forse parlato ad alta voce? Non se n’era accorta.
Guardò René con un misto di curiosità e diffidenza.
“Fa freddo fuori, sembra ancora inverno pieno. Anche tu sei uscita di casa senza cappotto?”
“Freddo? Ah beh, ovvio, fa ancora freddo. No, no mi sono premurata di prendere una stola calda”.
“È di pelliccia vera?”
“Sì, vecchie pellicce, molto ben tenute. Buttarle è peggio che utilizzarle e c’è una cooperativa di donne, qui, sai hanno aperto un centro antiviolenza e hanno avviato un’attività di recupero di lavorazioni tradizionali. Vengono a lezione da noi per imparare a cucire, noi vendiamo quello che producono e tratteniamo una piccola percentuale per le spese del negozio e per le lezioni.”
“È un’idea bellissima. La realizzazione però potrebbe essere migliorata a mio avviso”
“Forse”
“Puoi farmela vedere per favore?”
“Sì, certo, ecco”
René stette ad osservare a lungo e con occhio clinico la stola. La allontanò da sé come se stesse guardando un quadro puntinista, poi si riavvicinò ad osservarne i dettagli. La posò sul tavolo da lavoro. Si avviò con un’improvvisa ispirazione verso un trolley baule, lo aprì, all’interno c’erano trine e ricami di rara bellezza, alcuni avrebbero potuto essere interessanti anche per il Museo del Merletto di Burano. Ne estrasse due o tre di una foggia che Carmencita non aveva mai visto. Li avvicinò alla stola, cercò con lo sguardo un prezioso broccato.
Carmencita era affascinata dai movimenti di quella persona, appoggiò per qualche istante i suoi pregiudizi nell’ombrelliera in ferro battuto e ceramiche artigianali.
“Ecco, credo che così potrebbe essere anche più bello”
Il risultato era strabiliante. Era una bozza, di tutta evidenza, ma originale.
“È particolare”
“Sì, sembra anche a me. Pensi che si possa proporre di unire questa idea ad un’eccellenza produttiva? Io non mi intendo molto di questioni, come dire, pratiche?, insomma non che non sia una persona concreta ma, ecco…”
Sapeva anche ammettere i propri limiti. Carmencita pensò che forse esiste un luogo in cui uomini e donne sono persone, con le loro caratteristiche, le loro differenze e magari in casa puliscono, cucinano e rammendano senza credere di fare qualcosa di strano, come dicevano Muriel e Lauretta.
“Sai cucinare René?”
“Sì, certo: quando sei all’estero e sei italiano non puoi non saper cucinare. A dire il vero non è previsto neanche che non si conoscano bene i vini ma io sono astemio, non mi sono mai piaciuti gli alcolici.”
“E le droghe?”
“Le droghe? No, non mi piace proprio niente che alteri la percezione della realtà in modo incontrollabile. Se voglio avere sensazioni forti scalo una montagna, fa anche bene alla salute, o vado sull’oceano.”
“Ti piace il mare in inverno?”
“Sì, ecco, se voglio ‘stordirmi’ preferisco una bella passeggiata accanto all’oceano d’inverno, stando attento a non farmi travolgere dai cavalloni. Perché me lo chiedi?”
“No, niente”
“Gli uomini non sono tutti uguali, sono come le donne, diversi l’uno dall’altro, ma molti non lo sanno o non hanno il coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Va bene, l’idea mi sembra buona. Mi occuperò della parte che tu, Muriel e Lauretta chiamate ‘pratica’. C’è qualcosa che serve per la parte che io chiamo ‘pratica’, ovvero la realizzazione concreta?”
“Almeno una persona brava con merletti e ricami”
“Va bene. Ti faccio sapere”.


19.

“Muriel?”
“Sì Carmencita, che c’è?”
“Che ne pensi di René?”
“Non ti piace, eh?”
“Non ho detto questo”
“No, no. Cos’è che non ti convince?”
“No, no, niente.”
“Carmencita?”
“Sì?”
“Da quanti anni ci conosciamo?”
“Ti sembra normale che un uomo si metta a fare cappelli da donna e si interessi di trine e merletti, vada ad Anversa a studiare all’accademia della moda, torni in Italia e si trovi per caso davanti alla bottega nel momento in cui stiamo per aprire, conosce Lauretta e l’unico suo interesse reale sembra essere Penelope, no dico, Penelope?”
“Sembra anche a me una persona telepatica. Se ti devo dire cosa ne penso, mi fa pensare ad un gatto”
“Un gatto?”
“Sì, hai presente quei gatti che ad un certo punto compaiono nelle vite delle persone e sembra che siano sempre stati lì e che sappiano comprendere tutto anche meglio di persone care e amiche?”
“Avresti potuto dirmelo che sei diventata buddista”
“Non sono buddista ma Sibilla parla sempre dell’energia delle vite precedenti o di quella storia delle tante dimensioni”
“La teoria della relatività: l’ha inventata Einstein”
“Ma pensa!”
“Comunque, il paragone è calzante”
“Penelope è tanto una brava persona”
“Non lo metto in dubbio ma ti sembra una donna che possa ispirare una passione tanto forte da travalicare anni, confini, esperienze?”
“Oh senti, non so che dirti ma Lauretta…”
“Eh, Lauretta, Lauretta ma che ne sa lei dell’amore?”
“Qualcosa avrà pur capito con tutti i matrimoni e i figli che ha in giro per il paese!”
“Non lo so, c’è qualcosa che non mi quadra”
“Carmencita?”
“Eh?”
“Non è che, per caso, quello che non ti quadra è che mette a soqquadro tutti i tuoi pregiudizi e le tue diffidenze nei confronti dell’universo maschile?”
“Ah, tu e Lauretta dovete smetterla di pensare che io abbia qualche forma di idiosincrasia particolare o cosa: io non ho nessun pregiudizio.”
“No, pensi soltanto che gli uomini siano cretini”
“Il più delle volte”
“Ah vedo che ti stai ammorbidendo”
“Sai che mi ha detto?”
“Chi, René?”
“Eh”
“No, che ti ha detto?”
“Che gli uomini non sono tutti uguali e che sono persone come noi ma che non hanno il coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Andiamo a prendere una tazzona di tisana col ciambellone”


20.

Paolino non si sarebbe perso la serata di inaugurazione per niente al mondo ma non era riuscito a cambiare il turno di lavoro e quel giorno era in un altrove in cui avrebbe voluto non essere mai andato, anche perché si era ritrovato in un bar insieme a colleghi e clienti che definire retrivi sarebbe stata una forma di gentilezza che avrebbe travalicato anche le sue più abituali doti di cortesia. Sorridendo per mascherare il disgusto, aveva dovuto ascoltare chiacchiere insopportabili riguardo a donne, calcetto, omosessuali, in ordine sparso. Quando la sua leggendaria tolleranza stava per incrinarsi si era stretto nelle spalle ed era riuscito a sottrarsi alla compagnia con la scusa di una impellente telefonata galante. La propria voce interiore lo istigava a rovesciare il tavolo, dire che gli stava venendo da vomitare, inciampare casualmente su un vassoio di tartine con la maionese da spalmare addosso ai suoi commensali e urlare quello che pensava. Aveva preferito la via diplomatica. Non era un ambiente, né un luogo, in cui avrebbe potuto esprimere la propria natura, per cui, riconquistato un suo spazietto, si era dedicato alla pratica yogica.
Appena tornato al paese, però, non perse un istante per andare nella bottega ad informarsi.

“Lauretta buongiorno, cercavo proprio te, voglio un resoconto dettagliatissimo. Intanto questi sono per voi, qualche dolcetto per la colazione e un paio di oggetti che non potevo non portarvi.”
“Anche la camelia? Paolino sei uno spettacolo”
“Sì, ho fatto una piccola deviazione a Velletri. Dimmi tutto”

Lauretta liberò la mole di informazioni immagazzinate e riposte in un angolo della sua memoria per lasciare il posto all’affaire René Penelope e i due rimasero a parlottare per un tempo che sembrò brevissimo ai due interlocutori.

“Credo sia ora di cena Paolino, vuoi venire a mangiare da noi?”
“Certo!”

Muriel si era sempre chiesta come facessero a ricordare tutte quelle generazioni di parentele, amicizie, intrighi, vestiti e corredi ed era giunta alla conclusione che fosse un mistero cosmico.
Per Paolino parlare con Lauretta era rinfrancante: lo faceva sentire bene, all’interno del suo universo di senso.
“Paolino?”
“Dimmi”
“Se non fossi gay saresti il mio prossimo marito”
“Lauretta, sei l’unica donna che potrebbe tentarmi”

Ciò detto, si salutarono ridendo dopo aver chiacchierato per poco meno di ventiquattrore filate.


21.

René uscì a fare una passeggiata.
Aveva la mente piena di merletti, trine, tessuti e aveva bisogno di pensare in libertà.
Tutto era accaduto velocemente da quando era tornato in paese e non aveva ancora avuto modo di lasciar decantare le emozioni.
Aveva affinato la tecnica di non immergersi in niente che potesse scuoterlo dalle viscere. Tutto poteva essere osservato dall’esterno.

“René, che piacere inaspettato”
“Paolino, ciao. Sei stato da Lauretta?”
“Si vede molto?”
“Hai lo sguardo tra il felice e il birichino e la barba non curata. Non so, ma non mi sembra che usciresti di casa senza esserti occupato della tua toilette”
“Ehi, sai osservare le persone. Bene allora che ne dici di fare quattro passi insieme nel parco?”
“Volentieri, stavo proprio cercando un sentiero per una camminata lontano dal traffico”
“Hanno da poco inaugurato il parco tematico, è piuttosto grande e si può camminare agevolmente sui sentierini. A me piace molto, hanno addirittura pensato a creare percorsi soltanto per cani per cui non c’è pericolo di imbattersi in animali nevrotizzati dalla vita d’appartamento”
“Detesti i cani?”
“Ne ho sei. Ma li lascio vivere tranquillamente la loro vita senza interferire troppo. Amo rispettare le diversità.”
“Mi sembra una buona base per una amicizia sincera”
“Già. Posso farti una domanda?”
“Sì, a patto che sia sufficientemente indiscreta”
“Se tu fossi gay saremmo una coppia perfetta. Comunque, perché te e Penelope vi siete abbandonati e cercati e aspettati per tutti questi anni?”
“Alquanto indiscreta direi. Non lo so. Pensi che lei mi abbia aspettato?”
“René, è evidente, palese, cristallino. Dunque, che è successo tra voi?”
“Abbiamo litigato, come si dice? per futili motivi e poi eravamo talmente orgogliosi che non abbiamo avuto il coraggio di ammettere che eravamo due cretini”
“Lo siete ancora, per quanto concerne i sentimenti intendo”
“Ci vai leggero con le parole, eh?”
“Non volevo offenderti è che, beh ecco, avete intenzione di trascorrere qualche altro lustro prima di capire che sarebbe il caso di, che ne so, uscire a prendere una pizza, un aperitivo, un gelato?”


22.

Forse aveva ragione Paolino ma René non voleva entrare in qualche vortice di speranze disattese. Voleva pensare al suo lavoro, ai suoi interessi.
Tornare in Italia non era stato semplice anche se aveva trovato subito un’occupazione.
Gli mancavano molte cose del Belgio, riabituarsi alla mentalità italiana non era stato così semplice. La disorganizzazione strutturale nella vita quotidiana può essere scomoda.
Aveva dovuto imparare nuovamente a guidare.
Utilizzare un’autovettura anziché contare sull’efficienza del trasporto pubblico e sulla possibilità di camminare a piedi o muoversi in bicicletta non gli garbava punto.
La mancanza generalizzata del senso della cittadinanza attiva lo disturbava anche nei piccoli gesti. Trovava inaudito, ad esempio, doversi accertare che le auto si sarebbero fermate davanti alle strisce pedonali.
È così difficile capire che se ci sono delle strisce pedonali e c’è una persona in procinto di attraversare la strada è necessario rallentare, fermarsi?
Le vie degli antichi romani hanno resistito per millenni, quelle moderne hanno un asfalto che pare idrosolubile, i marciapiedi sono un concetto astratto e chi va a piedi viene spesso considerato un eccentrico o qualcheduno che ha qualche problema, di ordine economico o di socialità.
La mancanza di bagni decenti nei luoghi pubblici delle grandi città, inoltre, lo infastidiva alquanto.
Cibo, clima e generale solarità delle persone, oltre alla straordinaria bellezza paesaggistica e architettonica del Paese aiutavano ad affrontare i tanti disagi dell’inciviltà statale.
Ascoltare l’italiano ovunque, seppur bistrattato da una generica disaffezione verso la propria cultura, era piacevole ma non poteva fare a meno di roteare gli occhi quando udiva scempi nella coniugazione verbale. In casa era abituato a parlare decentemente, era una forma di rispetto.
La presenza di Penelope, certo, gli aveva in qualche modo riaperto uno spiraglio di felicità interiore che aveva riposto in un qualche angolo nascosto del suo essere ma questo non c’entrava con quello che diceva Paolino e che forse pensava anche Lauretta. Il detto latino “vox populi vox dei” gli venne involontariamente in mente ma scacciò il pensiero con uno scotimento di testa, naso e labbra serratissime.  


23.

Brigida aveva deciso di fare un bel discorsetto a suo fratello Guccio. Anche se a lui Paolino piaceva, lei non lo avrebbe mai chiamato in quel modo. Era orgogliosa del suo nome, testimonianza di antiche origini toscane di cui andava fiera.
Era più che evidente che quel Renato, che si faceva chiamare René, lo aveva abbindolato coi suoi pizzi e merletti e discorsi vacui su un qualche altrove ma lui non avrebbe dovuto dare scandalo in paese.
Se era proprio in quel modo, come diceva suo marito, buonanima, che l’onnipotente l’abbia in gloria, lei non ne aveva colpe e chiunque, nel gruppo di preghiere, nel coro, e nella confraternita avrebbe potuto testimoniare i suoi enormi sforzi per riportarlo sulla giusta via.
L’unica possibile, l’unica che non andasse contro natura e che rispettasse la suprema volontà, checché ne dicessero certi religiosi che si definivano ‘moderni’.
Ora, va bene tutto, ma che cosa c’entrasse la modernità con la negazione della normalità non lo aveva né lo avrebbe mai capito.
Era assolutamente fuori discussione che il fatto che lei guidasse la sua automobile, caricasse la lavastoviglie e andasse ad esercitarsi nelle simulazioni di guerra tutti i giovedì avesse qualcosa a che fare con, beh sì insomma quella cosa lì, la sodomia, che solo a pronunciare la parola le venivano i brividi di ribrezzo dietro la schiena.
Oh, ci aveva davvero provato in tutti i modi, con le buone e con le cattive. Aveva chiamato specialisti e negromanti ma non c’era stato proprio niente da fare, per il momento.
Certo, l’arrivo di quel cicisbeo non aveva fatto gioco alla sua santa causa di redenzione.
Lauretta l’aveva poi fatta proprio andare su tutte le furie, sembrava che fosse stata lei a dire che era una persona ammodo. Certo, lei con tutti quei mariti e quei divorzi cosa fosse la normalità non l’aveva mai veramente capito ma da qui ad avallare quella cosa lì ce ne passa, oh se ce ne passa.
Li avevano anche visti insieme nel parco, che sfacciataggine, non aveva per niente pensato alle conseguenze per i suoi nipotini a scuola, che già avevano avuto le segnalazioni dalla preside per, come si chiama adesso, ah sì, bullismo. Soltanto poi perché avevano reagito alle infamanti accuse rivolte alla loro madre, che tesori. Sì, certo, il più grande era un po’ irruento, forse appiccicare l’insegnante all’appendiabiti per non avergli consentito di digerire apertamente e sonoramente in classe era stata una reazione un po’ troppo virile. Ma almeno li stava crescendo maschi, nel pieno rispetto delle leggi divine.
24.

Donna Lia era conosciuta, rispettata e vagamente temuta in tutto il paese e dintorni.
Le sue osservazioni, i suoi appunti, quando espressi apertamente, se così si vuol chiamare il complesso di formalità di cui ammantava le proprie frasi, erano vere e proprie sentenze, il più delle volte senza appello.
Non c’era evento, mondano o privato, che avesse una certa rilevanza sociale a cui lei non era invitata caldamente a partecipare.
La sua presenza era garanzia di buona reputazione e solida aderenza ai dettami delle tante leggi non scritte di bon ton.
Qualcuno, non senza invidia, asseriva che fosse invece garanzia di noia e ingessata formalità. Con lei spaparanzarsi al sole su un bel plaid a cantare e ballare a piedi nudi sarebbe stato impensabile. Si poteva, certamente, organizzare un pic-nic ma con stile ed eleganza, il che equivaleva, per i maligni di cui sopra, ad una odiosa ostentazione di oggetti modaioli e di pregio, conversazioni laccate e grandi sbadigli.
Una significativa alzata di sopracciglia metteva a tacere le chiacchiere meschine di chi, sbandierando libertà, non faceva altro che intaccare le conquiste di educazione dell’era moderna.
Al giorno d’oggi anche una persona di estrazione se non infima comunque bassina poteva, con le dovute accortezze, adeguarsi, apprendere quelle regole di comportamento che distinguono l’uomo dai cavernicoli, possibilmente andando a reprimere con disciplina ed esercizio costante l’elemento dionisiaco, i sentimenti, gli istinti primordiali.
A cominciare dal cibo e dalla repressione di quei bassi istinti che molti confondevano con l’amore. Figurarsi, come se un abbraccio appassionato potesse garantire la retta dell’università!
Esercitare la propria volontà con rigorosissime diete, preparando piatti elaborati, scenografici era inoltre un suo punto fermo.
L’arrivo di René, così disinvolto ed elegante, tanto diverso da lei avrebbe forse potuto incrinare il suo prestigio tanto faticosamente conquistato ma lei avrebbe saputo certamente come irretirlo e inserirlo nella sua cerchia di conoscenze così da poterne controllare movimenti e impatto degli stessi su quello che lei, in base a sue personalissime teorie, aveva assurto a suo territorio.


25.

Dal giorno dell’inaugurazione Penelope si sentiva più leggera. La cupezza che le attanagliava il cuore da un tempo di cui non ricordava l’inizio si era improvvisamente diradata, un po’ come la bruma nelle mattine d’autunno.
Le era sempre piaciuto guardare la nebbia che avvolgeva i paesaggi rendendoli per qualche tempo invisibili, diversi.
I contorni, le linee di confine tra spazio ed elementi che lo compongono parevano smussarsi fino a dissolversi per poi riaffiorare alla superficie dell’immanenza.
Le sembrava che in quelle ore, in quegli istanti anche lei potesse diventare indistinto elemento del tutto e che il tutto divenisse partecipe di quel sentimento di incompiutezza che ne contraddistingueva l’umore da qualche tempo, non avrebbe saputo dire quanto, forse da quando René se n’era andato la prima volta, ma non ne era certa e comunque non voleva pensarci.
Non aveva mai veramente dato peso a quella sensazione di parzialità costante che ne attenuava la forza passionale, una caratteristica forse discutibile ma peculiare del suo essere. Ultimamente aveva imparato a reprimerla per non lanciarsi più in qualche progetto che le prosciugava le energie e alla fine non la soddisfaceva mai fino in fondo anche se gli altri pensavano che tutto fosse straordinariamente ben fatto, e in così poco tempo!
I suoi occhi erano febbrilmente vivi, sembrava la stessero cercando.
Non voleva farsi illusioni.
Sarebbe stato bene tenere i remi saldamente in barca.
Per il momento avrebbe evitato di andare nella bottega.
Almeno fino a quando non avesse chiarito con sé stessa le sue priorità.
La camminata mattutina l’aveva aiutata a pensare nel giusto modo.
Era anche un po’ stanca, aveva fatto un giro ben lungo.
“Penelope, ciao, che piacere vederti, entra, entra a prendere una tisana con noi”
Era proprio la voce inconfondibile di Muriel.
Il suo sguardo aveva vagato in cerca di una spiegazione plausibile fino a fermarsi sull’insegna pitturata a mano.
“Ti piace l’insegna? L’ho dipinta io, dai entra, ti vedo un po’ stanca”
Entrò e riuscì a balbettare, tra la soddisfatta curiosità di Lauretta e la preoccupata premura di Carmencita, che sì, era un po’ stanca perché aveva camminato a lungo per un motivo che non riuscì a precisare.
René era andato a prendere qualcosa da mangiare visto che Paolino aveva dovuto correre dalla sorella Brigida per qualche questione urgente.
Penelope si rilassò sapendo di avere qualche minuto a disposizione per elaborare una scusa plausibile ma le sue riflessioni vennero intercettate dagli occhi di Lauretta che sapeva benissimo in che modo intrattenere una lunghissima conversazione con una persona senza destare sospetti e soprattutto senza lasciar via, né tempo, di fuga.
Muriel e Carmencita le ressero il gioco, pur non essendo edotte sui particolari avevano ben capito la situazione e, senza neanche bisogno di un cenno d’intesa, avevano iniziato un vero e proprio balletto di parole e battute cui Penelope non avrebbe potuto sottrarsi.


26.

Cosa volesse mai Brigida da Paolino era presto detto: gli avrebbe fatto una bella lavata di capo stavolta e non avrebbe lasciato correre come avevano sempre fatto i loro genitori.
La presenza del fratello nella bottega era quanto mai sconveniente, le persiane e le serrande del paese la schernivano già.
Ne era più che certa.
Sant’Anselmo di Canterbury e San Sebastiano non avrebbero potuto proteggerlo dagli sguardi pettegoli e cattivi delle malelingue.
Dapprima aveva pensato che Guccio fosse un’emanazione del maligno ma poi si era convinta che fosse un’espressione della volontà dell’Altissimo per mettere alla prova la sua fede in Lui. Ah ma avrebbe potuto star certo che lei non si sarebbe fatta scrupolo di dimostrare tutta la sua pia devozione in qualunque modo avesse potuto, l’ispirazione e la guida gliel’avrebbe infusa tutto il suo amore per Santa Caterina da Siena.

“Guccio carissimo, che piacere vederti. Ti trovo sciupato, che fai mangi poco?”
“Brigida cara, dici? Te sei in splendida forma invece.”
“Forse hai bisogno di mangiare qualcosa di buono, ben cucinato”
“A proposito, quasi dimenticavo. Ti ho portato una Sacher fatta con le mie mani, so che ti piace tanto. La panna d’alpeggio non l’ho trovata, mi spiace, per cui ho dovuto acquistare quella di allevamento, non intensivo s’intende ma il sapore è leggermente diverso. Anche il burro, ho usato il crudo della fromagerie Saint Xavier ma non è la stessa cosa.”
“Oh grazie, non dovevi disturbarti”
“Nessun disturbo, sai che cucinare mi rilassa. Ho preparato pure qualcosa di salato ché tanto tu coi fornelli hai litigato da tempo immemore, non te ne avere a male Brigidina cara ma prevenire è meglio che curare”
“No, no, figurati. Ecco appunto, Guccio, prevenire è meglio che curare”
“Brigida allora che ti è capitato stavolta?”
“A me assolutamente niente. Comunque la differenza col il burro d’alpeggio la senti soltanto tu questa Sacher è squisita.”
“Mi fa piacere che ti piaccia. Ognuno ha i suoi gusti… oh santa miseria ti è andato per traverso, sei diventata paonazza”
“No, tutto bene, tutto bene. Senti Guccio, la mia è una convocazione in piena regola”
“Ah tesoro, lasciami stare che ho le lune storte da qualche giorno”
“Da quando ha aperto il negozio di quella tua amica senza vergogna?”
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ricordi? Comunque immagino tu stia parlando di Lauretta.”
“Proprio! E ha pure portato il prete sulla cattiva strada, in chiesa si è risposata per ben quattro volte, senza neanche avere la buona creanza di…”
“…di uccidere il marito come la tua amica?”
“Non lo ha ucciso”
“Gli ha semplicemente somministrato una zuppa di galerina marginata e cortinarius speciosissimus con secondo di botelus satanas e contorno di carpaccio di amanita verna, così tanto per non sbagliare”
“Non è colpa sua se non conosce i funghi”
“Per raccoglierli è necessaria una apposita licenza, un patentino”
“E lei li ha raccolti lo stesso, ma una cosa è una multa per mancanza di patentino raccogli funghi e un’altra un’accusa di omicidio”
“Già già, la vedova inconsolabile. Dov’è adesso?”
“L’ultima cartolina l’ha inviata dalle Cayman”
“Ah, dimenticavo che il nuovo consorte è un trafficante d’armi”
“Non è un trafficante d’armi, lavora per una importante multinazionale”
“Che produce armi”
“Non le fabbrica mica lui”
“Certo, certo”
“Sei impossibile”
“Che volevi dirmi?”
“Ti volevo chiedere di quel René”
“Tranquilla, è etero. Non ti chiederò di farmi da testimone di nozze per il momento, puoi mangiare la Sacher con tutta la serenità che richiede”
“Non è questo il punto”
“Brigida, anch’io ti voglio bene pure se sei una bigotta con ossessioni ricorrenti, ora devo andare”
“Guccio, non ho finito!”
“Ciao Brigidina cara, stammi bene e saluta le amiche di preghiera”
“Guccioooo!”


27.

“Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non quello che trova. Pensavo di prendere una scorciatoia e invece mi sono perso tra le case costruite di recente. C’erano prati e canneti quando ero ragazzetto e adesso sembra una nuova città. Comunque eccomi qua, croissant e ciambelle… direi tiepide. Ciao Penelope, che ci fai qui?”
“Ciao René, ma niente, stavo facendo una camminata e mi sono persa, poi ho chiacchierato un po’ con Carmencita, Muriel e Lauretta…”
“Ah e dove sono adesso?”
“Sei nella bottega, ma ti senti bene?”
“No, dico, dove sono loro adesso?”
“Come dove sono loro… adesso… già, dove sono loro adesso?”
“Forse sono venute a cercarmi?”
“Me lo avrebbero detto, penso”
“Già. Sei sicura di star bene?”
“Sì sì, tolgo subito il disturbo, tranquillo, magari tu pensi che io stessi parlando con… non so con il mannequin. Io veramente quando mi sono accorta di essere arrivata qui avrei voluto proprio andarmene e non so perché… stavo passeggiando per godere un po’ di aria frizzante… sai è… è tonificante e poi pulisce la mente e manda via le nubi… cioè non che io abbia le nuvole in testa di solito è che avevo voglia di camminare”
“È un’ottima abitudine”
“Cosa?”
“Camminare e perdersi nei propri pensieri nebulosi per poi ritrovarsi in un posto che si stava cercando di evitare, è così?”
“No, che c’entra a me questa bottega piace moltissimo, è carina, non stavo cercando di evitare proprio un bel niente è che”
“Anch’io stavo cercando di evitarti”
“Ah ma io proprio non so di che parli”
“Non stavi cercando di evitarmi?”
“Proprio no, cioè non ti sono venuta a cercare, stavo semplicemente facendo una camminata e mi sono trovata qui, poi Lauretta e Muriel e Carmencita… ma dove saranno adesso?... hanno iniziato a parlare e non la finivano più, non che non mi piaccia discorrere con loro ma già avevo fatto un giro lungo e l’unica cosa da fare sarebbe stata tornare a casa”
“Vuoi un croissant o preferisci una ciambella?”
“Scusa?”
“Ho portato la colazione ma se loro sono uscite per qualche incombenza intanto potremmo spizzicare qualcosa. Io ho una fame e se tu hai fatto un giro così lungo avrai probabilmente bisogno di mangiar qualcosa”
“Ah, beh, sì, perché no?”
“Quale preferisci?”
“Non saprei”
“Facciamo così: prendiamo mezza ciambella e mezzo croissant per uno, ti va?”

Muriel, Lauretta e Carmencita si erano praticamente dileguate lasciando a Penelope e René tutto il tempo, e l’agio, di fare colazione insieme.



28.

“Pensi che si siano accorti che siamo uscite dalla porta di servizio?”, chiese ridacchiando Carmencita che non si sentiva così allegra da quando era una ragazzina, le era sembrato di tornare ai tempi di piripiribozza, cucciolapentola e di quegli altri giochi scemi che si facevano in paese.
Giocare a campana o fare le figure con l’elastico nel cortile della scuola le era sempre piaciuto tanto, era bravissima ma aveva quasi dimenticato la spensierata gaiezza di quei pomeriggi, almeno fino a quel momento.
“Non mi sembra che si siano premurati di venirci a cercare” rispose Muriel ridendo sguaiatamente.
“Vabbe’, che dite li andiamo a disturbare un po’?”, propose maliziosamente Lauretta.
Aspettarono quel tanto che bastava per farle smettere di gongolare e ridacchiare e si incamminarono verso la bottega ma dovettero tornare indietro un paio di volte perché continuavano ad avere la ‘ridarella’.
Quando entrarono nella bottega avevano gli occhi felici, birichini e inumiditi dalle lacrime ma cercarono di darsi un contegno con qualche colpetto sui fianchi o un pizzicotto di quando in quando.


29.

“Oh René, sei qui, ma dove sei andato a compare i cornetti?” chiese con aria innocente Lauretta
“Penelope, scusa se ti abbiamo lasciato sola ma vedo che hai trovato compagnia”, rincalzò Muriel mordendosi la lingua per non ridere
“Buongiorno, no ma io stavo proprio per andar via”
“Ma no, che dici, prendiamo un caffè”, la fermò Carmencita che si stava ormai divertendo moltissimo.
“Chi la fa l’aspetti”, affermò René aggiungendo “so che siamo tutti quanti a dieta ma queste ciambelle sono proprio soffici e i cornetti così ben sfogliati…”
“Ma sì dai, faremo uno strappetto alla regola. Passami la bomba con la crema al cioccolato” rispose ridendo Lauretta guardando Muriel di sottecchi
“Magari Lauretta quella al cioccolato la mangio io, tu prendi il cornetto vegano”, la rimbrottò Carmencita che sembrava tornata bambina
“No, il cornetto vegano no, dai”
“Sì, il cornetto vegano sì”, asserì Muriel mettendole la pasta tra le mani e togliendole così ogni speranza di tuffarsi nella più grassa e calorica brioche.
“Io devo proprio andare, davvero o farò tardi per… per”
“Rimani, tanto queste tre pesti non ti lasceranno andare, anzi sai che ti dico?, posso accompagnarti?”
“Dove René?”
“Ovunque”


30.

Lauretta era soddisfatta e felice. Avrebbe proprio voluto vedere Guccio, detto Paolino, e chiacchierare con lui per tutta la notte, raccontando per filo, per segno e con parecchia fantasia, quello che era accaduto quella mattina. Sembrava che tutto avesse improvvisamente iniziato ad avere un senso compiuto.
Paolino però non sarebbe tornato prima di tre giorni e parlare attraverso qualche mezzo elettronico non era nella natura della loro amicizia.
Attese pazientemente e si accorse che la sua vita era sempre stata piena di tante passioni e poco amore. Si incupì, la sua proverbiale allegrezza sembrò svanire d’incanto insieme alla sua voglia di fare. Decise che avrebbe trascorso le ore che la separavano dall’incontro col suo amico in apatico torpore.
“Buongiorno Muriel, ma erano René e Penelope quelli che ho visto uscire poco fa?”
“Buongiorno Paolino, ma non dovevi essere all’estero? Va di là che Lauretta ha deciso di chiudersi a riccio, magari se ti vede potrebbe cambiarle l’umore”
“Corro”

Quando lo vide un sorriso luminoso la trascinò via dai suoi pensieri aquilone e la riportò alla sua abituale gaiezza.
Si mise a parlare fitto fitto cercando di non ferire il suo amico Guccio, il quale cercò di consolarla asserendo che era rimasto con una scusa perché aveva incontrato una persona ammodo. Forse non sarebbe stato campane e abito bianco ma si piacevano. Le mostrò le foto e le raccontò che faceva l’aviatore.
“Bellino è bellino, sembra pure simpatico ma dici che è fedele?”
“Potrebbe e comunque questo dovrai dirmelo tu”

Le comunicò tutti i dettagli che aveva potuto apprendere. Lauretta era galvanizzata dalla nuova missione in cui si sarebbe lanciata con gran fervore chiudendo per sempre la porticina del rimpianto, della saudade, per il grande amore che non aveva, e forse mai avrebbe, incontrato.


31.

Carmencita sistemò la bottega con la solerzia che la caratterizzava quando decideva di rimettere a posto qualcosa di importante.
La presenza di René aveva scombussolato fin troppo le sue convinzioni, i suoi piani e le vite delle sue socie e migliori amiche.
Si sentiva un po’ più fiduciosa nelle persone, questo sì, e aveva anche riso come non le capitava da tantissimi anni, era vero, ma…ma forse non c’era proprio nessun ‘ma’, avrebbe dovuto ammettere che era felice, tutto sommato, della sua presenza.
Non avrebbe mai creduto, se gliel’avessero raccontato, che avrebbe provato un senso di benessere anche grazie ad un uomo che non era uguale a tutti gli altri, che poi, a ben guardare, neanche gli altri erano proprio tanto simili, anche loro avevano sentimenti, esigenze, paure, pensieri. Beh, magari meglio non esagerare. La stragrande maggioranza rientrava nelle categorie in cui li aveva relegati e non avrebbero dovuto intrecciare il placido scorrere della sua esistenza.
Aveva che suo marito aveva talune fragilità che tentava di mascherare dietro una facciata di cliché. Per qualche istante le era sembrato che lui detestasse le partite e guardare gli sport ma che lo facesse perché così avrebbe avuto qualcosa di cui parlare con gli altri mariti che ben sapevano di non dover forzare gli steccati che dividevano il loro mondo dall’universo delle loro consorti.
Provò a parlargli della bottega, lui la guardò smarrito, cercando un appiglio cui aggrapparsi nel caso avesse fornito la risposta sbagliata. Carmencita gli stava raccontando qualcosa di sé e lui non sapeva davvero come reagire. Avrebbe dovuto preoccuparsi o dimostrare interesse? Ricordò una barzelletta che aveva letto da qualche parte, le porse un bicchiere di vino e le avvicinò qualche stuzzichino senza offrirglielo, non era certo che le piacessero, se stesse facendo una qualche dieta che proibiva proprio quel cibo. Il movimento fu cauto e circospetto, Carmencita notò per la prima volta la quantità di attenzioni che racchiudeva quel semplice gesto, le venne spontaneo accarezzargli la mano. Lui non la mosse, non poté fare a meno di spostare lo sguardo a destra e sinistra, alternativamente, lei intrecciò le loro dita e con l’altra mano gli assestò una carezza sul volto. Lui era in tilt, non capiva il perché di tanta improvvisa dolcezza, gli piaceva ma non sapeva cosa lei si aspettava che lui facesse. Non voleva interrompere quel momento: era rilassante, gradevole. Le disse che era molto orgoglioso di lei.


32.

Muriel osservò soddisfatta l’insegna.
“Il Chiacchierino” era proprio quello che avrebbe voluto, una bottega, non un negozio dove acquistare cose che poi si lasciano da qualche parte, distrattamente.
Un refolo di vento le scompigliò i capelli.
Provò una gran voglia di concedersi un lusso.
Salutò le sue amiche e socie e si recò senza indugio verso la sua meta.
Entrò in libreria, acquistò un romanzo, si accomodò ad un tavolino, ordinò una bella centrifuga di frutta e trascorse il pomeriggio a leggere.


33.

“Voglio che tu sia sincero”
“Lo sono sempre stato”
“Uhmm è vero ma voglio sapere una cosa”
“Dimmi”
“Perché te ne sei andato?”
“Perché me ne sono andato?”
“Eh, sì”
“Hai la memoria corta, vedo”
“Non ho la memoria corta, non pensavo che…”
“…che avrei preferito andarmene?”
“Ma preferito a che cosa, scusa?”
“Che vuol dire a che cosa ma non ricordi che non mi volevi più vedere né sentire?!? Io continuavo a portarti fiori, sembravo quel personaggio maschile della Canzone di Marinella che ‘bussò cent’anni ancora alla tua porta’ e non ti degnavi neanche di parlarmi”
“Ah io? Devo proprio avere la memoria corta perché mi pareva il contrario sai…”
“Ti propongo un gioco”
“Dimmi”
“Facciamo che invece di rinfacciarci cose accadute qualche lustro fa decidiamo di goderci la vita ed essere felici insieme?”


34.

Penelope ebbe un sussulto quando vide arrivare René con un cestino di vimini intrecciato a mano, rivestito con un canapone rifinito all’uncinetto e foglie verdi a forma di cuore, colmo di frutti arancioni.
Appena li ebbe assaggiati un senso di vertigine la avvolse tra le spire di un déjà-vu che la riportò anni indietro.
Il sapore delle albicocche mature colte di primo mattino è indimenticabile, fresco, dolce e asprigno al contempo, una di quelle sensazioni che rimangono impresse nella memoria emotiva.
I suoi genitori avevano acquistato un marchingegno per preparare ottimi succhi di frutta e quell’anno gli alberi si erano orgogliosamente gonfiati di succulente prelibatezze. Appena svegli andavano nel giardino, non lontano dalle mura, raccoglievano quelle bontà… quante ce n’erano! 
La cucina era un trionfo di arancione e verde, il grande pentolone per marmellate e conserve sempre in giro, l’odore dolciastro si univa alla spensierata allegrezza di quell’estate.
Lei era appena all’inizio della sua pubertà, stava diventando una splendida giovane donna ma non se n’era ancora avveduta.
Sua madre, le sue zie e le sue cugine più anziane la motteggiavano ma lei non capiva perché le dicessero tutte quelle sciocchezze.
Un giorno era tornata a casa con il volto livido, le labbra tremanti e un broncio nouvelle vague.


35.

“Amore che è successo, che è quella faccia?”, aveva chiesto preoccupata sua madre
“Ah niente, figurati”, aveva risposto Penelope piccata
“Cosa devo figurarmi?”
“Niente di niente di niente”
“E cos’è questo niente di niente di niente?”
“Ah non te ne sei accorta?”
“Di cosa tesoro di zia?”, era intervenuta preoccupata la zia
“Non vedi come sono vestita?”
“Perché come sei vestita?”, s’era intromessa Gaia la più anziana tra le sue cugine
“Non ti ci mettere anche tu!” aveva replicato piccata Penelope
“Ma perché che ho detto?” aveva risposto Gaia andando ad aprire un pacchetto di patatine
“Dai Penelope, non la tirare per le lunghe, che è successo?” aveva chiesto Laura, la più giovane tra le cugine più anziane
“Mi guardavano tutti quanti!”

Una risata liberatoria aveva riempito lo spazio sonoro della stanza e i cuori delle donne, Penelope le aveva guardate con due occhi offesi da adolescente incompresa, la zia si prese la briga di spiegarle:

“Amore di zia, sei piccola ma sembri già una donna e sei bellissima, è per questo che ti guardavano”



36.

René non l’aveva guardata, ne era certa. Non si era proprio accorto di lei neanche quando, di proposito, si era vestita di tutto punto, aveva acconciato i capelli e si era anche truccata un po’, non troppo, giusto per sentirsi più carina.
Aveva indossato il vestito che le aveva regalato sua nonna, di seta con inserti in pizzo a contrasto.
Nonna Egeria aveva cercato di aggirare il divieto della madre di Penelope a crearle il corredo regalandole di quando in quando un vestito, una sottoveste o un asciugamano particolare e così aveva, come si suol dire, salvato capra e cavoli.
I fiori corallo e acquamarina si modellavano voluttuosi intorno alle rotondità sode e morbide della sua giovane età mettendo in risalto le labbra carnose, gli occhi vivaci.
Un’eleganza naturale, unita alla goffezza adolescenziale, traspariva dal modo in cui si muoveva, la seta le scivolava morbidamente sul corpo, Penelope riabbassava l’orlo che si era alzato troppo spingendolo in basso con il palmo delle mani.
Le gambe si muovevano incerte su scarpe troppo serie per la sua indole, alternando slanci da valchiria a passetti da geisha.
Il trucco le illuminava il volto ma ne offuscava in qualche modo la gentilezza nei lineamenti.
Aveva convinto Lauretta, che non era mai struccata neanche in casa e si raccontava che subito dopo il travaglio chiedesse sempre uno specchietto per controllare trucco e parrucco, ad insegnarle le arti cosmetiche ma in cambio aveva dovuto fare lo slalom tra le tantissime domande sul motivo di tale richiesta.
Come prevedibile, Lauretta aveva compreso ben prima di iniziare il suo personalissimo, e molto raffinato, interrogatorio, cosa stesse accadendo e dentro di sé gongolava di contentezza.





37.

René aveva deciso di prendere lezioni di flauto traverso, voleva, doveva imparare a suonare o Penelope non lo avrebbe mai neanche degnato di uno sguardo con quegli occhi che gli facevano ribollire il sangue soltanto a pensarci.
Quando l’aveva vista camminare un po’ sghemba con quel vestito addosso il suo unico pensiero era stato come trovare il modo di diventare interessante per lei. Voleva stupirla, intrigarla, farla innamorare di lui e inebriarla come lei lo aveva stregato fino a fargli perdere il sonno.
Non era stato facile addormentarsi dopo aver annusato il suo odore nel frusciare sensuale di quei fiori che scorrevano liberi sulla pelle di lei e che lui avrebbe tanto voluto trattenere tra le sue mani. I capelli e un filo di trucco avevano mostrato lo splendore assoluto degli astri che rilucevano appena sopra le labbra, tenero adito di denti forti e taglienti.
Si sarebbe impegnato senza sosta, avrebbe trovato il modo, la maniera per acquistare quello strumento, suonandolo avrebbe pensato soltanto a lei e gli sarebbe parso di poterla baciare attraverso la boccola dell’argentea testata.
Apollo dionisiaco avrebbe voluto divenire per poterla abbracciare e tenerla stretta a sé per l’eternità.
Aveva sentito Penelope suonare il pianoforte in biblioteca, era bravissima e René non voleva sfigurare.
Ebbe una vertigine immaginandola vestita in quel modo con le mani sulla tastiera bianca e nera, il mondo girava velocemente e lui non aveva intenzione alcuna di scendere.
Decise di costituire un gruppo musicale anche se non sapeva ancora suonare bene. Avrebbe imparato col tempo.
Intanto, si sarebbe fatto crescere i capelli.




38.

“Ciao”
“Ciao, che fai di bello?”
“Sto andando in biblioteca”
“Davvero?”
“Sì, vorrei suonare un po’”
“Ah beh, certo, l’allenamento è importante”
“Sì, dicono che si dovrebbe suonare tutti i giorni”
“Ma non ci si riesce mai, eh?”
“Già, chissà perché”
“Perché suoni sempre in biblioteca?”
“Oh bella, perché lì hanno un pianoforte”
“E tu non ce l’hai un pianoforte?”
“No, ho una tastiera”
“Non è la stessa cosa, certo”
“L’hai notato anche tu? Voglio dire, una cosa è fare gli esercizi sulla tastiera, e va benissimo, ma poi il pianoforte è tutta un’altra sonorità”
“Io sto cercando di mettere su un gruppetto ma è sempre complicato”
“Suoni?”
“Sto imparando, cioè voglio imparare il flauto traverso”
“È uno strumento molto bello, difficile produrre i suoni all’inizio ma una volta che hai capito il meccanismo pare sia splendido, un po’ come il violino, entra in risonanza con il corpo del musicista”
“Ti accompagno se vuoi?”
“Al piano?”
“In biblioteca, devo fare delle ricerche”
“Volentieri”
39.

“Penelope?”
“Dimmi Renato”
“Pensi davvero che imparare a suonare il flauto traverso sia tanto difficile?”
“Più che è altro è abbastanza frustrante all’inizio perché soffi soffi e il suono non esce”
“Ma non è uno strumento musicale?”
“Che richiede molta dedizione”
“Pensi che io sia incostante?”
“No però se debbo essere sincera…”
“Dimmi”
“Non credo che potrai imparare decentemente prima di tre o quattro anni di esercizi costanti”
“Tre o quattro anni è un tempo lunghissimo”
“Insomma”
“Da quanti anni suoni il piano?”
“Ho iniziato a cinque anni”
“Ecco perché sei così brava”
“Veramente non sono brava ma non mi importa perché suonare mi piace e mi rilassa”
“In paese dicono tutti quanti che sei bravissima”
“Qualche tempo fa avrei voluto diventare una pianista, sai?”
“E?”
“E poi ho capito che non sarei mai stata eccellente e mi sarei dovuta accontentare, con molti sforzi, di essere una buona pianista senza arrivare mai ad essere sublime e allora non vale la pena rinunciare alla mia adolescenza per essere abbastanza brava ma non geniale, mi capisci?”
“Penso che ti sottovaluti e poi perché dovresti rinunciare alla tua adolescenza scusa?”
“Perché richiede tanto esercizio, per suonare bene devi farne tantissimo e per essere meravigliosa devi avere talento e fondamentalmente suonare tante ore e senza riposare neanche un giorno.”
“E quindi smetti?”
“No, lo faccio per mio piacere personale”
“Ma puoi sempre mettere su una band”
“Rock?”
“Perché no?”
“Verresti a vedermi suonare?”
“Sarei sempre in prima fila”
“Dai non fare lo scemo”
“Davvero. Comunque…”
“Che c’è?”
“Questo vestito ti sta benissimo”
“Grazie”


40.

“Prendo i libri che mi servono per la ricerca e vengo a sentirti suonare, va bene?”

Penelope non credeva alle sue orecchie, forse il vestito che le aveva regalato Nonna Egeria le stava portando fortuna, non avrebbe saputo dirlo, certamente non si aspettava che René le avrebbe chiesto una cosa del genere.
Sistemò lo sgabello, controllò i tasti e fece attenzione a come si sedeva.
Lauretta le aveva consigliato di portare con sé uno specchietto per ritoccarsi il trucco di quando in quando e diede ascolto alle sue parole.
Estrasse un piccolo beauty case dalla borsa, si pettinò i capelli, umettò le labbra carnose con la punta della lingua, ripassò il rossetto e limò le unghie.
Ripose di fretta lo scrigno di bellezza e tirò fuori gli spartiti che avrebbe voluto studiare quel giorno.
Cambiò rapidamente idea e ne scelse accuratamente uno che le riusciva particolarmente bene ma che voleva perfezionare.
Lo posizionò sul leggio, si scaldò le mani con esercizi, massaggi e respirazioni, e finalmente appoggiò le dita sinuose sui tasti bianchi e neri.
Si immerse nella concentrazione più profonda, cercando di dimenticare che René sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro.
Le note si rincorrevano con grazia e veemenza, le armonie si mescolavano in un suono sempre più puro e nel giro di mezz’ora si radunò in biblioteca una piccola folla di curiosi.
Penelope non si avvide di niente, non si accorse della gente, non voleva neanche sapere se René fosse arrivato o meno. Per lei in quel momento tutto era soltanto espresso in forma di note, bianco e nero si alternavano, crome e semicrome le parvero, forse per la prima volta, le sue più fidate compagne. Suonò con maestria e sentimento, nella sala dove era posizionato il pianoforte non si sentiva neanche il respiro delle persone che si erano là radunate, lei proseguì per un’ora buona senza mai staccare lo sguardo dallo spartito e dalla tastiera.
Alla fine si fermò e guardò in cerca di René ma non fece in tempo ad intercettarne lo sguardo perché venne inondata da un applauso scrosciante.


41.

“Che mi dicevi prima?”
“Prima quando?”
“Quando mi hai detto che non sei tanto brava a suonare”
“Che non so suonare in modo eccellente”
“Ah beh allora tutto il paese è scemo”
“Che c’entra il paese?”
“E anche quel Maestro di musica è scemo”
“Ma che c’entra?”
“C’entra perché penso che noi non siamo scemi e tu sei una gran fifona”
“Fifona io?”
“Sì proprio”
“E di cosa avrei paura sentiamo un po’ che qui abbiamo Mister Coraggio”
“Hai paura di essere brava, più brava degli altri”
“Ah sì eh?”
“Sì e hai pure paura di iscriverti al Conservatorio”
“E perché, di grazia?”
“Perché hai paura che poi non saresti più una di noi ma saresti quella che tutti quanti si fregiano di conoscere perché è una musicista famosa”
“Tu non sai proprio di cosa stai parlando e sai che penso?”
“No, dimmi, che pensi?”
“Penso che tu non capisci niente!”
“E tu non vuoi suonare perché hai paura di quello che dice la gente”
“Non credo proprio sai?”
“E se studiassimo sempre insieme? Tu al piano e io in biblioteca?”
“Cioè?”
“Se invece di stare da sola a studiare il piano ci fossi anche io con te; ammesso e non concesso che te ne importi qualcosa di me”
“Sarebbe bello ma che ti direbbero i tuoi amici?”
“Che mi sono preso una bella cotta per una pianista bravissima”

Senza pensarci oltre la baciò sulla bocca, un bacio semplice, intenso a labbra serrate. Scappò via ridendo, lasciandola imbambolata, mentre diceva “Ci vediamo domani alla stessa ora”.


42.

Penelope si sentiva al settimo cielo, le sembrava di poter camminare sulle nuvole, i fiori sul suo vestito erano ali con cui librarsi in volo fin oltre il sistema solare.
Non soltanto René l’aveva notata ma l’aveva sentita suonare, l’aveva spronata a seguire i suoi sogni, le aveva promesso di studiare con lei e le aveva anche stampato un bel bacio sulla bocca.
Il suo sorriso le era entrato nel cuore come un raggio di arcobaleno e lei sentiva ancora ondate di piacere diffondersi dalla base della schiena fino alle braccia.
Guardò le sue mani e le parvero meravigliose, era come se non le avesse mai viste prima, senza neanche accorgersene tornò a casa di corsa.
Sua madre non le disse niente ma la guardò con un orgoglio malcelato dietro un burbero rimprovero per i capelli spettinati.
La notizia che in paese c’era una pianista giovanissima e piuttosto talentuosa era trapelata ben oltre i confini territoriali del paese ed era giunta alle orecchie allenate di Nonna Egeria prima ancora di varcare le mura della biblioteca.
Penelope si specchiò e si accorse di essere donna, giovanissima ma decisamente una donna e tale consapevolezza di sé le provocò una strana vertigine.


43.

Lauretta era su di giri, aveva saputo da fonti certissime che un talent scout o qualcosa del genere sarebbe passato casualmente in biblioteca un pomeriggio ed era riuscita a convincere Nonna Egeria a far confezionare un abito come si deve alla giovane Penelope.
Non le aveva spiegato il motivo ma le aveva fatto capire che forse stavolta Bea, la madre della talentuosa pianista, sarebbe stata troppo impegnata a crogiolarsi nell’orgoglio materno per sollevare obiezioni sulla questione del corredo.
Avevano trovato una seta splendida, morbida e luminosa, con una fantasia perfetta per la giovinetta e Lauretta si era industriata a cercare un cartamodello che potesse fare al caso loro, avrebbe dovuto mettere in risalto il volto di Penelope, le sue mani agili, i fianchi e i seni acerbe rotondità che si stagliavano su lunghe gambe allenate.
Erano riuscite nell’intento e quando Nonna Egeria portò il vestito Mamma Bea non oppose alcuna resistenza anzi era più che contenta.

“Meno male che ci hai pensato tu non sapevo più che fare”
“Perché, che è successo?”
“Ah, io non lo so, figurati se mi dice qualcosa ma l’altro giorno è tornata correndo, sembrava che fosse felicissima e il giorno dopo è arrivata con un muso lungo ma così tanto che rischiava di inciamparci sopra.”
“E come mai?”
“Mah dice che non ha niente da mettere… ha l’armadio stracolmo ma dice strane cose sul vestito che le hai regalato, pensa che le abbia portato fortuna e che adesso non sa più che indossare e… beh ci siamo passate tutte quante dai”
“Speriamo le piaccia…”
“Fammi vedere”
“Eccolo”
“Ma è splendido e dove l’hai trovata una seta del genere?”
“L’ho trovata”
“Hai fatto benissimo”


44.

Non sapeva nemmeno lui chi gli avesse dato il coraggio di baciarla ma l’aveva fatto ed era stato bellissimo.
Le labbra di Penelope erano molto più carnose e morbide e turgide di quanto avesse immaginato e lei era semplicemente fantastica.
René aveva deciso di riporre l’idea di imparare a suonare il flauto traverso in un lontano cassetto di desideri da realizzare forse un giorno, avrebbe soltanto fatto la figura dello scemo e ormai ne era certo: a Penelope lui piaceva.
Si era anche accorta del cambiamento nella capigliatura e lo aveva fatto parlare.
Se gli avessero chiesto dove avesse trovato il coraggio di dirle tutte quelle parole, davvero, non avrebbe saputo cosa rispondere.
Forse aveva esagerato ma qualcuno avrebbe dovuto spronarla, incoraggiarla, farle capire che è speciale, non soltanto ai suoi occhi.
Sentiva di aver fatto la cosa giusta.
Sua madre, vedendolo arrivare tanto emozionato, si era preoccupata lì per lì ma l’aveva lasciato libero di sprizzare gioia da tutti i pori e si era limitata a chiedergli se avesse voglia di acquistare qualcosa di nuovo da indossare o magari un profumo.
Un profumo era una di quelle cose cui non aveva mai pensato, stava forse diventando grande?


45.

L’idea del profumo gli era piaciuta molto.
Era uscito, aveva fatto il giro di profumerie, erboristerie e supermercati comparando prezzi e aromi e gli era venuto soltanto un forte mal di testa.
Non era riuscito a trovare niente di niente che, a suo avviso, sarebbe potuto piacere a Penelope.
Si concentrò dunque su qualche dettaglio unico, qualcosa che lei avrebbe certamente notato.
Entrò in tutti i negozi di abbigliamento del paese e, anche lì, non riuscì a trovare qualcosa che facesse alla bisogna.
Ad un primo momento di frustrazione si alternò uno scoramento quindi un’arrabbiatura rumorosa e infine la risoluta determinazione a risolvere altrimenti la questione.
Cosa avrebbe fatto?
Semplice, avrebbe chiesto a Lauretta.
Lei avrebbe saputo sicuramente escogitare una qualche soluzione anche se avrebbe dovuto trovare il modo di chiederle consiglio senza dare troppe spiegazioni.
No, anche quella era un’idea balzana.
Avrebbe domandato a sua nonna, la sartora.


46.

“Nonna?”
“Dimmi René, che c’è?”
“Senti, posso farti una domanda?”
“Certo basta che sia veloce ché devo consegnare un po’ di vestiti e ho il laboratorio tutto sossopra”
“Se vuoi posso aiutarti nel frattempo”
“Ma che idea carina e che vorresti fare nel laboratorio?”
“Non lo so, dimmi tu”
“Oh bella, guarda lì, li vedi quei cartamodelli?”
“I fogli di carta velina?”
“Sì quelli, ecco vedi se riesci a trovare il verso e mettili tutti a posto in quella cesta per favore”
“Non è difficile trovare il verso, basta capire qual è il capo e quale il piede”
“Oh, bella, tua madre non è mai riuscita a trovarlo quel verso”
“Davvero?”
“Ti risulta che sappia tenere in mano un ago?”
“Veramente… no”
“Ecco appunto”
“Senti, a me sembra che siano a verso così”
“E infatti lo sono. Come hai fatto?”
“Ho visto qual era il capo e qual era il piede e li ho messi a posto”
“Hai trovato subito il verso…”
“Sì, che c’è di difficile?”
“Oh bella è tutto lì, vedi, qualunque sia la fanciulla che ti fa palpitare il cuore, ehm scusa scusa, la questione che ti preme tanto, ecco, ogni persona e ogni cosa ha il suo verso, come i cartamodelli e la stoffa. Ecco vedi quella pezza di stoffa? Se dovessi tagliarla come faresti?”
“Penso che cercherei il punto in cui non si sfilaccia e si taglia meglio”
“Oh bella, la taglieresti per il suo verso”
“Penso di sì perché?”
“Perché tu da domani vieni a bottega da me, sei bravo. Comunque, se sai capire una stoffa guardandola appena, saprai anche capire quello che ti preme. A proposito, sarà mica la pianista di cui parla tutto il paese?”
“Nonna!”
“Oh bella e che ho chiesto?”


47.

I talent scout erano arrivati, avevano cercato, invano ovviamente, di camuffarsi tra i paesani che, sempre più numerosi, si radunavano ad ascoltare la giovane pianista.
Nonna Egeria le aveva miracolosamente fatto giungere il vestito nuovo e l’aveva baciata sulla fronte, quasi a volerle stampigliare una bella stella d’amore.
Penelope si sentiva agitata ma in suo soccorso arrivò René che la guardò estasiato, le pupille di lei si spostarono verso il basso a schivare il rossore che le stava invadendo le gote.

“Che bello questo vestito, Nonna Egeria?”
“Sì, s’è sbizzarrita”
“Me l’ha detto mia nonna”
“La sartora? Avrei dovuto immaginarlo”
“Vuole che vada a bottega da lei sai?”
“A bottega?
“Sì per imparare il mestiere”
“E il flauto traverso?”
“Non fa per me”
“Ma non era un tuo sogno?”
“Posso confidarti un segreto?”
“Penso proprio di sì”
“Mi prometti che non riderai di me?”
“Dimmi”
“Promettimelo”
“Prometto che non riderò di te”
“Volevo studiare flauto traverso per far colpo su di te: sembra che la musica sia la tua passione e ho pensato che mi avresti notato ma forse potrei piacerti anche come sartore, che dici?”


48.

“Hai riso! Ecco, vedi, non avrei dovuto dirtelo, sono stato un cretino e adesso tu penserai che..”
“Io penso che ho fatto di tutto per farmi notare da te ed ero convinta che tu non ti fossi mai neanche accorto di me…”
“Ah sì?”
“Che scemi eh?”
“Parecchio… adesso andiamo però… ho la sensazione che qualcuno sia venuto a vederti oggi, o almeno così si vocifera in paese”
“Chi sarebbe questo qualcuno?”
“Un paio di talent scout pare”
“Per cosa?”
“Non lo so però in giro si dice questo”
“Per me?”
“Se vuoi posso provare ad intrattenerli col flauto traverso ma….”
“Ma se non hai neanche il flauto!”
“Già, penso sia il caso che li incanti tu”

Odiava quel suo modo di fare, quella sua insostenibile languidezza quasi a dirle che lei ce l’avrebbe fatta, senza ombra di dubbio.
Ne era innamorata, di questo era più che certa ma non era convinta di poter davvero ammaliare qualche talent scout.
Penelope era piuttosto dubbiosa sulla sua effettiva capacità e possibilità di riuscire davvero bene in qualcosa però non voleva fare la figura della scema, avvicinò la sua mano a quella di René, respirò forte, alzò il mento e disse: “Andiamo”


49.

Penelope sentiva una tenaglia di tensione stritolarle lo stomaco, la pancia irrigidita in una smorfia spasmodica, nella sala della biblioteca si respiravano onde di aspettativa.
Guardò lo spartito per non respirare le paure e le speranze di tutte quelle persone che le volevano bene, l’avevano vista camminare sul passeggino e sbucciarsi le ginocchia, che avevano lottato nella loro vita per ottenere quello che potevano e che adesso vedevano in lei il realizzarsi di quei sogni che avevano riposto da qualche parte, per la giusta occasione.
Si concentrò sullo spartito e suonò come mai aveva fatto prima.
Nella biblioteca tutti quanti trattennero il fiato e poi esplosero in un applauso di felicità.
René le rivolse uno sguardo colmo di orgoglio, gli occhi inumiditi dall’emozione.


50.

I talent scout si avvicinarono a Penelope, le chiesero se le sarebbe piaciuto approfondire lo studio del pianoforte ed eventualmente, se tutto fosse andato bene, andare all’estero per tentare la strada di un prestigioso collegio musicale.
Penelope guardò René e tutte le persone che erano lì.

“Mi piacerebbe studiare il pianoforte ma”
“Ma?”
“Ma non andare via dal mio paese”
“Eppure ci sono molte opportunità all’estero che qui non ci sono”
“Non lo so, però so che non voglio lasciare la mia famiglia e il mio paese”
“È sicura di quello che dice? Magari, col tempo, potrebbe cambiare idea”

René capì e si intromise nel discorso senza neanche sapere a che titolo.

“Questa scuola di cui parlate dov’è?”
“A New York”, rispose uno di loro
“Negli Stati Uniti?”, chiese René sentendosi perduto
“Già”, rispose Penelope abbassando lo sguardo sconfortata
“E come si chiama?”, si informò René
“Juilliard, è la più importante scuola di musica del mondo”, spiegò l’altro talent scout.
“Grazie, potreste aspettare qualche giorno?”, domandò René
“Non abbiamo fretta”



51.

“René non ci penso proprio”
“E invece dovresti pensarci, sai?”
“Senti, mi dispiace deluderti ma io non sono fatta per andarmene in giro di qua e di là”
“Non devi andare in giro di qua e di là devi soltanto andare a scuola e studiare pianoforte”
“In una città grande e caotica come New York poi”
“Chiunque vorrebbe andarci”
“Io non sono chiunque”
“È la grande opportunità della tua vita e io lavorerò tutte le estati per mettere i soldi da parte per venire a trovarti”
“Non lo farai”
“Sì sei tu che non vorrai più vedere un sartore e ti vergognerai di me”
“Ecco, lo vedi, saremmo tutti quanti infelici”
“Penelope, senti, questa è una cosa importante, forse bisognerebbe parlarne con qualcuno che sappia consigliarti bene”
“René io non so cosa vi aspettiate tutti quanti da me: io sono soltanto una ragazzina e ho il diritto di vivere la mia adolescenza come chiunque altro”
“Tu non sei né chiunque né chiunque altro, sei Penelope e hai un grandissimo talento, fattene una ragione!”
“E a te non importa proprio niente di me?”
“Certo che mi importa e non capisco per quale motivo ti ostini a non capire che sei una persona particolare”
“E io non voglio essere particolare io voglio essere Penelope e basta!”
“Penelope è particolare ed è anche piuttosto pavida a quanto pare”
“E di che cosa avrei paura sentiamo?”
“Di essere brava per davvero”


52.

La Juillard School era molto di più di quanto avesse immaginato.
Penelope ebbe un senso di vertigine.
Forse quello che le aveva detto René era giusto ma lei non si sentiva una vigliacca. Non aveva paura e sapeva di non voler trascorrere la sua adolescenza in bianco e nero, ossessionata dalla tastiera di ebano e avorio, in una città sconosciuta, lontana dai suoi amici, dai suoi parenti, da quel paese che le andava stretto come un vestito troppo attillato ma che per lei era tutto ciò che conosceva.
Abbandonare quei ciottoli, la piazzetta e anche la sala angusta e un po’ scalcinata della biblioteca le sembrava impossibile.
Tra quelle strade e stradette si sentiva protetta, a suo agio.
Sapeva, in cuor suo, che non avrebbe più provato quella sensazione di familiarità e, paradossalmente, di libertà se fosse andata in una metropoli tanto poco a misura d’uomo dall’altra parte dell’oceano dove si parlava una lingua straniera e non avrebbe saputo dire cosa era giusto e cosa sbagliato. Non avrebbe potuto chiedere l’opinione di sua nonna, sarebbe stata una persona tra le tante in una moltitudine gremita di respiri e aspirazioni.
Nessuno l’avrebbe guardata male se si fosse comportata in modo assurdo e forse nessuno se ne sarebbe proprio avveduto.
Le voci che tanto ben conosceva sarebbero sparite in un fluttuare incerto di ricordi sfocati e tutto questo le sembrava insensato.
No, René aveva torto.
Forse era pavida, come le aveva detto, ma le sue paure riguardavano la sua vita.
Che ne sapeva lui del sentimento di solitudine che ti avvolge la gola quando i tuoi genitori stanno facendo una miriade di sacrifici per farti studiare e tu non li vuoi deludere e fai di tutto per far capire loro che non c’è proprio niente per cui affannarsi, tanto la musica è soltanto una passione passeggera, qualcosa che non è importante ma hai la consapevolezza di essere bravissima e sai che prima o poi dovrai partire, andar via, lasciare tutto quello che conosci e magari, ad un certo punto, deludere le aspettative di chi ha tanto creduto in te?
Niente ne sapeva, ecco!
Le lacrime le sgorgarono senza far rumore e Penelope singhiozzò tutta la notte con la faccia immersa nel cuscino per non farsi sentire, per non destare preoccupazione.
53.

Forse aveva esagerato, adesso Penelope l’avrebbe odiato e avrebbe pensato che era un tonto, uno scemo, uno che non capisce niente e che si intromette in questioni che non lo riguardano, un impiccione senza arte né parte.
Arrivò da sua nonna con una faccia lugubre e la voglia di sbattere la testa contro il muro.

“Che c’è Renatino, sta’ attento che tra un po’ ci inciampi in quel muso sai?”
“No no niente”
“Oh bella e che la vuoi dare a bere a me che t’ho visto attaccato al seno di tua madre?”
“Nonna dai ti ho detto che non ho niente e vuol dire che non ho niente no?”
“È per via della pianista”
“No! Ma che c’entra?”
“Sono venuti quelli a vederla e tu?”
“Dicono che è brava”
“Oh bella questo lo sapevi anche te no?”
“Sì ma pare che sia piuttosto brava, cioè parecchio”
“E?”
“E vogliono farla studiare a New York, in America”
“A New York?”
“Già”
“E tu non vuoi”
“No, è lei che non vuole e io l’ho presa per il verso sbagliato e le ho detto che ha paura di essere brava per davvero e invece sono stato stupido”
“Ma perché, lei che dice?”
“Dice che fuori dal paese si sentirebbe perduta, che non vuole rinunciare alla sua adolescenza e tutte queste scemenze qui”
“Oh bella non mi sembrano proprio scemenze e tu che hai fatto?”
“Ho detto a quei tizi di aspettare qualche giorno perché forse lei ci avrebbe ripensato e poi le ho detto che è una pavida”
“Proprio così le hai detto? Pavida?”
“Sì”
“Oh bella, è una parola un po’ demodé…comunque, hai fatto bene a temporeggiare con quelli lì, adesso ti aiuta nonna tua, tu intanto impara a mettere i bottoni e stai a bottega ché io devo fare un po’ di giri, se viene qualcuno dici di aspettarmi che torno subito, va bene?”


54.

“Nonna sei riuscita a sapere qualcosa?”
“Oh bella, direi proprio di sì, è venuto qualcuno a bottega?”
“Sì ti hanno lasciato un paio di buste con delle riparazioni da fare e una con un acconto in denaro per il vestito della “
“Ah sì bene bene. Ascolta”
“Dimmi”
“A quanto pare la tua pianista è davvero brava”
“E questo l’avevo capito da me”
“Oh bella ma lo è parecchio”
“E anche questo lo avevo capito da me”
“Vabbè, comunque pare che la scuola di New York che le hanno proposto sia”
“Una delle migliori al mondo, questo lo so Nonna”
“Oh bella, dicono che sia sempre al primo posto”
“Nonna questo lo so già”
“Vabbè, comunque pare che se venisse ammessa in quella scuola potrebbe studiare dappertutto”
“Anche in paese?”
“Volendo ma non è la stessa cosa”
“E questo lo immaginavo”
“Oh bella vuoi che studi alla banda comunale?”
“Insomma?”
“Insomma pare che”
“Che?”
“Oh bella mi lasci parlare? E fammi bere anche un goccetto d’acqua ché ho una sete!”
“Nonna l’acqua nella bottiglia dell’acquavite è finita”
“Ah sì? Oh bella anche quella nella bottiglia della grappa?”
“Sì ma se vuoi ho quella normale”
“Oh bella, e sia, dammene un bicchiere, non mi farà venire la ruggine, spero”


55.

Renato era uscito dalla bottega della nonna sartora con gli occhi illuminati da una felicità indicibile. Doveva assolutamente dirlo a Penelope, doveva vederla, incontrarla, farle capire che c’è sempre una soluzione, anche quando sembra che non ci siano scelte né alternative.
Corse verso casa sua, suonò il campanello, gli rispose sua madre e le disse che non era in casa.
Forse era in biblioteca?
René corse cercando di darsi un contegno.
Attraversò le stradine con uno strano presentimento, non sentiva la musica diffondersi nel borgo.
Salì gli scalini dell’adito principale a due a due, poi scese giù quasi scapicollandosi verso la sala col pianoforte.
Penelope non c’era.
René fu preso dallo sconforto.
Tornò verso la sua casa e chiese alla madre di entrare, lei lo guardò con aria imbarazzata e gli aprì il portone.
Penelope era in casa, gli occhi rossi, cerchiati di lacrimoni, il pigiama sgualcito, i capelli arruffati.
René si guardò intorno, istupidito.
Accettò volentieri un succo di frutta e un bicchiere d’acqua.


56.

“Penelope, senti, forse non è il momento, forse ho sbagliato a venire”
“No, figurati, è che ho passato una nottataccia”
“Hai pensato a quello che ti hanno detto?”
“Sì e forse hai ragione tu, un’occasione del genere capita soltanto una volta nella vita e sarei un’imbecille a rifiutare”
“Non sei un’imbecille, sei una persona con la testa sulle spalle”
“Sì, beh, forse”
“Penelope, ascolta: sei molto brava e puoi raggiungere i tuoi sogni ma New York è tanto lontana e pare che ci potrebbe essere una alternativa, sai?”
“Che alternativa?”
“Però dovresti studiare tutti i giorni e non sgarrare”
“Cioè cosa?”
“Potresti iscriverti al conservatorio e d’estate frequentare la summer school del Berklee College a Perugia, all’interno di Umbria Jazz, ne hai mai sentito parlare?”
“No, cos’è?”
“Umbria Jazz?”
“No, questa cosa del Berklee College”
“In estate fanno una specializzazione, una specie di corsi, non so bene poi dovresti informarti meglio, di questa università, college che è considerato tra i migliori del mondo, così potresti studiare senza dovertene andare, che ne pensi?”
“Penso che sarebbe bellissimo!”





57.

“Dalla faccia soddisfatta direi che ha accettato il suggerimento”
“Infatti l’ha accettato, grazie Nonna”
“Raccontami tutto per filo e per segno”
“Va bene ma prima voglio prepararle un portafortuna”
“Un portafortuna?”
“Sì, qualcosa che possa indossare quando andrà a parlare coi talent scout”
“Oh bella, lo vedi che hai talento?”
“Perché?”
“Oh bella perché hai già capito che quando un artigiano mette le mani sulla materia che utilizza, sta modellando un universo di sogni”
“Nonna non pensavo fossi una poetessa”
“Oh bella e che credi che gli artigiani non sappiano pensare?”
“Che c’entra?”
“Oh bella mi pare logico”
“Che c’è di logico?”
“L’hai capito da te”
“Cosa ho capito da me?”
“Oh bella, come pensi di farle il portafortuna?”
“Con bottoni e stoffa”
“Prendi i bottoni e la stoffa e glieli porti così?”
“No, li voglio modellare a forma di fiore”
“E perché?”
“Perché un fiore è bello come lei e va coltivato come il suo talento ma è di stoffa quindi rimarrà sempre con lei”
“Oh bella, lo vedi che hai capito?”
58.

Penelope si sentiva leggera e felice, René aveva trovato una soluzione e lei non avrebbe dovuto andar via dal suo paese pur continuando a cercare di realizzare le sue aspirazioni.
Il giorno dell’incontro con i talent scout era arrivato, respirò profondamente, indossò un vestito ornato da un pizzo chiacchierino, adornò i capelli con il fermaglio regalatole da sua nonna per il compleanno, raccolse le sue aspirazioni tra gli spartiti affastellati nella cartellina.
In quel momento avrebbe voluto davvero che René fosse lì a stringerle la mano ma doveva andare a bottega dalla nonna sartora quel pomeriggio e certamente non avrebbe pensato a lei.
Il sorriso le attraversò il volto di ragazzina da un orecchio all’altro quando lo vide arrivare con un fiore di stoffa e bottoni cucito appositamente per lei.

“È la mia prima creazione sartoriale, spero che ti porterà fortuna”
“Come sai dove sto andando?”
“Lo so”
“Mi fa piacere che tu sia qui”
“Non potevo mancare, non credi?”
“Giusto”
“Ti senti pronta?”
“Sì”
“Ti fa piacere se vengo con te?”
“Sì”
“Andiamo”
“Andiamo”



59.

Arrivarono in biblioteca, Penelope si appuntò il fiore sul vestito, accanto al cuore. Sembrava animato dal vento mentre il suo giovane petto danzava al ritmo del respiro, a volte lento, altre agitato.

“Buongiorno, grazie per aver avuto tanta pazienza”
“Buongiorno, è un piacere avere a che fare con persone che, seppur giovani, amano ponderare le proprie scelte, così evitiamo pericolosi quanto onerosi colpi di testa e ripensamenti successivi”
“Ho pensato a quello che mi avete detto e l’opportunità che mi offrite è molto più di quanto avessi mai immaginato nei più spericolati sogni ad occhi aperti”
“La Juillard School è effettivamente molto prestigiosa”
“Sì, lo è”
“Dunque ha deciso di accettare?”
“Io vorrei chiedervi di prendere in considerazione una specie di controproposta”
“Vuole declinare l’offerta?”
“Non ho detto questo”
“Quindi?”

Il fiore sul petto di Penelope sembrava sbatacchiato da un tempestoso temporale estivo.

“Vorrei chiedervi la cortesia di prendere in considerazione un’alternativa che potrebbe permettermi di avere la serenità necessaria per continuare a studiare senza dovermi allontanare dai luoghi e dalle persone che per me sono tanto importanti, vitali, direi, per la mia stessa ispirazione. Le persone che non vorrò deludere e che sanno spronarmi quando è necessario, e talvolta, credetemi, i tasti sembrano le ali spiegate di un’upupa che si crogiola sotto i raggi solari ma altre volte buie feritoie”
“La Juillard non si può trasferire qui e non possiamo trasferire tutto il paese a New York”
“Oh lo so benissimo e non è questo quello che vi chiedo”
“Sentiamo”
60.

Penelope spiegò per filo e per segno quello che aveva elaborato e i talent scout rimasero piuttosto impressionati.
Sembravano piccati all’inizio ma poi sembrarono ammorbidirsi e comprendere che forse la soluzione proposta sarebbe stata un buon compromesso, qualcosa che avrebbe, come usa dire, salvato capra e cavoli.

“Lei ha molto talento e sembra anche avere la testa sulle spalle, probabilmente ciò che pensa di fare adesso potrebbe essere la soluzione più adatta a lei.”
“Grazie, New York è una città immensa e io temo di perdermi tra i suoi viali”
“Questo è probabile anche se le possibilità che avrebbe lì sono decisamente superiori a quelle che potrebbe ottenere rimanendo qui. La visibilità, le occasioni, le connessioni e le conoscenze sono fondamentali per costruire una carriera”
“Anche il mio equilibrio lo è”
“È vero, lei è molto giovane e potrebbe effettivamente trovarsi molto male in una realtà tanto competitiva quale è quella newyorkese”
“A me non piace competere, mi piace fare insieme agli altri”
“Sì, beh, ecco, New York e la Juillard le permetterebbero certamente di avere molte più possibilità di incontrare quegli ‘altri’ con cui potrebbe costituire gruppi o trovarsi a suo agio, tra persone che la pensano nello stesso modo.”
“Sentite, io non conosco New York ma…”
“Ecco, infatti lei non si rende forse conto che è una città vibrante di vitalità, in perenne fermento culturale, dove una ragazzina potrebbe trovare una sua collocazione permanente”
“Posso farvi una domanda?”
“Certo”
“Se io dovessi trovare una collocazione permanente negli Stati Uniti non tornerei più qui? La mia famiglia dovrebbe scegliere se seguirmi o non vedermi per molto tempo, giusto?”
“Sì però potrebbe arrivare a guadagnare cifre tali per cui spostarsi da un continente all’altro Le sembrerebbe semplicissimo, ovvio quasi”
“Ecco però i soldi non si mangiano, non si respirano, non si guardano dalla finestra. Vedete quel paesaggio? Io non mi sento a casa se non vedo il profilo di quei monti all’orizzonte”
“Bene, la sua è sicuramente la scelta migliore per lei. La seguiremo e cercheremo di indirizzarla il più possibile.”
“Grazie”
“Buona fortuna e complimenti per il fiore, è molto bello, come lei e va coltivato, come il suo talento”


61.

“È andata”
“Che ti hanno detto?”
“Che mi avrebbero seguita e indirizzata per quanto possibile ma che, fondamentalmente, starei sprecando la più grande opportunità della mia vita”
“Tu che vuoi fare?”
“René io lontana dal paese mi sento un pesce fuor d’acqua”
“Tutto il mondo è paese”
“Mah”
“Che fai adesso, piangi?”
“È la tensione”
“Ma allora non sei felice della tua scelta?”
“René non dire cretinate e abbracciami forte”
“Se ti abbraccio mi viene voglia di baciarti… sei così bella”
“Anche coi lacrimoni”
“Anche coi capelli arruffati”
“Sai che mi hanno fatto i complimenti per il fiore?”
“Davvero?”
“Sì, mi hanno detto che è bello come me e che va coltivato come il mio talento”


62.

“Renatino che hai fatto oggi? Com’è che non sei venuto a bottega? Hai accompagnato la pianista?”
“Nonna, non ti si può nascondere niente eh”
“Oh bella, il fiore qui non c’è sicché…”
“Sai che le hanno detto?”
“Della sua scelta o del fiore?”
“Del fiore”
“Che è bello come lei e che è come il suo talento?”
“Nonna ma come fai a sapere tutto?”
“Oh bella perché sì. Della sua scelta che hanno detto?”
“Che sta sprecando un’opportunità rarissima e che comunque la seguiranno”
“Sai che ti dico Renatino?”
“Che?”
“Questi talent scout sono bravi a capire i talenti e tu sei proprio bravo”
“Perché?”
“Oh bella, se con la prima creazione che hai fatto sei già riuscito a comunicare le tue intenzioni vuol dire che sai fare le cose a verso.”
“E quindi?”
“Oh bella, per il momento vieni a bottega ad imparare il mestiere, vediamo se davvero hai talento e nel frattempo cerchiamo di capire se c’è qualche modo di mandarti in una scuola o in una sartoria d’eccellenza”
“Nonna ma che dici?”
“Oh bella ma che pensi che soltanto gli artisti hanno arte? E gli artigiani? Sai che sarebbe questo bel Paese senza artigiani? Un luogo come ce ne sono tanti e invece è meraviglioso e sai perché?”
“Perché ci sono stati grandi artisti”
“Oh bella e pensi che siano usciti dal cilindro come i conigli del mago? No, sono quelli che hanno imparato l’arte meglio degli altri e che avevano un talento speciale, unico. Sono artigiani eccellenti ecco cosa”
“Non esagerare nonna”
“Oh bella, non esagero? Ma senti, Michelangelo lavorava con lo scalpello e lo scalpello che cos’è? Uno strumento di lavoro artigiano. Prima c’erano i mastri, le maestranze e poi c’erano gli artisti e i geni assoluti ma come hanno detto quelli? Il talento va coltivato e va pure fatto crescere nell’ambiente giusto ché se metti il seme del fiore più bello nel freezer quello non germoglia”



63.

René continuò ad andare a bottega e tutti i giorni aspettava l’ora in cui Penelope sarebbe andata in biblioteca a suonare con il cuore che gli palpitava in petto come la grancassa della banda comunale. Più lei si esercitava a suonare, più lui si impegnava ad imparare il mestiere del sarto.
Punti, sottopunti, asole, aghi, fili e bottoni erano diventati i suoi amici più fidati.
La nonna lo spronava e gli insegnava l’arte come l’avevano insegnata a lei, facendo e rifacendo per giornate intere le stesse cose. Renatino non sembrava annoiarsi, ci si metteva di buzzo buono. Ogni settimana imparava qualcosa di nuovo e andava avanti, con costanza e perseveranza. Studiare gli piaceva ma quello che lo interessava davvero era la storia, non quella delle battaglie ma quella delle persone. Cercava di capire come si vestivano nelle varie epoche e ricordava tutto partendo da un particolare, una tunica o un’uniforme.
Quando andava in biblioteca ad ascoltare Penelope aveva preso l’abitudine di studiare alcuni tomi sulla storia del costume. Lo interessavano al punto che talvolta si immergeva nella lettura e quasi dimenticava di ascoltare la sua bella.
Un giorno Penelope smise di suonare all’improvviso, c’erano soltanto loro due nella sala e lui non alzò lo sguardo dal libro.
Stava copiando alcuni dettagli di un vestito su un quaderno.
I pastelli riproponevano i colori e lui cancellava tutto fino a che non trovava la giusta corrispondenza di tonalità e sfumature.
Lei si incantò a guardarlo.


64.

“Cosa fai?”
“Scusa, non mi ero accorto che avessi smesso di suonare io…”
“Sei molto bravo, sai?”
“Ma ti stavo ascoltando sai?”
“Non sono offesa”
“No?”
“No”
“Davvero?”
“Sì davvero, dai dimmi che cosa stai facendo”
“Sto copiando i dettagli di alcuni vestiti che mi piacciono e poi a bottega provo a riprodurli”
“Provi a riprodurre i vestiti?”
“No, soltanto i dettagli”
“Perché?”
“Sto imparando punti e sottopunti, le tecniche di base, insomma”
“Un po’ come il solfeggio?”
“Penso di sì”
“E quindi?”
“Ecco, i punti non sono tutti uguali sai? Ce ne sono tantissimi e nel tempo sono cambiati, alcune conoscenze sono andate perdute, altre si sono affinate, anche in base al tipo di aghi e di strumenti per lavorare gli utensili necessari a cucire. Una cosa è un ago di osso, un’altra uno di acciaio, una cosa è un ago fatto a mano e un'altra un ago sottilissimo creato da un apparecchio industriale. La cosa strana è che ci sono alcuni stili in cui i fili sono talmente sottili che adesso non si trovano più perché nessuno sa più come fare a produrli e quindi certi punti non si possono più fare, capisci?”
“Sì è esattamente come per gli strumenti musicali”
“Cioè?”
“Il pianoforte, ad esempio, è relativamente recente e i suoni che riesci ad ottenere con un piano di oggi sono molto diversi da quelli, che so, di una spinetta. Per cui gli spartiti vengono sempre reinterpretati più che eseguiti alla lettera perché per ottenere il suono originale ci sarebbe bisogno degli strumenti per cui è stato pensato e all’orecchio del pubblico di oggi sembrerebbe forse sgradevole, quasi stonato”
“Ecco, sì qualcosa del genere anche se, ecco vedi? Questo è pizzo di Burano del 1700 e questo è il fazzoletto con la N di Napoleone, guarda che perfezione, c’è un quadro all’interno, ricamato con filo sottilissimo, oggi non si potrebbe più fare perché il filo così sottile non esiste più, non si trova e non ci sono le persone in grado di ‘filarlo’, ma il pizzo in sé è di una bellezza sconvolgente.”


65.

“René ho un presentimento”
“Buono o cattivo?”
“Non lo so”
“Vuoi parlarmene?”
“Non lo so”
“Uhm sei misteriosa oggi, eh?”
“Prometti che non mi prenderai in giro per quello che ti dirò?”
“Prometto che non ti prenderò in giro”
“Per quello che ti dirò”
“Per quello che mi dirai”
“No, lo devi dire tutto insieme”
“Prometto che non ti prenderò in giro per quello che mi dirai. Va bene?”
“Va bene”
“Qual è questo presentimento?”
“Sai quando mi hanno proposto di andare a New York?”
“Non potrei certo dimenticarmene”
“Ecco, io penso che..”
“Che?”
“Che forse sarai tu a partire”
“Per andare dove scusa?”
“A crearti la tua strada”
“Perché, non mi vuoi più vedere?”
“Non ho detto questo”
“Sei ancora arrabbiata perché hai pensato che non ti stessi ascoltando”
“Non sono mai stata arrabbiata per quello anzi”
“Noooo”
“Davvero”
“Uhm”
“Il fatto è che forse la sartora ha ragione e ha visto lungo a metterti subito a bottega”
“Ma dai; sto soltanto imparando un mestiere”


66.

Penelope l’aveva presa alla larga, si era informata con discrezione e aveva cercato di capire se effettivamente René fosse bravo a cucire come le era sembrato.
In paese si diceva che la sartora dedicasse parecchio tempo a lui e, conoscendone il carattere schietto e burbero, non c’era da temere il contrario: non avrebbe mai perso tutte quelle ore con Renato se non ne fosse valsa la pena.
Oltretutto, non si era mai sentito neanche un urlo, un grido o una parola storta, cosa alquanto insolita. Tutte le persone che avevano provato ad andare a bottega da lei erano scappate a gambe levate, talvolta anche in lacrime, perché era fatta a modo suo e non sopportava insegnare a chi non aveva voglia di imparare o capacità di farlo.
Con René non gridava nemmeno quelle rarissime volte in cui arrivava in ritardo.
Probabilmente aveva una speciale predilezione per lui o forse ne aveva intuito le capacità, compreso le potenzialità e lo stava covando come una chioccia.


67.

“René ti sfido”
“Mi sfidi a fare che?”
“Voglio commissionarti un abito, ti va di cucirlo?”
“Non lo so ancora fare ma ti prenderei molto volentieri le misure”
“Ah beh, se non lo sai ancora fare…”
“Ma le misure posso prendertele, fidati”
“Che peccato”
“Perché?”
“Mi serviva proprio”
“Che devi fare?”
“Forse posso partecipare ad un concerto e volevo vestirmi in modo speciale”
“Te l’hanno proposto i talent scout?”
“Come fai a saperlo?”
“Pare che siano passati da queste parti ultimamente”
“Il taglia e cuci l’hai imparato bene vedo”
“Che c’entra?”
“Allora, me lo fai questo vestito sì o no?”
“Ti ho detto che non sono ancora capace”
“E impari, io voglio indossare un abito cucito da te”
“Devo chiederlo a nonna”
“Quando me lo fai sapere?”
“Domani va bene?”
“Va bene”


68.

“Nonna?”
“Che c’è Renato, t’ha mozzicato la tarantola?”
“No, perché?”
“Oh bella, sembri intimorito e che mi devi chiedere mai?”
“Ma niente, lascia perdere”
“Oh Renatino, non ti sarai mica messo in qualche casino?”
“Ma che dici nonna, no il fatto è che?”
“Oh bella ma te l’hanno mangiata quella lingua? Non aver tema”
“Sai Penelope?”
“La pianista?”
“Eh, sì, la pianista”
“Beh?”
“Forse dovrà partecipare ad un concerto”
“Oh bella, e mi chiedevo che cosa fossero venuti a fare quei due”
“Ecco, vedi, lei mi ha chiesto”
“Di accompagnarla, ma va bene, e che problema c’è?”
“No, mi ha chiesto”
“Oh bella ma vuoi parlare o ti devo tirar fuori le parole con la tenaglia?”
“Di confezionarle un abito”
“Oh bella hai già le prime clienti. E sia, facciamo così, le prepareremo insieme una tunichina semplicissima e tu la decorerai, va bene?”
“Grazie nonna”


69.

La sartora aveva chiesto a Lauretta di andare a prendere le misure della pianista per non destare troppi sospetti con la madre di Penelope e per evitare inutili pettegolezzi. S’era espressa chiaramente, i due ragazzini si volevano bene, lei dal canto suo non era poi così contraria ma neanche troppo d’accordo.

“Sono così giovani Lauretta mia”
“Ma sono due giovani a modino”
“Oh bella, la testa sulle spalle ce l’hanno, per questo non c’è che dire”
“E non mi hai detto che René viene a bottega da te?”
“Oh bella, tutti i giorni e non si lamenta mai né mi fa lamentare sai?”
“Che non faccia lamentare te mi sembra già qualcosa di straordinario”
“E che ci sarebbe di tanto straordinario?”
“Tutte e tutti quelli che sono venuti a bottega da te sono scappati dopo pochi giorni, talvolta piangenti”
“Oh bella e se non hanno voglia di lavorare o non hanno punto fantasia di imparare non è certo colpa mia”
“Vabbè, quindi mi pare che René invece…”
“È bravo sai? E ha pure tanta voglia di apprendere il mestiere. Guarda che ha fatto, ti faccio vedere il suo quaderno, ogni tanto lo lascia qui. Io faccio finta di non sapere che ce l’ha guarda che disegni fa”
“Belli ma cosa sono?”
“Oh bella, dettagli”
“Dettagli di che?”
“Di costumi, di vestiti d’epoca. Quando va in biblioteca a sentire la pianista”
“Penelope”
“Eh sì, lei, oh bella, quando va là scartabella i libri di storia e di storia del costume e ricopia i dettagli, poi viene a bottega e rifà per ore le cuciture fino a che non gli vengono uguali. È proprio bravo.”
“Se continua costì ci diventerà un grande sarto”
70.

“Penelope tesoro, vieni di là con me”
“Va bene Lauretta ma che mi devi dire?”
“È un segreto”
“Ah qui non ci sono segreti, mi dovete dire cosa state confabulando”
“Mamma io non ne so niente”
“Bea non ti intromettere e non essere noiosa
“Lauretta ti ricordo che”
“Sì sì poi mi ricorderai, intanto io e Penelope andiamo di là”
“Lauretta!”
“Ti vogliamo bene Bea”
“Ti vogliamo bene Mamma”
“Ma guarda un po’!”


71.

“Lauretta allora che c’è?”
“Ti dice niente un certo René?”
“René? Perché gli è successo qualcosa?”
“Non gli è successo niente di brutto, che io sappia, ma non arrossire in quel modo benedetta figliola”
“Non sono arrossita”
“Sembri un’aragosta”
“Uffa”
“Spogliati dai”
“Perché mi dovrei spogliare?”
“Semplice: ti devo prendere le misure”
“Le misure?”
“Sì, pare che il tuo bel René voglia cucirti addosso un bell’abito ma sua nonna ha pensato che sarebbe stato più opportuno, o no?”
“O no cosa?”
“No, dico, o forse già le ha prese lui le misure?”
“Lauretta, René non ha preso nessuna misura e smettila di fare quella faccia!”
“Quale faccia?”
“Quella che stai facendo, come ad insinuare chissà cosa”
“Non stavo insinuando niente, figurati, non vi siete mai dati un bacio?”
“Lauretta!”
“E che ho chiesto mai, figurati! Alza il braccio un pochino che devo farti passare il centimetro intorno ai fianchi”
“Così?”
“Sì ma adesso riabbassa le braccia. Ecco, fatto”


72.

“Che voleva Lauretta?”
“Mamma non cominciare anche tu”
“Perché, che ti ho chiesto di tanto strano?”
“Mamma per favore”
“Ma senti un po’… almeno dimmi perché si è scomodata a venire fin qui con il centimetro e tutta l’attrezzatura da sarta”
“È venuta a prendermi le misure”
“Le misure?”
“Sì, per un vestito”
“Ma non te l’aveva regalato tua nonna un vestito?”
“Mamma per cortesia”
“Ma aspetta un po’, non è che per caso quel ragazzetto che viene sempre a vederti e a cercarti”
“Adesso che hai da dire contro René?”
“Non è il nipote della sartora per caso?”
“È il nipote della sartora e allora?”
“Niente niente figurati”
“Mamma non fare quella faccia”
“Quale faccia?”
“Di chi la sa lunga”
“Lunga?”
“Tanto non hai capito niente”
“E che cosa avrei dovuto capire?”
“Mamma la smetti?”
“Va bene va bene, comunque è proprio carino quel ragazzo”


73.



Il Chiacchierino

1.
Muriel aveva appena finito di dipingere l’insegna con il nome della bottega ed era piuttosto soddisfatta. La grafia era perfetta, i colori anche. L’effetto esattamente quello che voleva ottenere. “Il Chiacchierino” non era un negozio in cui entrare per acquistare un prodotto industriale bensì un luogo di incontro dove parlare, raccontarsi, bere una tazza di tisana e magari un goccetto di rosolio.
La primavera era ormai alle porte, mimosa e mandorlo avevano fiorito contemporaneamente nonostante il vento freddo che proveniva dagli Appennini e su peschi, albicocchi e ciliegi già spuntavano le gemme. I giorni della merla erano appena trascorsi e quelli della Candelora parevano assolati, senza pioggia o vento.

“Quando vien la Candelora, dall’inverno semo fora; ma se piove o tira vento, de l’inverno semo dentro”.

“Già”, rispose annuendo a sé stessa.

A volte le sembrava di sentire la voce di Nonna Filomena, le rispondeva sempre, quando era da sola lasciava che il suono riempisse le parole.

“Il sole è piuttosto caldo oggi nonostante l’aria di neve che arriva dagli Appennini”

“Già Già”, mormorò dando un altro sguardo soddisfatto all’insegna

“D’altronde Monte Gennaro non ha messo cappello quindi non c’è certo da prendere l’ombrello”

Nonna Filomena era nata, cresciuta e pasciuta a Stazzano, non s’era mai spostata dal paese e da lì si vedeva il Soratte, non Monte Gennaro.

Muriel distolse lo sguardo dall’oggetto della sua contemplazione, sbatté le palpebre e roteò lievemente gli occhi verso il punto da cui proveniva la voce di Nonna Filomena, allontanandosi dai suoi pensieri.


2.

“Il Chiacchierino è proprio un bel nome, fa pensare al tempo che si trascorre ciarlando mentre si intrecciano i fili del pizzo vittoriano, che fa tanto suffragette in sordina. E poi è così moderno, arts and crafts, il nuovo che trae ispirazione dalla tradizione, una continuità, una progressione che si sviluppa mettendo un punto e poi un altro.”

Una marea di parole veloci, nette, pronunciate con accuratezza si era materializzata nella calda giornata invernale sotto un cappello che definire bizzarro sarebbe ingiusto e poco rispettoso della quantità di ore di lavorazione che erano state evidentemente necessarie per confezionarlo. Non era particolarmente grande, più che altro era una giustapposizione di elementi artistici, una specie di compendio di artigianato di squisita fattura. Le scarpe intonate al copricapo erano posizionate accanto ad una valigia, anch’essa personalizzata nei minimi dettagli, e ad un cappotto di raro broccato in velluto di seta finissima. Eccentricamente colorato senza neanche una nota, per quanto sgargiante e chiassosa, stonata. Lunghi capelli raccolti in una coda lenta da un nastro annodato in un fiocco complesso di macramè, calze sconclusionate, blu con paperelle gialle, un’allegria inopportuna di primo mattino che trapelava da ogni poro.

Non era Nonna Filomena.

“Forse si starà chiedendo il mio nome”

“Già” rispose cupa Muriel che non aveva ancora fatto colazione e non era pertanto incline ad alcuna forma di conversazione che oltrepassasse il limite della semplicità più lineare, un concetto che sembrava particolarmente alieno alla voce gaudente, ma aveva apprezzato molto il lei anziché il tu che sembra essere ormai una consuetudine anche tra estranei. Nonna Filomena si sarebbe offesa se un ‘pischello’ le avesse rivolto la parola senza conoscerla utilizzando il tu, non si sarebbe sentita obsoleta come avrebbero voluto farle credere con quel tu tanto amicale quanto snervante. Piuttosto, avrebbe risposto con una delle sue solite frasi che variavano da ‘di chi sei figlio?’, per comprendere in quale ramo della complessa ed articolata serie di soprannomi, famiglie e amicizie transgenerazionali era ascrivibile l’interlocutore, a ‘sei forestiero?’ quando era evidente che le regole della buona creanza erano state violate in modo tale da consentire di pensare bene soltanto nel caso di una presunta estraneità all’universo finora conosciuto. Presumibilmente con una provenienza morale, oltre che familiare, da collocare ben oltre il confine delimitato dall’hic sunt leones delle antiche carte geografiche. Un posto in cui il tu poteva essere considerato una forma di educazione e il lei di maleducazione. Siccome a pensare male si fa peccato e Nonna Filomena aveva forse qualche vizio ma peccati non ne commetteva se non per sbadataggine e tipicamente non era una persona sbadata, lei lasciava sempre un piccolo adito, uno spiraglio di possibilità mentale verso chicchessia salvo poi dimostrazione comprovata del contrario. Il fatto che la prova scientifica delle presunte illazioni fossero le chiacchiere del paese è un dettaglio del tutto irrilevante.
Più che interrogarsi sul nome della voce che si era interposta tra lei e la contemplazione dell’insegna, Muriel si stava domandando perché indossasse calzini blu con paperelle gialle ma questo non lo disse.

“Mi chiamo Renato ma ormai sono abituato al nomignolo René”, così facendo stese una mano guantata in pelle e pizzo chiacchierino con bottoni di opale.

“Piacere, io sono Muriel”

Ci fu un attimo di silenzio attraversato da un refolo di vento gelido. Una merla grigia si posò sul ramo ancora spoglio della magnolia, lei si era sempre chiesta se la storia della merla e del camino fosse vera.


3.

“La leggenda narra di una merla che veniva maltrattata da Gennaio tutte le volte che usciva a procurarsi il cibo. La merla decise dunque di fare provviste, rintanarsi in casa e non uscire per ventotto giorni, che era pressappoco quanto durava il primo mese dell’anno prima della riforma del Calendario Gregoriano. Finito il mese lei uscì e fece l’errore, come i Sanniti coi Romani alle Forche Caudine, di motteggiarlo. Gennaio si vendicò scatenando la sua ira: rubò tre giorni a Febbraio e sputò freddo e gelo tutto intorno così la merla dovette rintanarsi in un camino e il suo piumaggio bianchissimo divenne tutto grigio scuro che, a ben guardare, potrebbe anche essere più elegante del nero lucido col becco giallo. Non so se questa leggenda abbia un fondo di verità ma a me piace molto”.

Parlava velocemente scandendo tutte le parole come facevano quelli della radio prima che il tu divenisse un modo normale di dare del lei agli sconosciuti.
Sentire una buona dizione era gradevole, le pareva una forma di educazione nei confronti dell’italiano: le lingue impiegano tanti anni, secoli e talvolta millenni per esprimersi e non c’è motivo di bistrattarle.
A Muriel piaceva indovinare come erano arredate le abitazioni delle persone con cui parlava, non soltanto quando per lavoro doveva renderle più adatte alle loro effettive caratteristiche o alle richieste della clientela.
Così tanto spesso la gente vive nelle case senza neanche accorgersene, distrattamente personalizza qualche angolo o qualche dettaglio ma niente di più. Ci sono mobili che si adattano alle persone e persone che si adattano ai mobili. Spazi in cui c’è un dialogo costante e altri in cui la permanenza fisica è un dettaglio in uno schizzo di qualche architetto con idee considerate modaiole, una di quelle sagome che ben si intonano con il programma di disegno tecnico e progettazione, con le immagini viste in un altrove asettico e immaginario.
Muriel detestava entrare in quelle case.
Doveva respirare profondamente, praticare le esercitazioni mentali imparate al corso di yoga, sfoderare un sorriso patinato e cercare di fare esattamente il contrario di quello che avrebbe voluto. Ascoltava i clienti e capiva che a loro sarebbe piaciuto l’opposto di quello che ne esprimeva l’essenza, un po’ come guardare il negativo di una fotografia, quando ancora si stampavano nelle camere oscure e bisognava fare attenzione alla luce, il rovescio di una cucitura grossolana senza neanche la copertura di una fodera a celarne l’impudica rozzezza. In qualche modo erano persone che odiavano sé stesse, profondamente insicure, sempre alla ricerca di conferme nel loro essere al centro dell’attenzione mondana.
Provò ad immaginare la casa di René, non la visualizzò, ne percepì l’odore, qualcosa che profumava di fiori freschi in un bel vaso di ceramica decorato a mano. La sensazione le piacque molto.
 
4.

Muriel lo guardò. René non parlò.
La mattina scorreva placidamente.
Non c’erano nubi all’orizzonte.
René aspettò che Muriel avesse finito di controllare la qualità delle finiture che sembravano, ed erano, di ottima fattura.

“Il pizzo fiammingo è poco conosciuto da queste parti”
“Molti lo confondono col chiacchierino in effetti. Sono contento che lei, Muriel, l’abbia notato”
“Già. Beh, qui ho finito per il momento, se vuole possiamo fare uno spuntino: io non ho ancora fatto colazione”.
“Mi sembra un’ottima idea, c’è un bar da queste parti?”
“Sì, certo”

A pochi passi c’era una rosticceria pasticceria bar, uno di quei locali in cui si fa di tutto un po’, senza infamia e senza lode. L’arredamento era abbastanza anonimo da dare la sensazione di déjà-vu ma non tanto da sembrare il bar di una stazione affollata. I prodotti erano fintamente artigianali, preparati con i semilavorati industriali, senza una vera e propria ricerca di ingredienti o un’attenzione particolare a qualcosa che non fosse una mediocrità leggermente superiore ai preconfezionati. Niente faceva presagire qualcosa di interessante.
René si adeguò all’ambiente e sprigionò un’allure da personaggio famoso, enigmatico. Chiunque avrebbe potuto credere che la sua eccentricità fosse modaiola e frutto di un accurato studio d’immagine e molti avrebbero potuto pensare che fosse un personaggio famoso di cui non ricordavano il nome ma che certamente avrebbe costituito materiale di conversazione pettegola per almeno una settimana, se non di più. Muriel sorrise di sbieco, involontariamente.



5.

Ordinarono caffellatte e paste.

“Non facevo una colazione dolce da parecchio tempo, è sempre gradevole rimpatriare”, esordì René lasciando trapelare che non aveva intenzione di proseguire la conversazione prima di aver finito di gustare il caffellatte. Il sapore cgli evocava la nostalgia del presente tipica di quando si torna da un lungo viaggio.
Muriel era piuttosto contenta di averlo incontrato e di non dover parlare prima di aver ingurgitato una quantità di nutrienti necessaria a poter completare una frase senza perdersi in pensieri densi.
La bottega artigiana era quasi pronta ma c’erano molte cose da fare. Il lavoro per spostare le attrezzature era stato lungo e faticoso. Mentalmente più che fisicamente, e poi tutta quella polvere.
Non aveva neanche pensato di proporre a René di lasciare la valigia da qualche parte. Forse aveva fatto bene, avrebbe potuto metterlo a disagio.
C’erano varie etichette di compagnie aeree, testimonianze grafiche di viaggi ed esplorazioni, senza accorgersene posò lo sguardo su un adesivo verde, bianco e rosso con la scritta TAP Portugal, ricordò vagamente di aver letto da qualche parte che i portoghesi hanno una parola intraducibile nelle altre lingue. Qualcosa di simile alla nostalgia futura del passato nel presente.

“In portoghese si chiama saudade”

La voce cambiò leggermente quando René pronunciò proprio quel vocabolo e Muriel ebbe la sensazione di aver parlato senza accorgersene ma non ebbe il tempo di sincerarsene perché in quel momento entrarono Carmencita e Lauretta.


6.

Immaginare due persone più diverse tra loro sarebbe stato difficile.
Carmencita entrò con passo deciso, un paio di Ray-ban da elicotterista a coprire un trucco studiato nei minimi particolari, capelli lunghi, scuri, mossi da nette linee ondose. Un tailleur semplice, essenziale da cui emergeva una camicia molto fru-fru con volant vaporosi e frivoli che ben si adattavano alle scarpe, spumeggianti, e in assoluto contrasto con la borsa resistente, funzionale, capiente e non ingombrante.
Lauretta era tutta un frusciare di morbidezze in cui sarebbe stato gradevole adagiarsi per un fragrante abbraccio biscottoso. I lineamenti dolci e tondeggianti, gli occhi e la bocca sorridenti e una sbadataggine troppo sbandierata per non celare un’attenzione maniacale al più piccolo dettaglio nascosto.

“Ciao Muriel, buongiorno, hai già preso il tuo caffellatte vedo, benissimo così possiamo parlare senza preamboli. Gradisci un caffè con panna? Io ne ho già presi tre ma penso che… ma sì per i decaffeinati c’è tempo”

“Ciao Carmencita, un caffè con panna lo prendo volentieri. Lei Renato vuole assaggiarlo?”

“Renato? Che bel nome, oh Carmencita sei così impetuosa! Buongiorno Muriel” disse placidamente Lauretta assestando un paio di sonori baci sulle guance di Muriel e tendendo una mano allo sconosciuto. “Io mi chiamo Lauretta, lei è Carmencita ma aspetta aspetta ora sì che ho capito dove l’avevo già visto. Ma è mica il Renatino il nipote della sartora che partì, o beh, saranno passati quanti anni? Almeno almeno una decina se non di più… per andare, dove, dove? proprio non ricordo ma mi pare dalle parti della Francia. Eh sì, insomma al Nord, oh bella, al freddo, in uno di questi Paesi dove piove pure in estate”

Il volto di Renato si illuminò radioso, si era sentito subito accolto. In effetti era un sentimento che provava un po’ chiunque si accostasse a lei, anche soltanto per qualche istante. Suscitava immediata familiarità.

“Il nipote della sartora, eh già. Sono stato…”
“Le storie le raccontiamo dopo che ora abbiamo da fare, comunque io sono Carmencita, quanti caffè con panna?”

L’alzata di mani espresse un generale desiderio di tale nera e aromatica bevanda e Carmencita ordinò quattro caffè con panna e il bordo della tazzina orlato di cioccolato fondente.


7.

“Hanno appena ultimato le rifiniture di tinta, si sentirà un odore di vernice che neanche all’apertura di una mostra d’arte ma tant’è, porte e vetrine sono a posto, i manichini no, arriveranno in giornata, si spera, per cui per il momento mettiamo il mannequin di Nonna Filomena in bella mostra con il chiacchierino di Zia Bice, i tecnici sono appena andati via, l’insegna è pronta?”
“Uhm direi proprio di sì”, Muriel rispose riemergendo dalla distrazione acquosa in cui si era immersa mentre Carmencita elencava per l’ennesima volta tutto ciò che c’era da fare, che era stato fatto e che sarebbe stato necessario migliorare.
René si era accorto che lo stava osservando di sottecchi e lasciò che il suo sguardo si soffermasse sulle tante perfezioni di cui si componeva la finta casualità degli abbinamenti della sua mise. Gli piaceva cogliere nello sguardo delle persone ammirazione per la ricercatezza degli elementi più disparati, dai bottoni ai calzini. Aveva imparato ad orientare l’attenzione con piccoli gesti, così da suscitare vera e propria ammirazione per i suoi gioielli: i cappelli che confezionava con rara maestria.
Le parole di Carmencita si confondevano con la musica di sottofondo mentre Lauretta e Muriel erano sintonizzate su un altro canale. Era una specie di tecnica di sopravvivenza necessaria per amare la militaresca sarta: bisognava soltanto stare attenti alle variazioni di tonalità che presumevano una risposta, un po’ come quando a scuola c’è una lezione che non si ha voglia di ascoltare perché i pensieri fluiscono insieme alle emozioni.
“… comunque mi pare che per quanto concerne i faldoni non dovrebbero esserci problemi, eventualmente potremmo foderarli in seguito…”
Muriel aveva cercato di immaginare la casa di Carmencita la prima volta che l’aveva incontrata ma non era riuscita a soffermarsi su niente, aveva lasciato che il fiume in piena seguisse il suo percorso, tanto prima o poi l’avrebbe vista. Il giorno in cui la invitò a prendere un tè si trovò nella spiacevole situazione di non sapere cosa portare per cui dovette ripiegare su un vassoio di pasticcini. Buoni quanto si vuole, particolari e gustosi ma non le era mai capitato di non riuscire ad indovinare lo stile o per lo meno un oggetto che avrebbe potuto inserirsi con criterio all’interno di un’abitazione sconosciuta.
“…le ciambelle a cancello e le pizzette. Hai avuto conferma dall’ufficio stampa ufficioso Lauretta?”
“Sì sì. Figurati se si lasciano scappare la possibilità di criticare e spettegolare. Fiuuu no no non c’è davvero di che preoccuparsi, tra l’altro mi hanno confermato che sarebbero venute più che puntuali. Ho saputo per vie traverse che almeno la metà del paese è andata a farsi i capelli tra ieri e oggi, e visto che non ci sono cerimonie in giro… ovvio a meno che non me ne sia persa qualcuna….” Lauretta lasciò cadere l’ultima frase nel vuoto, come a sottolineare che non c’era cerimonia in paese di cui lei non fosse a conoscenza. Le sue fonti erano molteplici e tutte molto affidabili in materia di gossip paesano.
A René sfuggì un sorriso: rammentava benissimo la sua capacità di ricordare nomi e parentele fino alla ventesima generazione.


8.

“… e la vernice glitterata sui fiori di carciofo secchi si è asciugata”
Carmencita si era fermata, stava sorbendo il suo caffè e ciò voleva dire semplicemente che c’era spazio uditivo per parlare. Non si era posta il problema di discutere nei minimi dettagli le questioni relative all’apertura della bottega di fronte ad un estraneo per il semplice motivo che Lauretta non aveva espresso alcuna perplessità, soprattutto dopo averlo riconosciuto e avergli dato una collocazione tra le sue innumerevoli conoscenze. Era evidente che lui non avrebbe costituito un problema per loro, anche se non sapeva esattamente perché. Certamente era una persona che non avrebbe spifferato in giro i fatti degli altri, indubbiamente era particolare e il cappello che indossava piuttosto bello.

“Impara l’arte e mettila da parte” disse distrattamente René.

Lauretta ebbe la strana sensazione di aver sentito la voce di Zia Bice che le ripeteva questa frase in continuazione. In effetti il mestiere gliel’aveva insegnato proprio lei, per un po’ l’aveva lasciato da parte e poi le era tornato utile fino a diventare il suo lavoro e una discreta fonte di guadagno.
Rifiniva i vestiti che Carmencita cuciva ed era bravissima con i sottopunti. A volte ricamava ma non era quella la sua specialità: per fare le cose come piacevano a lei ci voleva troppo tempo, giorni, talvolta mesi interi per un lembo di merletto.
Zia Bice le aveva insegnato le basi, col vecchio metodo, facendole trascorrere ore e ore a provare e riprovare. Lei si annoiava terribilmente ma l’alternativa ad ago e filo era andare a scuola dalle suore per fare il tempo pieno, cosa che le sembrava molto più temibile. Aveva sentito certi racconti su zuppe di fave secche e pane integrale che le facevano accapponare la pelle. La prospettiva di saltare la merenda a base di tazzona di latte munto la mattina o tuttalpiù il giorno prima accompagnato da pane caldo spalmato con un generoso strato di burro e marmellata fatti in casa non le garbava affatto e così sopportava stoicamente il supplizio. L’unica cosa, oltre la merenda, che le rendeva il compito meno gravoso era il chiacchiericcio continuo di parenti e amiche. Dire che la Zia Bice fosse pettegola sarebbe però ingiusto nei confronti della memoria di Zio Vito, buonanima, che avrebbe ben potuto guadagnarsi il soprannome affibbiato ad un noto architetto rinascimentale, Simone del Pollaiolo detto, appunto, ‘Il Cronaca’.


9.

Il placet di Lauretta era una infallibile luce verde comprovata da generazioni di accurata conoscenza di tutti i fatti, le persone e le famiglie del paese.

“Allora, che mi racconti di bello?” disse improvvisamente rivolgendosi a René.
“Ho viaggiato un po’ e ora sono tornato”
Sembrava una risposta sensata ma sapeva che non sarebbe stata sufficiente per cui principiò a raccontare la sua storia ma venne interrotto bruscamente dall’arrivo di Guccio, meglio noto col soprannome di Paolino, il quale, appena lo vide, pensò che forse sua sorella Brigida non aveva poi tutti i torti, sposarsi in abito bianco, in una chiesetta di campagna, sarebbe stato bello. Immaginò contestualmente il bouquet e i fiori, per le bomboniere c’era tempo, meglio non affrettare troppo le cose, litigare su questioni tanto elementari avrebbe potuto rovinare il loro idilliaco rapporto e la luna di miele. Oh santa pace, la luna di miele. Beh, anche di quello avrebbero discusso in seguito, avrebbe potuto cedere, mostrandosi tollerante con broncio così da avere campo libero sulla torta nuziale e sui paggetti che avrebbero portato le fedi.

“Buongiorno carissime! Sono così felice che siate qui e posso offrirvi un dolcetto benaugurante”

Ecco, Guccio, detto Paolino, aveva la capacità di fare sempre qualcosa di carino per gli altri, più che premuroso era attento, dedicato e non si poteva non pensare che fosse una persona gentile. C’era chi affermava che fosse meglio non farlo arrabbiare ma non veniva proprio voglia di litigare con una persona sempre sorridente, o quasi.
Muriel amava parlare con lui per ore intere, a volte cenavano insieme e si trovavano immancabilmente a chiacchierare fino a notte fonda senza mai annoiarsi o distrarsi dietro a qualche pensiero aquilone. Non avrebbero saputo dire chi avesse utilizzato l’espressione la prima volta ma poi era rimasta tra loro ad indicare quei pensieri che distolgono dalla realtà, dai momenti vissuti, dal presente catapultando la mente in qualche recondita area della psiche o del pensiero.  
Paolino stava bene con lei, si sentiva capito, non giudicato: era l’amica che avrebbe sempre voluto avere e non c’era altro modo per definire il loro rapporto.

Lauretta subodorò guai e sciagure future appena Paolino varcò la porta, non perché portasse sfortuna, anzi era una persona che sapeva infondere il buon umore e quindi era piacevole incontrarlo. Aveva capito dal suo sguardo che pensava di aver incontrato l’uomo della sua vita ma lei sapeva benissimo e da fonti certe e certificate nel suo capillare sistema informativo che Renato, detto René, era innamorato da sempre di Penelope, una donna quasi della sua stessa età con cui aveva litigato molti anni prima, per un motivo che neanche lei era riuscita a scoprire, e che forse non lo aveva mai dimenticato visto e considerato che non si era mai ‘accompagnata’, insomma non aveva mai messo su famiglia.

Paolino sciorinò una serie di messaggi corporei che confermarono i timori della sarta dal volto tondeggiante e il corpo accogliente.

Carmencita non si avvide di nulla, era immersa nelle questioni organizzative e fu molto felice della presenza di Guccio, che la metteva di buon umore anche nelle giornate più cupe.

“Cuor contento il Ciel l’aiuta! Piacere io sono Renato, anche se mi chiamano sovente René”

Quando gli strinse la mano, curatissima, tra le sue, Paolino ebbe la certezza assoluta che René fosse incontestabilmente e inconfutabilmente l’uomo della sua vita.
L’intero corpo gli sorrise.
Il suo cuore a quel punto era gaudente e il Cielo evidentemente gli stava fornendo la motivazione per essere tanto felice di vivere e di esistere.


10.

Lauretta ebbe la sensazione nettissima che Guccio, detto Paolino, stesse per, se già non era accaduto, innamorarsi perdutamente di René e se ne rammaricò non poco. Conosceva bene entrambi: li aveva visti crescere. Due bravi ragazzi, ammodo, un po’ anticonformisti ma non lasciavano adito a maldicenze.

“L’apparenza inganna”. René pronunciò queste parole con garbo, quasi le avesse letto nel pensiero.

Lauretta si rasserenò.

“Viaggia spesso?”, chiese Guccio, detto Paolino interpretando la curiosità generale.

“Più che viaggiare mi sposto: tutto il mondo è paese”

“Ma dov’è che sei andato esattamente? Su al Nord?”, domandò Lauretta.

“Ho vissuto nelle Fiandre belghe, ad Anversa, dove ho studiato all’accademia di moda, ho partecipato ad alcune sfilate con un discreto successo, poi mi sono specializzato nella creazione e confezione di cappelli artigianali. Ho seguito la mia vocazione e ho capito cosa avrei voluto fare nella mia vita. E adesso sono tornato al paese. Sai niente di Penelope?”

L’ultima domanda gli era sfuggita dalle labbra. Non era stata una sbavatura, piuttosto una richiesta di informazioni schietta, senza preamboli. Forse sapeva davvero leggere nel pensiero. Aveva parlato senza ansia, incantando il suo uditorio e facendo balenare a Carmencita e Muriel l’idea di farlo lavorare con loro.

Un sorriso pieno, di comprensione epifanica attraversò il corpo di Lauretta.


11.

Penelope sarebbe venuta all’inaugurazione, forse. René si era trovato per caso nel posto giusto al momento giusto.

L’inaugurazione! L’avevano dimenticata per qualche istante. Non c’era molto tempo per perdersi in chiacchiere.

Muriel chiese a Carmencita e Lauretta, nel loro codice comunicativo, di appartarsi un momento. Ebbero tutte e tre un’impellente bisogno di utilizzare il bagno delle donne.

Quando tornarono fu Muriel a parlare per prima.

“René vorremmo chiederle, ecco se vuole partecipare all’apertura ed eventualmente cominciare a collaborare con noi, non siamo una maison affermata ma se la sua intenzione è quella di rimanere in paese potrebbe essere un’occasione sia per noi che per lei.”

“Al momento non si tratterebbe di formalizzare niente, se ci troveremo bene potremo poi iniziare un discorso più strutturato.”, aggiunse lesta Carmencita.

Non avrebbero saputo dire perché ma tutti quegli insegnamenti dell’insegnante di yoga sembravano essersi concretizzati nella luce che inondò gli occhi di René.

12.

“I dettagli li stabiliremo in seguito, se per lei va bene”, affermò Muriel aggiungendo con piglio sicuro: “ora dobbiamo proprio muoverci altrimenti non faremo in tempo ad organizzare un bel niente. Se vuole può venire con me nella bottega a sistemare i cappelli, non so se abbia già un posto dove stare oppure…”

“Grazie, posso venire subito in bottega, così poi potrò fare una doccia e cambiarmi”. Evidentemente aveva già un luogo dove andare a dormire.

Non avrebbero saputo dire quanto tempo avessero trascorso nel bar, a giudicare da quello che affermavano gli orologi neanche mezz’ora ma il tempo emozionale è ben diverso da quello convenzionale.

René seguì Muriel nella bottega, aprì la sua valigia da cui quasi per magia estrasse due cappelliere di antica foggia che contenevano preziose creazioni artigianali. Con un insolito gesto di consuetudine passò i cappelli all’arredatrice d’interni. Lei li collocò in punti strategici della bottega. Stettero lì per qualche ora, quasi senza parlare, lasciando dialogare le loro energie.

Muriel non si perse nei suoi pensieri, le sembrò per qualche momento che tutto fosse al posto giusto.

René ebbe la sensazione che ciò che aveva fatto sino a quel momento stesse per prendere forma.

Lauretta entrò senza disturbare e capì che lui e Penelope si erano, molto probabilmente senza neanche dirselo, aspettati per tutti quegli anni e che non sarebbe stato facile, per loro, ammetterlo.


13.

“È ora di aprire” sentenziò Carmencita mezz’ora prima dell’ora prevista per l’inaugurazione.
L’euforia era tangibile nell’aria densa di aspettative e desideri.
Muriel era insolitamente calma. Non che normalmente non lo fosse, anzi, era proprio il tipo di persona che non ha mai scatti di nervosismo, d’ira o di stizza. È che ogni tanto tutto il magma che le ribolliva sotto la placida superficie prendeva la forma della distrazione.
Si assentava da sé senza neanche accorgersene. Le capitava sempre più di frequente, tra l’altro, di parlare con Nonna Filomena, chissà che avrebbe detto della bottega, di Carmencita, Lauretta e...
“Chi ben comincia è a metà dell’opera”, sì forse avrebbe detto proprio questo ma era stato René a pronunciare la frase riportandola fuori dalla viscosità pensierosa in cui stava per impantanarsi.
La bottega era perfetta, anche se si sentiva ancora un po’ di odore di vernice e di nuovo.
Al centro era stata posta una tavola perfettamente apparecchiata con prelibatezze varie. I minuti trascorrevano lenti, pareva che il rumore delle lancette del grande orologio a muro sovrastasse le armoniose sonorità musicali.
Dapprima arrivò una piccola delegazione di ragazzette, secondo Lauretta nipoti, pronipoti e parenti di vario grado di Donna Lia, che le avrebbe esortate a recarsi lì per decidere, in base ai dettagliati resoconti delle giovinette, se fosse o meno il caso di degnarsi di presenziare all’evento.
“Buon segno” sussurrò la sarta esperta in sottopunti e in questioni paesane, aggiungendo che se Donna Lia si era premurata di inviare una delegazione ben cinque minuti prima dell’apertura ufficiale voleva dire che era stata dal parrucchiere il giorno precedente se non la mattina stessa e che ci sarebbe stata parecchia gente: non s’era mai vista Donna Lia presenziare alcunché se non per farsi rimirare e notare.
Alla spicciolata giunsero curiosi e addirittura persone i cui alberi genealogici non risultavano nella foresta parentale di Lauretta, particolarità che non seppe bene in che modo interpretare.
Nel giro di poche decine di minuti la bottega si riempì e ci fu un continuo viavai fino a sera quando finalmente poterono sedersi anche loro e mangiare qualcosa. Il bilancio della giornata era stato positivo.


14.

La mattina si svegliarono prestissimo per rimettere tutto in ordine. C’era ancora qualcosa da fare ma la sensazione era quella di un nuovo inizio, non soltanto per René.

Carmencita si sentiva stranamente ebbra e non aveva voglia, per qualche motivo, di organizzare tutto. Si era alzata di buon umore, cosa che le capitava molto di rado, a dire il vero non ricordava proprio quale fosse stata l’ultima volta in cui ciò era accaduto. Aveva una lontana memoria di un profumo di dolci appena sfornati, da sua nonna, no, forse era la sua prozia. Sì, doveva proprio essere zia Proserpina. Prozia, ci teneva a specificarlo. Quanto era brava a preparare i dolci per lei, soltanto per lei, che era la sua pronipotina preferita. Non aveva mai viziato i figli con dolci e altre leccornie, indebolivano il carattere a suo dire ma con lei si sbizzarriva: Carmencita aveva già un carattere forte, almeno all’apparenza.

“Scorza dura e cuore tenero”.

Carmencita si ridestò come emergendo da una doccia di acqua gelata dopo una sauna finlandese, si aggrappò mentalmente alle sue certezze e alla sua disciplina quasi militaresca, guardò verso l’origine di quella frase. René le stava porgendo un After Eight, non c’era niente che facesse presupporre altro. Scacciò via la sensazione di intrusione nella sua intimità con una scrollata di spalle. Serrò le mandibole in un sorriso che la fece riemergere dal torpore mentale e dai pensieri aquilone che si erano incuneati nelle sue celluline grigie.

“Grazie ma non ho ancora preso un caffè”
“Neanche io, è che sono ghiotto di cioccolatini”
“Non si direbbe vista la linea”
“Quando ero ragazzino, un pischelletto, mi vergognavo quasi di non ingrassare, adesso non mi dispiace: posso indulgere nei piaceri della tavola senza dover rinunciare ad indossare i miei abiti preferiti”
“Neanche io tendo ad ingrassare, comunque seguo un regime alimentare piuttosto rigido”
“Quindi niente dolciumi?”
“Mi piace di più il salato”


15.

Lauretta portò un thermos di tisana rivitalizzante, chiacchierò un po’ ma le ci sarebbero voluti almeno due giorni per elaborare la mole di pettegolezzi che aveva incamerato durante l’inaugurazione quindi sarebbe stato del tutto inutile chiederle qualche commento ‘a caldo’, a meno che si volesse soltanto avere informazioni blande e stereotipate.
E poi si vedeva lontano un chilometro che le premeva qualcos’altro.
Dopo aver rifocillato le sue amiche, prese in disparte René, che per lei era e sempre sarebbe stato Renato, e gli chiese ragguagli su Penelope.

“È un po’ cambiata dall’ultima volta che l’hai vista, vero?”
“…”
“Non sai che rispondermi ma i tuoi occhi sono più luminosi di una stella, nonostante il sonno”
“…”
“Anche lei quando ti ha visto si è, come dire?”
“Si è?”
“Il volto era”
“Bellissimo, pieno di grazia, sincero”
“Gioioso direi”
“Dici?”
“Eh già, ma tu sai che lei?”
“Immagino che abbia famiglia ormai, dopo tutti questi anni…”
“No, veramente non ha messo su famiglia, dopo tutti questi anni”
“Chissà perché…”
“Veramente vorrei chiederlo a te”
“A me? e io cosa pensi che ne sappia?”
“Ah niente niente soltanto che”
“Che?”
“Ma senti Renato, sei andato via che eri un ragazzino a modino, hai fatto la tua vita, da quello che ho sentito dire in giro hai fatto anche parecchia strada e dopo tutti questi sforzi torni al paese, chiedi di fare i cappelli in una bottega artigiana che, per carità, è di gran qualità ma te hai sempre avuto la stoffa per puntare parecchio in alto. Torni e l’unica cosa che ti preme davvero è chiedermi di Penelope”
“Ma non è l’unica cosa, neanche per idea, sai”
“Sì sì”
“E so so”
“E lei, da anni che la vedo spenta, disinteressata alla vita, appena ti vede che fa?”
“Che fa?”
“Torna la Penelope che conosciamo tutti quanti; ti pare normale?”
“Ma dai che dici figurati”
“Ah io non mi voglio impicciare di fatti altrui”
“Ma non ci sono proprio fatti di cui impicciarsi, davvero, sono soltanto fantasie”
“Fantasie, fantasie, certo certo. Ma tanto prima o poi mi dirai quello che è successo tra voi due”


16.

“Perché ti interessa tanto la storia di Penelope e René?”
Muriel glielo aveva chiesto senza neanche accorgersi di aver parlato. Il suono si era semplicemente materializzato al di fuori delle sue labbra, prendendo la forma dell’aria. Non le capitava da moltissimo tempo di esprimere quello che pensava senza soppesare la punteggiatura, le frasi, talvolta anche le sillabe.

“Sono due persone a cui voglio bene”.
La risposta arrivò inaspettata: l’aria a volte assumeva delle forme ben strane.

“Forse è difficile spiegare ma li ho visti crescere e sono sempre state due brave persone, erano innamorati sai, di quell’amore sincero, era una gioia vederli insieme e poi, non lo so, è accaduto qualcosa di inspiegabile.”
“Hanno intrapreso strade diverse, non pensi possa essere stato semplicemente quello?”
“No, Muriel, non so spiegartelo ma due persone che si amano in quel modo non intraprendono strade diverse, e infatti così è stato”
“Pensi che René sia tornato con il preciso intento di ritrovare Penelope? Ma dai!”
“Muriel sei insensibile”
“Non lo sono”
“Lo so ma a volte sì”
“Magari sentiva nostalgia del sole italiano”
“Il sole?”
“Eh, il sole, dice che in Belgio piove sempre”
“Ah e siccome gli mancava il sole, anziché andare in vacanza ai Tropici, ha preferito tornare al paese, cercare lavoro all’istante e chiedere immediatamente notizie di Penelope. Mi sembra davvero plausibile, logico…”
“Uhhh e Penelope?”
“Penelope?”
“Eh, Penelope.”
“Ma hai visto che bella donna è? E ha anche un buon carattere, un po’ a modo suo ma... Ti pare normale che non abbia mai messo su famiglia?”
“Magari non ha mai trovato quello giusto”
“Sì che lo ha trovato e in tenera età”
“René?”
“E che c’è di strano?”
“Mah”


17.

Carmencita non aveva voluto dar troppo peso al fatto che le energie di Lauretta si fossero concentrate su Penelope e René ma non aveva potuto non accorgersi che ciò aveva immalinconito Muriel.

“Muriel?”
“Uhm?”
“Che dici se mettiamo i cappelli da parte, intendo da questa parte?”
“Sono proprio belli, forse ha ragione Lauretta”
“Riguardo a cosa?”
“Ma niente, dice che René avrebbe potuto puntare molto in alto e non lo ha fatto per motivi personali”
“Tu che ne pensi?”
“Forse è vero”
“No, dico, tu che ne pensi se mettiamo i cappelli da una parte, qui ad esempio?”
“Vorresti metterli in un cantuccio?”
“Spostarli verso quest’angolo qui”. Carmencita aveva accompagnato la risposta con un gesto con cui sembrava volesse togliere, scansare un ostacolo alla loro felicità.
“Non ti piacciono?”
“Non è che non mi piacciano è che mi fanno inevitabilmente pensare ai tradimenti e a quella commedia coi sonagli”
“Il berretto a sonagli di Pirandello intendi?”
“Sì quella”
“Già che c’eri avresti potuto farti anche venire in mente Questi fantasmi di Eduardo, nel dialogo col professore sul cuppitiello per il becco della caffettiera”
“Dici?”
“Ho la sensazione che non sia un caso se Renato si sia specializzato nel confezionare proprio cappelli e credo che Lauretta ce lo saprà dire presto. Mi diverte tutta questa storia, sai?”
“A me sembrava che ti incupisse”
“No, anzi, è il contrario direi”.
Avrebbe voluto aggiungere che i pensieri avevano iniziato a percorrere strade meno tortuose, ritrovando la linearità progettuale che la contraddistingueva e che l’aveva portata a studiare i reconditi segreti dell’ingegneria e dell’architettura d’interni, ma le era sembrata una mancanza di delicatezza nei confronti di Carmencita. Le era sempre stata accanto, anche nei momenti più oscuri, quando tutto le era crollato addosso all’improvviso e la calotta di cristallo sotto cui l’avevano tenuta il padre e il marito si era sgretolata e lei aveva dovuto rimboccarsi le maniche senza capire cosa stesse accadendo o, forse, comprendendolo con una lucidità che le aveva tramortito la capacità di tenere tutto sotto controllo, le emozioni, i pensieri, i sentimenti.
Le persone non si controllano, lo aveva compreso. Era convinta di poterlo fare, di averlo sempre fatto, di aver avuto tutto quanto e tutti quanti in mano. La sua vita, le sue scelte, la sua indipendenza. Falsità, bugie e menzogne avevano contraddistinto la sua vita fino al momento in cui tutto era stato diverso, d'emblée, senza preavviso.

“Lauretta dice che chi si è amato come loro due non si separa mai”
“Beh, certo lei, con quattro matrimoni alle spalle, di sempiterni amori è un’esperta! Ma dai Muriel…”
“Comunque sarebbe bello sapere che quel tipo di amore esiste veramente”
“Certo che esiste: tra madre e figlio. Punto.”
“Anche i padri amano i figli”
“I padri sono uomini”
“Di solito…”
“E anche René è un uomo”. Carmencita pronunciò quest’ultima frase concludendo il discorso, per il momento, sottolineando il concetto con un’alzata di sopracciglia che era tutto un programma.


18.

L’avversione di Carmencita per l’universo maschile era fondamentalmente giustificata dalla sua esperienza personale e familiare, nonché da un’educazione rigida, improntata alla netta divisione di compiti e funzioni.
Uomini, mariti, padri, zii, cugini erano quasi sempre un accessorio ingombrante seppur necessario alla quotidiana routine della vita paesana.
In cucina non aiutavano ma criticavano, in casa sporcavano e non pulivano, soltanto tra trine, merletti e sottopunti non entravano mai, o quasi. Era considerata un’attività in cui non impicciarsi e lei si trovava a suo agio in quell’universo di conoscenza e sapere.
Anche i libri, a scuola, parlavano di grandi eroi che avevano costituito la patria.
E le donne?
Erano per caso emigrate tutte da un’altra parte mentre gli uomini lottavano valorosamente per il Paese?
E poi perché ‘patria’ e non ‘terra madre’ o ‘natia’?
Tutto questo la infastidiva.
Anche negli ospedali, i medici parlavano di instabilità ormonale.
Ma quale instabilità?
Le variazioni ormonali per la donna sono la normalità altrimenti non ci sarebbe la procreazione, l’allattamento, di quale instabilità si parla?
Rispetto a cosa?
A chi?
Agli uomini?
E per quale motivo si dovrebbe mettere a confronto l’attività ormonale maschile con quella femminile?
Il corpo della donna ha una maggiore capacità di adattamento al cambiamento, è in movimento perpetuo, costante.
È come l’Etna paragonato al Vesuvio.
Il vulcano siciliano erutta in continuazione ed è pacifico, quello campano esplode raramente e quando lo fa devasta, distrugge.

René scombussolava tutto, tanto più che non era come Paolino. E da quello che diceva Lauretta sapeva pure amare, conosceva la lealtà, sapeva aspettare.
Ah sì?
Davvero?
Certo, sapeva riconoscere un chiacchierino da un pizzo olandese.
E allora?

“Una rondine non fa primavera”
“Appunto” Aveva forse parlato ad alta voce? Non se n’era accorta.
Guardò René con un misto di curiosità e diffidenza.
“Fa freddo fuori, sembra ancora inverno pieno. Anche tu sei uscita di casa senza cappotto?”
“Freddo? Ah beh, ovvio, fa ancora freddo. No, no mi sono premurata di prendere una stola calda”.
“È di pelliccia vera?”
“Sì, vecchie pellicce, molto ben tenute. Buttarle è peggio che utilizzarle e c’è una cooperativa di donne, qui, sai hanno aperto un centro antiviolenza e hanno avviato un’attività di recupero di lavorazioni tradizionali. Vengono a lezione da noi per imparare a cucire, noi vendiamo quello che producono e tratteniamo una piccola percentuale per le spese del negozio e per le lezioni.”
“È un’idea bellissima. La realizzazione però potrebbe essere migliorata a mio avviso”
“Forse”
“Puoi farmela vedere per favore?”
“Sì, certo, ecco”
René stette ad osservare a lungo e con occhio clinico la stola. La allontanò da sé come se stesse guardando un quadro puntinista, poi si riavvicinò ad osservarne i dettagli. La posò sul tavolo da lavoro. Si avviò con un’improvvisa ispirazione verso un trolley baule, lo aprì, all’interno c’erano trine e ricami di rara bellezza, alcuni avrebbero potuto essere interessanti anche per il Museo del Merletto di Burano. Ne estrasse due o tre di una foggia che Carmencita non aveva mai visto. Li avvicinò alla stola, cercò con lo sguardo un prezioso broccato.
Carmencita era affascinata dai movimenti di quella persona, appoggiò per qualche istante i suoi pregiudizi nell’ombrelliera in ferro battuto e ceramiche artigianali.
“Ecco, credo che così potrebbe essere anche più bello”
Il risultato era strabiliante. Era una bozza, di tutta evidenza, ma originale.
“È particolare”
“Sì, sembra anche a me. Pensi che si possa proporre di unire questa idea ad un’eccellenza produttiva? Io non mi intendo molto di questioni, come dire, pratiche?, insomma non che non sia una persona concreta ma, ecco…”
Sapeva anche ammettere i propri limiti. Carmencita pensò che forse esiste un luogo in cui uomini e donne sono persone, con le loro caratteristiche, le loro differenze e magari in casa puliscono, cucinano e rammendano senza credere di fare qualcosa di strano, come dicevano Muriel e Lauretta.
“Sai cucinare René?”
“Sì, certo: quando sei all’estero e sei italiano non puoi non saper cucinare. A dire il vero non è previsto neanche che non si conoscano bene i vini ma io sono astemio, non mi sono mai piaciuti gli alcolici.”
“E le droghe?”
“Le droghe? No, non mi piace proprio niente che alteri la percezione della realtà in modo incontrollabile. Se voglio avere sensazioni forti scalo una montagna, fa anche bene alla salute, o vado sull’oceano.”
“Ti piace il mare in inverno?”
“Sì, ecco, se voglio ‘stordirmi’ preferisco una bella passeggiata accanto all’oceano d’inverno, stando attento a non farmi travolgere dai cavalloni. Perché me lo chiedi?”
“No, niente”
“Gli uomini non sono tutti uguali, sono come le donne, diversi l’uno dall’altro, ma molti non lo sanno o non hanno il coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Va bene, l’idea mi sembra buona. Mi occuperò della parte che tu, Muriel e Lauretta chiamate ‘pratica’. C’è qualcosa che serve per la parte che io chiamo ‘pratica’, ovvero la realizzazione concreta?”
“Almeno una persona brava con merletti e ricami”
“Va bene. Ti faccio sapere”.


19.

“Muriel?”
“Sì Carmencita, che c’è?”
“Che ne pensi di René?”
“Non ti piace, eh?”
“Non ho detto questo”
“No, no. Cos’è che non ti convince?”
“No, no, niente.”
“Carmencita?”
“Sì?”
“Da quanti anni ci conosciamo?”
“Ti sembra normale che un uomo si metta a fare cappelli da donna e si interessi di trine e merletti, vada ad Anversa a studiare all’accademia della moda, torni in Italia e si trovi per caso davanti alla bottega nel momento in cui stiamo per aprire, conosce Lauretta e l’unico suo interesse reale sembra essere Penelope, no dico, Penelope?”
“Sembra anche a me una persona telepatica. Se ti devo dire cosa ne penso, mi fa pensare ad un gatto”
“Un gatto?”
“Sì, hai presente quei gatti che ad un certo punto compaiono nelle vite delle persone e sembra che siano sempre stati lì e che sappiano comprendere tutto anche meglio di persone care e amiche?”
“Avresti potuto dirmelo che sei diventata buddista”
“Non sono buddista ma Sibilla parla sempre dell’energia delle vite precedenti o di quella storia delle tante dimensioni”
“La teoria della relatività: l’ha inventata Einstein”
“Ma pensa!”
“Comunque, il paragone è calzante”
“Penelope è tanto una brava persona”
“Non lo metto in dubbio ma ti sembra una donna che possa ispirare una passione tanto forte da travalicare anni, confini, esperienze?”
“Oh senti, non so che dirti ma Lauretta…”
“Eh, Lauretta, Lauretta ma che ne sa lei dell’amore?”
“Qualcosa avrà pur capito con tutti i matrimoni e i figli che ha in giro per il paese!”
“Non lo so, c’è qualcosa che non mi quadra”
“Carmencita?”
“Eh?”
“Non è che, per caso, quello che non ti quadra è che mette a soqquadro tutti i tuoi pregiudizi e le tue diffidenze nei confronti dell’universo maschile?”
“Ah, tu e Lauretta dovete smetterla di pensare che io abbia qualche forma di idiosincrasia particolare o cosa: io non ho nessun pregiudizio.”
“No, pensi soltanto che gli uomini siano cretini”
“Il più delle volte”
“Ah vedo che ti stai ammorbidendo”
“Sai che mi ha detto?”
“Chi, René?”
“Eh”
“No, che ti ha detto?”
“Che gli uomini non sono tutti uguali e che sono persone come noi ma che non hanno il coraggio di ammetterlo a sé stessi”
“Andiamo a prendere una tazzona di tisana col ciambellone”


20.

Paolino non si sarebbe perso la serata di inaugurazione per niente al mondo ma non era riuscito a cambiare il turno di lavoro e quel giorno era in un altrove in cui avrebbe voluto non essere mai andato, anche perché si era ritrovato in un bar insieme a colleghi e clienti che definire retrivi sarebbe stata una forma di gentilezza che avrebbe travalicato anche le sue più abituali doti di cortesia. Sorridendo per mascherare il disgusto, aveva dovuto ascoltare chiacchiere insopportabili riguardo a donne, calcetto, omosessuali, in ordine sparso. Quando la sua leggendaria tolleranza stava per incrinarsi si era stretto nelle spalle ed era riuscito a sottrarsi alla compagnia con la scusa di una impellente telefonata galante. La propria voce interiore lo istigava a rovesciare il tavolo, dire che gli stava venendo da vomitare, inciampare casualmente su un vassoio di tartine con la maionese da spalmare addosso ai suoi commensali e urlare quello che pensava. Aveva preferito la via diplomatica. Non era un ambiente, né un luogo, in cui avrebbe potuto esprimere la propria natura, per cui, riconquistato un suo spazietto, si era dedicato alla pratica yogica.
Appena tornato al paese, però, non perse un istante per andare nella bottega ad informarsi.

“Lauretta buongiorno, cercavo proprio te, voglio un resoconto dettagliatissimo. Intanto questi sono per voi, qualche dolcetto per la colazione e un paio di oggetti che non potevo non portarvi.”
“Anche la camelia? Paolino sei uno spettacolo”
“Sì, ho fatto una piccola deviazione a Velletri. Dimmi tutto”

Lauretta liberò la mole di informazioni immagazzinate e riposte in un angolo della sua memoria per lasciare il posto all’affaire René Penelope e i due rimasero a parlottare per un tempo che sembrò brevissimo ai due interlocutori.

“Credo sia ora di cena Paolino, vuoi venire a mangiare da noi?”
“Certo!”

Muriel si era sempre chiesta come facessero a ricordare tutte quelle generazioni di parentele, amicizie, intrighi, vestiti e corredi ed era giunta alla conclusione che fosse un mistero cosmico.
Per Paolino parlare con Lauretta era rinfrancante: lo faceva sentire bene, all’interno del suo universo di senso.
“Paolino?”
“Dimmi”
“Se non fossi gay saresti il mio prossimo marito”
“Lauretta, sei l’unica donna che potrebbe tentarmi”

Ciò detto, si salutarono ridendo dopo aver chiacchierato per poco meno di ventiquattrore filate.


21.

René uscì a fare una passeggiata.
Aveva la mente piena di merletti, trine, tessuti e aveva bisogno di pensare in libertà.
Tutto era accaduto velocemente da quando era tornato in paese e non aveva ancora avuto modo di lasciar decantare le emozioni.
Aveva affinato la tecnica di non immergersi in niente che potesse scuoterlo dalle viscere. Tutto poteva essere osservato dall’esterno.

“René, che piacere inaspettato”
“Paolino, ciao. Sei stato da Lauretta?”
“Si vede molto?”
“Hai lo sguardo tra il felice e il birichino e la barba non curata. Non so, ma non mi sembra che usciresti di casa senza esserti occupato della tua toilette”
“Ehi, sai osservare le persone. Bene allora che ne dici di fare quattro passi insieme nel parco?”
“Volentieri, stavo proprio cercando un sentiero per una camminata lontano dal traffico”
“Hanno da poco inaugurato il parco tematico, è piuttosto grande e si può camminare agevolmente sui sentierini. A me piace molto, hanno addirittura pensato a creare percorsi soltanto per cani per cui non c’è pericolo di imbattersi in animali nevrotizzati dalla vita d’appartamento”
“Detesti i cani?”
“Ne ho sei. Ma li lascio vivere tranquillamente la loro vita senza interferire troppo. Amo rispettare le diversità.”
“Mi sembra una buona base per una amicizia sincera”
“Già. Posso farti una domanda?”
“Sì, a patto che sia sufficientemente indiscreta”
“Se tu fossi gay saremmo una coppia perfetta. Comunque, perché te e Penelope vi siete abbandonati e cercati e aspettati per tutti questi anni?”
“Alquanto indiscreta direi. Non lo so. Pensi che lei mi abbia aspettato?”
“René, è evidente, palese, cristallino. Dunque, che è successo tra voi?”
“Abbiamo litigato, come si dice? per futili motivi e poi eravamo talmente orgogliosi che non abbiamo avuto il coraggio di ammettere che eravamo due cretini”
“Lo siete ancora, per quanto concerne i sentimenti intendo”
“Ci vai leggero con le parole, eh?”
“Non volevo offenderti è che, beh ecco, avete intenzione di trascorrere qualche altro lustro prima di capire che sarebbe il caso di, che ne so, uscire a prendere una pizza, un aperitivo, un gelato?”


22.

Forse aveva ragione Paolino ma René non voleva entrare in qualche vortice di speranze disattese. Voleva pensare al suo lavoro, ai suoi interessi.
Tornare in Italia non era stato semplice anche se aveva trovato subito un’occupazione.
Gli mancavano molte cose del Belgio, riabituarsi alla mentalità italiana non era stato così semplice. La disorganizzazione strutturale nella vita quotidiana può essere scomoda.
Aveva dovuto imparare nuovamente a guidare.
Utilizzare un’autovettura anziché contare sull’efficienza del trasporto pubblico e sulla possibilità di camminare a piedi o muoversi in bicicletta non gli garbava punto.
La mancanza generalizzata del senso della cittadinanza attiva lo disturbava anche nei piccoli gesti. Trovava inaudito, ad esempio, doversi accertare che le auto si sarebbero fermate davanti alle strisce pedonali.
È così difficile capire che se ci sono delle strisce pedonali e c’è una persona in procinto di attraversare la strada è necessario rallentare, fermarsi?
Le vie degli antichi romani hanno resistito per millenni, quelle moderne hanno un asfalto che pare idrosolubile, i marciapiedi sono un concetto astratto e chi va a piedi viene spesso considerato un eccentrico o qualcheduno che ha qualche problema, di ordine economico o di socialità.
La mancanza di bagni decenti nei luoghi pubblici delle grandi città, inoltre, lo infastidiva alquanto.
Cibo, clima e generale solarità delle persone, oltre alla straordinaria bellezza paesaggistica e architettonica del Paese aiutavano ad affrontare i tanti disagi dell’inciviltà statale.
Ascoltare l’italiano ovunque, seppur bistrattato da una generica disaffezione verso la propria cultura, era piacevole ma non poteva fare a meno di roteare gli occhi quando udiva scempi nella coniugazione verbale. In casa era abituato a parlare decentemente, era una forma di rispetto.
La presenza di Penelope, certo, gli aveva in qualche modo riaperto uno spiraglio di felicità interiore che aveva riposto in un qualche angolo nascosto del suo essere ma questo non c’entrava con quello che diceva Paolino e che forse pensava anche Lauretta. Il detto latino “vox populi vox dei” gli venne involontariamente in mente ma scacciò il pensiero con uno scotimento di testa, naso e labbra serratissime.  


23.

Brigida aveva deciso di fare un bel discorsetto a suo fratello Guccio. Anche se a lui Paolino piaceva, lei non lo avrebbe mai chiamato in quel modo. Era orgogliosa del suo nome, testimonianza di antiche origini toscane di cui andava fiera.
Era più che evidente che quel Renato, che si faceva chiamare René, lo aveva abbindolato coi suoi pizzi e merletti e discorsi vacui su un qualche altrove ma lui non avrebbe dovuto dare scandalo in paese.
Se era proprio in quel modo, come diceva suo marito, buonanima, che l’onnipotente l’abbia in gloria, lei non ne aveva colpe e chiunque, nel gruppo di preghiere, nel coro, e nella confraternita avrebbe potuto testimoniare i suoi enormi sforzi per riportarlo sulla giusta via.
L’unica possibile, l’unica che non andasse contro natura e che rispettasse la suprema volontà, checché ne dicessero certi religiosi che si definivano ‘moderni’.
Ora, va bene tutto, ma che cosa c’entrasse la modernità con la negazione della normalità non lo aveva né lo avrebbe mai capito.
Era assolutamente fuori discussione che il fatto che lei guidasse la sua automobile, caricasse la lavastoviglie e andasse ad esercitarsi nelle simulazioni di guerra tutti i giovedì avesse qualcosa a che fare con, beh sì insomma quella cosa lì, la sodomia, che solo a pronunciare la parola le venivano i brividi di ribrezzo dietro la schiena.
Oh, ci aveva davvero provato in tutti i modi, con le buone e con le cattive. Aveva chiamato specialisti e negromanti ma non c’era stato proprio niente da fare, per il momento.
Certo, l’arrivo di quel cicisbeo non aveva fatto gioco alla sua santa causa di redenzione.
Lauretta l’aveva poi fatta proprio andare su tutte le furie, sembrava che fosse stata lei a dire che era una persona ammodo. Certo, lei con tutti quei mariti e quei divorzi cosa fosse la normalità non l’aveva mai veramente capito ma da qui ad avallare quella cosa lì ce ne passa, oh se ce ne passa.
Li avevano anche visti insieme nel parco, che sfacciataggine, non aveva per niente pensato alle conseguenze per i suoi nipotini a scuola, che già avevano avuto le segnalazioni dalla preside per, come si chiama adesso, ah sì, bullismo. Soltanto poi perché avevano reagito alle infamanti accuse rivolte alla loro madre, che tesori. Sì, certo, il più grande era un po’ irruento, forse appiccicare l’insegnante all’appendiabiti per non avergli consentito di digerire apertamente e sonoramente in classe era stata una reazione un po’ troppo virile. Ma almeno li stava crescendo maschi, nel pieno rispetto delle leggi divine.
24.

Donna Lia era conosciuta, rispettata e vagamente temuta in tutto il paese e dintorni.
Le sue osservazioni, i suoi appunti, quando espressi apertamente, se così si vuol chiamare il complesso di formalità di cui ammantava le proprie frasi, erano vere e proprie sentenze, il più delle volte senza appello.
Non c’era evento, mondano o privato, che avesse una certa rilevanza sociale a cui lei non era invitata caldamente a partecipare.
La sua presenza era garanzia di buona reputazione e solida aderenza ai dettami delle tante leggi non scritte di bon ton.
Qualcuno, non senza invidia, asseriva che fosse invece garanzia di noia e ingessata formalità. Con lei spaparanzarsi al sole su un bel plaid a cantare e ballare a piedi nudi sarebbe stato impensabile. Si poteva, certamente, organizzare un pic-nic ma con stile ed eleganza, il che equivaleva, per i maligni di cui sopra, ad una odiosa ostentazione di oggetti modaioli e di pregio, conversazioni laccate e grandi sbadigli.
Una significativa alzata di sopracciglia metteva a tacere le chiacchiere meschine di chi, sbandierando libertà, non faceva altro che intaccare le conquiste di educazione dell’era moderna.
Al giorno d’oggi anche una persona di estrazione se non infima comunque bassina poteva, con le dovute accortezze, adeguarsi, apprendere quelle regole di comportamento che distinguono l’uomo dai cavernicoli, possibilmente andando a reprimere con disciplina ed esercizio costante l’elemento dionisiaco, i sentimenti, gli istinti primordiali.
A cominciare dal cibo e dalla repressione di quei bassi istinti che molti confondevano con l’amore. Figurarsi, come se un abbraccio appassionato potesse garantire la retta dell’università!
Esercitare la propria volontà con rigorosissime diete, preparando piatti elaborati, scenografici era inoltre un suo punto fermo.
L’arrivo di René, così disinvolto ed elegante, tanto diverso da lei avrebbe forse potuto incrinare il suo prestigio tanto faticosamente conquistato ma lei avrebbe saputo certamente come irretirlo e inserirlo nella sua cerchia di conoscenze così da poterne controllare movimenti e impatto degli stessi su quello che lei, in base a sue personalissime teorie, aveva assurto a suo territorio.


25.

Dal giorno dell’inaugurazione Penelope si sentiva più leggera. La cupezza che le attanagliava il cuore da un tempo di cui non ricordava l’inizio si era improvvisamente diradata, un po’ come la bruma nelle mattine d’autunno.
Le era sempre piaciuto guardare la nebbia che avvolgeva i paesaggi rendendoli per qualche tempo invisibili, diversi.
I contorni, le linee di confine tra spazio ed elementi che lo compongono parevano smussarsi fino a dissolversi per poi riaffiorare alla superficie dell’immanenza.
Le sembrava che in quelle ore, in quegli istanti anche lei potesse diventare indistinto elemento del tutto e che il tutto divenisse partecipe di quel sentimento di incompiutezza che ne contraddistingueva l’umore da qualche tempo, non avrebbe saputo dire quanto, forse da quando René se n’era andato la prima volta, ma non ne era certa e comunque non voleva pensarci.
Non aveva mai veramente dato peso a quella sensazione di parzialità costante che ne attenuava la forza passionale, una caratteristica forse discutibile ma peculiare del suo essere. Ultimamente aveva imparato a reprimerla per non lanciarsi più in qualche progetto che le prosciugava le energie e alla fine non la soddisfaceva mai fino in fondo anche se gli altri pensavano che tutto fosse straordinariamente ben fatto, e in così poco tempo!
I suoi occhi erano febbrilmente vivi, sembrava la stessero cercando.
Non voleva farsi illusioni.
Sarebbe stato bene tenere i remi saldamente in barca.
Per il momento avrebbe evitato di andare nella bottega.
Almeno fino a quando non avesse chiarito con sé stessa le sue priorità.
La camminata mattutina l’aveva aiutata a pensare nel giusto modo.
Era anche un po’ stanca, aveva fatto un giro ben lungo.
“Penelope, ciao, che piacere vederti, entra, entra a prendere una tisana con noi”
Era proprio la voce inconfondibile di Muriel.
Il suo sguardo aveva vagato in cerca di una spiegazione plausibile fino a fermarsi sull’insegna pitturata a mano.
“Ti piace l’insegna? L’ho dipinta io, dai entra, ti vedo un po’ stanca”
Entrò e riuscì a balbettare, tra la soddisfatta curiosità di Lauretta e la preoccupata premura di Carmencita, che sì, era un po’ stanca perché aveva camminato a lungo per un motivo che non riuscì a precisare.
René era andato a prendere qualcosa da mangiare visto che Paolino aveva dovuto correre dalla sorella Brigida per qualche questione urgente.
Penelope si rilassò sapendo di avere qualche minuto a disposizione per elaborare una scusa plausibile ma le sue riflessioni vennero intercettate dagli occhi di Lauretta che sapeva benissimo in che modo intrattenere una lunghissima conversazione con una persona senza destare sospetti e soprattutto senza lasciar via, né tempo, di fuga.
Muriel e Carmencita le ressero il gioco, pur non essendo edotte sui particolari avevano ben capito la situazione e, senza neanche bisogno di un cenno d’intesa, avevano iniziato un vero e proprio balletto di parole e battute cui Penelope non avrebbe potuto sottrarsi.


26.

Cosa volesse mai Brigida da Paolino era presto detto: gli avrebbe fatto una bella lavata di capo stavolta e non avrebbe lasciato correre come avevano sempre fatto i loro genitori.
La presenza del fratello nella bottega era quanto mai sconveniente, le persiane e le serrande del paese la schernivano già.
Ne era più che certa.
Sant’Anselmo di Canterbury e San Sebastiano non avrebbero potuto proteggerlo dagli sguardi pettegoli e cattivi delle malelingue.
Dapprima aveva pensato che Guccio fosse un’emanazione del maligno ma poi si era convinta che fosse un’espressione della volontà dell’Altissimo per mettere alla prova la sua fede in Lui. Ah ma avrebbe potuto star certo che lei non si sarebbe fatta scrupolo di dimostrare tutta la sua pia devozione in qualunque modo avesse potuto, l’ispirazione e la guida gliel’avrebbe infusa tutto il suo amore per Santa Caterina da Siena.

“Guccio carissimo, che piacere vederti. Ti trovo sciupato, che fai mangi poco?”
“Brigida cara, dici? Te sei in splendida forma invece.”
“Forse hai bisogno di mangiare qualcosa di buono, ben cucinato”
“A proposito, quasi dimenticavo. Ti ho portato una Sacher fatta con le mie mani, so che ti piace tanto. La panna d’alpeggio non l’ho trovata, mi spiace, per cui ho dovuto acquistare quella di allevamento, non intensivo s’intende ma il sapore è leggermente diverso. Anche il burro, ho usato il crudo della fromagerie Saint Xavier ma non è la stessa cosa.”
“Oh grazie, non dovevi disturbarti”
“Nessun disturbo, sai che cucinare mi rilassa. Ho preparato pure qualcosa di salato ché tanto tu coi fornelli hai litigato da tempo immemore, non te ne avere a male Brigidina cara ma prevenire è meglio che curare”
“No, no, figurati. Ecco appunto, Guccio, prevenire è meglio che curare”
“Brigida allora che ti è capitato stavolta?”
“A me assolutamente niente. Comunque la differenza col il burro d’alpeggio la senti soltanto tu questa Sacher è squisita.”
“Mi fa piacere che ti piaccia. Ognuno ha i suoi gusti… oh santa miseria ti è andato per traverso, sei diventata paonazza”
“No, tutto bene, tutto bene. Senti Guccio, la mia è una convocazione in piena regola”
“Ah tesoro, lasciami stare che ho le lune storte da qualche giorno”
“Da quando ha aperto il negozio di quella tua amica senza vergogna?”
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ricordi? Comunque immagino tu stia parlando di Lauretta.”
“Proprio! E ha pure portato il prete sulla cattiva strada, in chiesa si è risposata per ben quattro volte, senza neanche avere la buona creanza di…”
“…di uccidere il marito come la tua amica?”
“Non lo ha ucciso”
“Gli ha semplicemente somministrato una zuppa di galerina marginata e cortinarius speciosissimus con secondo di botelus satanas e contorno di carpaccio di amanita verna, così tanto per non sbagliare”
“Non è colpa sua se non conosce i funghi”
“Per raccoglierli è necessaria una apposita licenza, un patentino”
“E lei li ha raccolti lo stesso, ma una cosa è una multa per mancanza di patentino raccogli funghi e un’altra un’accusa di omicidio”
“Già già, la vedova inconsolabile. Dov’è adesso?”
“L’ultima cartolina l’ha inviata dalle Cayman”
“Ah, dimenticavo che il nuovo consorte è un trafficante d’armi”
“Non è un trafficante d’armi, lavora per una importante multinazionale”
“Che produce armi”
“Non le fabbrica mica lui”
“Certo, certo”
“Sei impossibile”
“Che volevi dirmi?”
“Ti volevo chiedere di quel René”
“Tranquilla, è etero. Non ti chiederò di farmi da testimone di nozze per il momento, puoi mangiare la Sacher con tutta la serenità che richiede”
“Non è questo il punto”
“Brigida, anch’io ti voglio bene pure se sei una bigotta con ossessioni ricorrenti, ora devo andare”
“Guccio, non ho finito!”
“Ciao Brigidina cara, stammi bene e saluta le amiche di preghiera”
“Guccioooo!”


27.

“Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non quello che trova. Pensavo di prendere una scorciatoia e invece mi sono perso tra le case costruite di recente. C’erano prati e canneti quando ero ragazzetto e adesso sembra una nuova città. Comunque eccomi qua, croissant e ciambelle… direi tiepide. Ciao Penelope, che ci fai qui?”
“Ciao René, ma niente, stavo facendo una camminata e mi sono persa, poi ho chiacchierato un po’ con Carmencita, Muriel e Lauretta…”
“Ah e dove sono adesso?”
“Sei nella bottega, ma ti senti bene?”
“No, dico, dove sono loro adesso?”
“Come dove sono loro… adesso… già, dove sono loro adesso?”
“Forse sono venute a cercarmi?”
“Me lo avrebbero detto, penso”
“Già. Sei sicura di star bene?”
“Sì sì, tolgo subito il disturbo, tranquillo, magari tu pensi che io stessi parlando con… non so con il mannequin. Io veramente quando mi sono accorta di essere arrivata qui avrei voluto proprio andarmene e non so perché… stavo passeggiando per godere un po’ di aria frizzante… sai è… è tonificante e poi pulisce la mente e manda via le nubi… cioè non che io abbia le nuvole in testa di solito è che avevo voglia di camminare”
“È un’ottima abitudine”
“Cosa?”
“Camminare e perdersi nei propri pensieri nebulosi per poi ritrovarsi in un posto che si stava cercando di evitare, è così?”
“No, che c’entra a me questa bottega piace moltissimo, è carina, non stavo cercando di evitare proprio un bel niente è che”
“Anch’io stavo cercando di evitarti”
“Ah ma io proprio non so di che parli”
“Non stavi cercando di evitarmi?”
“Proprio no, cioè non ti sono venuta a cercare, stavo semplicemente facendo una camminata e mi sono trovata qui, poi Lauretta e Muriel e Carmencita… ma dove saranno adesso?... hanno iniziato a parlare e non la finivano più, non che non mi piaccia discorrere con loro ma già avevo fatto un giro lungo e l’unica cosa da fare sarebbe stata tornare a casa”
“Vuoi un croissant o preferisci una ciambella?”
“Scusa?”
“Ho portato la colazione ma se loro sono uscite per qualche incombenza intanto potremmo spizzicare qualcosa. Io ho una fame e se tu hai fatto un giro così lungo avrai probabilmente bisogno di mangiar qualcosa”
“Ah, beh, sì, perché no?”
“Quale preferisci?”
“Non saprei”
“Facciamo così: prendiamo mezza ciambella e mezzo croissant per uno, ti va?”

Muriel, Lauretta e Carmencita si erano praticamente dileguate lasciando a Penelope e René tutto il tempo, e l’agio, di fare colazione insieme.



28.

“Pensi che si siano accorti che siamo uscite dalla porta di servizio?”, chiese ridacchiando Carmencita che non si sentiva così allegra da quando era una ragazzina, le era sembrato di tornare ai tempi di piripiribozza, cucciolapentola e di quegli altri giochi scemi che si facevano in paese.
Giocare a campana o fare le figure con l’elastico nel cortile della scuola le era sempre piaciuto tanto, era bravissima ma aveva quasi dimenticato la spensierata gaiezza di quei pomeriggi, almeno fino a quel momento.
“Non mi sembra che si siano premurati di venirci a cercare” rispose Muriel ridendo sguaiatamente.
“Vabbe’, che dite li andiamo a disturbare un po’?”, propose maliziosamente Lauretta.
Aspettarono quel tanto che bastava per farle smettere di gongolare e ridacchiare e si incamminarono verso la bottega ma dovettero tornare indietro un paio di volte perché continuavano ad avere la ‘ridarella’.
Quando entrarono nella bottega avevano gli occhi felici, birichini e inumiditi dalle lacrime ma cercarono di darsi un contegno con qualche colpetto sui fianchi o un pizzicotto di quando in quando.


29.

“Oh René, sei qui, ma dove sei andato a compare i cornetti?” chiese con aria innocente Lauretta
“Penelope, scusa se ti abbiamo lasciato sola ma vedo che hai trovato compagnia”, rincalzò Muriel mordendosi la lingua per non ridere
“Buongiorno, no ma io stavo proprio per andar via”
“Ma no, che dici, prendiamo un caffè”, la fermò Carmencita che si stava ormai divertendo moltissimo.
“Chi la fa l’aspetti”, affermò René aggiungendo “so che siamo tutti quanti a dieta ma queste ciambelle sono proprio soffici e i cornetti così ben sfogliati…”
“Ma sì dai, faremo uno strappetto alla regola. Passami la bomba con la crema al cioccolato” rispose ridendo Lauretta guardando Muriel di sottecchi
“Magari Lauretta quella al cioccolato la mangio io, tu prendi il cornetto vegano”, la rimbrottò Carmencita che sembrava tornata bambina
“No, il cornetto vegano no, dai”
“Sì, il cornetto vegano sì”, asserì Muriel mettendole la pasta tra le mani e togliendole così ogni speranza di tuffarsi nella più grassa e calorica brioche.
“Io devo proprio andare, davvero o farò tardi per… per”
“Rimani, tanto queste tre pesti non ti lasceranno andare, anzi sai che ti dico?, posso accompagnarti?”
“Dove René?”
“Ovunque”


30.

Lauretta era soddisfatta e felice. Avrebbe proprio voluto vedere Guccio, detto Paolino, e chiacchierare con lui per tutta la notte, raccontando per filo, per segno e con parecchia fantasia, quello che era accaduto quella mattina. Sembrava che tutto avesse improvvisamente iniziato ad avere un senso compiuto.
Paolino però non sarebbe tornato prima di tre giorni e parlare attraverso qualche mezzo elettronico non era nella natura della loro amicizia.
Attese pazientemente e si accorse che la sua vita era sempre stata piena di tante passioni e poco amore. Si incupì, la sua proverbiale allegrezza sembrò svanire d’incanto insieme alla sua voglia di fare. Decise che avrebbe trascorso le ore che la separavano dall’incontro col suo amico in apatico torpore.
“Buongiorno Muriel, ma erano René e Penelope quelli che ho visto uscire poco fa?”
“Buongiorno Paolino, ma non dovevi essere all’estero? Va di là che Lauretta ha deciso di chiudersi a riccio, magari se ti vede potrebbe cambiarle l’umore”
“Corro”

Quando lo vide un sorriso luminoso la trascinò via dai suoi pensieri aquilone e la riportò alla sua abituale gaiezza.
Si mise a parlare fitto fitto cercando di non ferire il suo amico Guccio, il quale cercò di consolarla asserendo che era rimasto con una scusa perché aveva incontrato una persona ammodo. Forse non sarebbe stato campane e abito bianco ma si piacevano. Le mostrò le foto e le raccontò che faceva l’aviatore.
“Bellino è bellino, sembra pure simpatico ma dici che è fedele?”
“Potrebbe e comunque questo dovrai dirmelo tu”

Le comunicò tutti i dettagli che aveva potuto apprendere. Lauretta era galvanizzata dalla nuova missione in cui si sarebbe lanciata con gran fervore chiudendo per sempre la porticina del rimpianto, della saudade, per il grande amore che non aveva, e forse mai avrebbe, incontrato.


31.

Carmencita sistemò la bottega con la solerzia che la caratterizzava quando decideva di rimettere a posto qualcosa di importante.
La presenza di René aveva scombussolato fin troppo le sue convinzioni, i suoi piani e le vite delle sue socie e migliori amiche.
Si sentiva un po’ più fiduciosa nelle persone, questo sì, e aveva anche riso come non le capitava da tantissimi anni, era vero, ma…ma forse non c’era proprio nessun ‘ma’, avrebbe dovuto ammettere che era felice, tutto sommato, della sua presenza.
Non avrebbe mai creduto, se gliel’avessero raccontato, che avrebbe provato un senso di benessere anche grazie ad un uomo che non era uguale a tutti gli altri, che poi, a ben guardare, neanche gli altri erano proprio tanto simili, anche loro avevano sentimenti, esigenze, paure, pensieri. Beh, magari meglio non esagerare. La stragrande maggioranza rientrava nelle categorie in cui li aveva relegati e non avrebbero dovuto intrecciare il placido scorrere della sua esistenza.
Aveva che suo marito aveva talune fragilità che tentava di mascherare dietro una facciata di cliché. Per qualche istante le era sembrato che lui detestasse le partite e guardare gli sport ma che lo facesse perché così avrebbe avuto qualcosa di cui parlare con gli altri mariti che ben sapevano di non dover forzare gli steccati che dividevano il loro mondo dall’universo delle loro consorti.
Provò a parlargli della bottega, lui la guardò smarrito, cercando un appiglio cui aggrapparsi nel caso avesse fornito la risposta sbagliata. Carmencita gli stava raccontando qualcosa di sé e lui non sapeva davvero come reagire. Avrebbe dovuto preoccuparsi o dimostrare interesse? Ricordò una barzelletta che aveva letto da qualche parte, le porse un bicchiere di vino e le avvicinò qualche stuzzichino senza offrirglielo, non era certo che le piacessero, se stesse facendo una qualche dieta che proibiva proprio quel cibo. Il movimento fu cauto e circospetto, Carmencita notò per la prima volta la quantità di attenzioni che racchiudeva quel semplice gesto, le venne spontaneo accarezzargli la mano. Lui non la mosse, non poté fare a meno di spostare lo sguardo a destra e sinistra, alternativamente, lei intrecciò le loro dita e con l’altra mano gli assestò una carezza sul volto. Lui era in tilt, non capiva il perché di tanta improvvisa dolcezza, gli piaceva ma non sapeva cosa lei si aspettava che lui facesse. Non voleva interrompere quel momento: era rilassante, gradevole. Le disse che era molto orgoglioso di lei.


32.

Muriel osservò soddisfatta l’insegna.
“Il Chiacchierino” era proprio quello che avrebbe voluto, una bottega, non un negozio dove acquistare cose che poi si lasciano da qualche parte, distrattamente.
Un refolo di vento le scompigliò i capelli.
Provò una gran voglia di concedersi un lusso.
Salutò le sue amiche e socie e si recò senza indugio verso la sua meta.
Entrò in libreria, acquistò un romanzo, si accomodò ad un tavolino, ordinò una bella centrifuga di frutta e trascorse il pomeriggio a leggere.


33.

“Voglio che tu sia sincero”
“Lo sono sempre stato”
“Uhmm è vero ma voglio sapere una cosa”
“Dimmi”
“Perché te ne sei andato?”
“Perché me ne sono andato?”
“Eh, sì”
“Hai la memoria corta, vedo”
“Non ho la memoria corta, non pensavo che…”
“…che avrei preferito andarmene?”
“Ma preferito a che cosa, scusa?”
“Che vuol dire a che cosa ma non ricordi che non mi volevi più vedere né sentire?!? Io continuavo a portarti fiori, sembravo quel personaggio maschile della Canzone di Marinella che ‘bussò cent’anni ancora alla tua porta’ e non ti degnavi neanche di parlarmi”
“Ah io? Devo proprio avere la memoria corta perché mi pareva il contrario sai…”
“Ti propongo un gioco”
“Dimmi”
“Facciamo che invece di rinfacciarci cose accadute qualche lustro fa decidiamo di goderci la vita ed essere felici insieme?”


34.

Penelope ebbe un sussulto quando vide arrivare René con un cestino di vimini intrecciato a mano, rivestito con un canapone rifinito all’uncinetto e foglie verdi a forma di cuore, colmo di frutti arancioni.
Appena li ebbe assaggiati un senso di vertigine la avvolse tra le spire di un déjà-vu che la riportò anni indietro.
Il sapore delle albicocche mature colte di primo mattino è indimenticabile, fresco, dolce e asprigno al contempo, una di quelle sensazioni che rimangono impresse nella memoria emotiva.
I suoi genitori avevano acquistato un marchingegno per preparare ottimi succhi di frutta e quell’anno gli alberi si erano orgogliosamente gonfiati di succulente prelibatezze. Appena svegli andavano nel giardino, non lontano dalle mura, raccoglievano quelle bontà… quante ce n’erano! 
La cucina era un trionfo di arancione e verde, il grande pentolone per marmellate e conserve sempre in giro, l’odore dolciastro si univa alla spensierata allegrezza di quell’estate.
Lei era appena all’inizio della sua pubertà, stava diventando una splendida giovane donna ma non se n’era ancora avveduta.
Sua madre, le sue zie e le sue cugine più anziane la motteggiavano ma lei non capiva perché le dicessero tutte quelle sciocchezze.
Un giorno era tornata a casa con il volto livido, le labbra tremanti e un broncio nouvelle vague.


35.

“Amore che è successo, che è quella faccia?”, aveva chiesto preoccupata sua madre
“Ah niente, figurati”, aveva risposto Penelope piccata
“Cosa devo figurarmi?”
“Niente di niente di niente”
“E cos’è questo niente di niente di niente?”
“Ah non te ne sei accorta?”
“Di cosa tesoro di zia?”, era intervenuta preoccupata la zia
“Non vedi come sono vestita?”
“Perché come sei vestita?”, s’era intromessa Gaia la più anziana tra le sue cugine
“Non ti ci mettere anche tu!” aveva replicato piccata Penelope
“Ma perché che ho detto?” aveva risposto Gaia andando ad aprire un pacchetto di patatine
“Dai Penelope, non la tirare per le lunghe, che è successo?” aveva chiesto Laura, la più giovane tra le cugine più anziane
“Mi guardavano tutti quanti!”

Una risata liberatoria aveva riempito lo spazio sonoro della stanza e i cuori delle donne, Penelope le aveva guardate con due occhi offesi da adolescente incompresa, la zia si prese la briga di spiegarle:

“Amore di zia, sei piccola ma sembri già una donna e sei bellissima, è per questo che ti guardavano”



36.

René non l’aveva guardata, ne era certa. Non si era proprio accorto di lei neanche quando, di proposito, si era vestita di tutto punto, aveva acconciato i capelli e si era anche truccata un po’, non troppo, giusto per sentirsi più carina.
Aveva indossato il vestito che le aveva regalato sua nonna, di seta con inserti in pizzo a contrasto.
Nonna Egeria aveva cercato di aggirare il divieto della madre di Penelope a crearle il corredo regalandole di quando in quando un vestito, una sottoveste o un asciugamano particolare e così aveva, come si suol dire, salvato capra e cavoli.
I fiori corallo e acquamarina si modellavano voluttuosi intorno alle rotondità sode e morbide della sua giovane età mettendo in risalto le labbra carnose, gli occhi vivaci.
Un’eleganza naturale, unita alla goffezza adolescenziale, traspariva dal modo in cui si muoveva, la seta le scivolava morbidamente sul corpo, Penelope riabbassava l’orlo che si era alzato troppo spingendolo in basso con il palmo delle mani.
Le gambe si muovevano incerte su scarpe troppo serie per la sua indole, alternando slanci da valchiria a passetti da geisha.
Il trucco le illuminava il volto ma ne offuscava in qualche modo la gentilezza nei lineamenti.
Aveva convinto Lauretta, che non era mai struccata neanche in casa e si raccontava che subito dopo il travaglio chiedesse sempre uno specchietto per controllare trucco e parrucco, ad insegnarle le arti cosmetiche ma in cambio aveva dovuto fare lo slalom tra le tantissime domande sul motivo di tale richiesta.
Come prevedibile, Lauretta aveva compreso ben prima di iniziare il suo personalissimo, e molto raffinato, interrogatorio, cosa stesse accadendo e dentro di sé gongolava di contentezza.





37.

René aveva deciso di prendere lezioni di flauto traverso, voleva, doveva imparare a suonare o Penelope non lo avrebbe mai neanche degnato di uno sguardo con quegli occhi che gli facevano ribollire il sangue soltanto a pensarci.
Quando l’aveva vista camminare un po’ sghemba con quel vestito addosso il suo unico pensiero era stato come trovare il modo di diventare interessante per lei. Voleva stupirla, intrigarla, farla innamorare di lui e inebriarla come lei lo aveva stregato fino a fargli perdere il sonno.
Non era stato facile addormentarsi dopo aver annusato il suo odore nel frusciare sensuale di quei fiori che scorrevano liberi sulla pelle di lei e che lui avrebbe tanto voluto trattenere tra le sue mani. I capelli e un filo di trucco avevano mostrato lo splendore assoluto degli astri che rilucevano appena sopra le labbra, tenero adito di denti forti e taglienti.
Si sarebbe impegnato senza sosta, avrebbe trovato il modo, la maniera per acquistare quello strumento, suonandolo avrebbe pensato soltanto a lei e gli sarebbe parso di poterla baciare attraverso la boccola dell’argentea testata.
Apollo dionisiaco avrebbe voluto divenire per poterla abbracciare e tenerla stretta a sé per l’eternità.
Aveva sentito Penelope suonare il pianoforte in biblioteca, era bravissima e René non voleva sfigurare.
Ebbe una vertigine immaginandola vestita in quel modo con le mani sulla tastiera bianca e nera, il mondo girava velocemente e lui non aveva intenzione alcuna di scendere.
Decise di costituire un gruppo musicale anche se non sapeva ancora suonare bene. Avrebbe imparato col tempo.
Intanto, si sarebbe fatto crescere i capelli.




38.

“Ciao”
“Ciao, che fai di bello?”
“Sto andando in biblioteca”
“Davvero?”
“Sì, vorrei suonare un po’”
“Ah beh, certo, l’allenamento è importante”
“Sì, dicono che si dovrebbe suonare tutti i giorni”
“Ma non ci si riesce mai, eh?”
“Già, chissà perché”
“Perché suoni sempre in biblioteca?”
“Oh bella, perché lì hanno un pianoforte”
“E tu non ce l’hai un pianoforte?”
“No, ho una tastiera”
“Non è la stessa cosa, certo”
“L’hai notato anche tu? Voglio dire, una cosa è fare gli esercizi sulla tastiera, e va benissimo, ma poi il pianoforte è tutta un’altra sonorità”
“Io sto cercando di mettere su un gruppetto ma è sempre complicato”
“Suoni?”
“Sto imparando, cioè voglio imparare il flauto traverso”
“È uno strumento molto bello, difficile produrre i suoni all’inizio ma una volta che hai capito il meccanismo pare sia splendido, un po’ come il violino, entra in risonanza con il corpo del musicista”
“Ti accompagno se vuoi?”
“Al piano?”
“In biblioteca, devo fare delle ricerche”
“Volentieri”
39.

“Penelope?”
“Dimmi Renato”
“Pensi davvero che imparare a suonare il flauto traverso sia tanto difficile?”
“Più che è altro è abbastanza frustrante all’inizio perché soffi soffi e il suono non esce”
“Ma non è uno strumento musicale?”
“Che richiede molta dedizione”
“Pensi che io sia incostante?”
“No però se debbo essere sincera…”
“Dimmi”
“Non credo che potrai imparare decentemente prima di tre o quattro anni di esercizi costanti”
“Tre o quattro anni è un tempo lunghissimo”
“Insomma”
“Da quanti anni suoni il piano?”
“Ho iniziato a cinque anni”
“Ecco perché sei così brava”
“Veramente non sono brava ma non mi importa perché suonare mi piace e mi rilassa”
“In paese dicono tutti quanti che sei bravissima”
“Qualche tempo fa avrei voluto diventare una pianista, sai?”
“E?”
“E poi ho capito che non sarei mai stata eccellente e mi sarei dovuta accontentare, con molti sforzi, di essere una buona pianista senza arrivare mai ad essere sublime e allora non vale la pena rinunciare alla mia adolescenza per essere abbastanza brava ma non geniale, mi capisci?”
“Penso che ti sottovaluti e poi perché dovresti rinunciare alla tua adolescenza scusa?”
“Perché richiede tanto esercizio, per suonare bene devi farne tantissimo e per essere meravigliosa devi avere talento e fondamentalmente suonare tante ore e senza riposare neanche un giorno.”
“E quindi smetti?”
“No, lo faccio per mio piacere personale”
“Ma puoi sempre mettere su una band”
“Rock?”
“Perché no?”
“Verresti a vedermi suonare?”
“Sarei sempre in prima fila”
“Dai non fare lo scemo”
“Davvero. Comunque…”
“Che c’è?”
“Questo vestito ti sta benissimo”
“Grazie”


40.

“Prendo i libri che mi servono per la ricerca e vengo a sentirti suonare, va bene?”

Penelope non credeva alle sue orecchie, forse il vestito che le aveva regalato Nonna Egeria le stava portando fortuna, non avrebbe saputo dirlo, certamente non si aspettava che René le avrebbe chiesto una cosa del genere.
Sistemò lo sgabello, controllò i tasti e fece attenzione a come si sedeva.
Lauretta le aveva consigliato di portare con sé uno specchietto per ritoccarsi il trucco di quando in quando e diede ascolto alle sue parole.
Estrasse un piccolo beauty case dalla borsa, si pettinò i capelli, umettò le labbra carnose con la punta della lingua, ripassò il rossetto e limò le unghie.
Ripose di fretta lo scrigno di bellezza e tirò fuori gli spartiti che avrebbe voluto studiare quel giorno.
Cambiò rapidamente idea e ne scelse accuratamente uno che le riusciva particolarmente bene ma che voleva perfezionare.
Lo posizionò sul leggio, si scaldò le mani con esercizi, massaggi e respirazioni, e finalmente appoggiò le dita sinuose sui tasti bianchi e neri.
Si immerse nella concentrazione più profonda, cercando di dimenticare che René sarebbe potuto arrivare da un momento all’altro.
Le note si rincorrevano con grazia e veemenza, le armonie si mescolavano in un suono sempre più puro e nel giro di mezz’ora si radunò in biblioteca una piccola folla di curiosi.
Penelope non si avvide di niente, non si accorse della gente, non voleva neanche sapere se René fosse arrivato o meno. Per lei in quel momento tutto era soltanto espresso in forma di note, bianco e nero si alternavano, crome e semicrome le parvero, forse per la prima volta, le sue più fidate compagne. Suonò con maestria e sentimento, nella sala dove era posizionato il pianoforte non si sentiva neanche il respiro delle persone che si erano là radunate, lei proseguì per un’ora buona senza mai staccare lo sguardo dallo spartito e dalla tastiera.
Alla fine si fermò e guardò in cerca di René ma non fece in tempo ad intercettarne lo sguardo perché venne inondata da un applauso scrosciante.


41.

“Che mi dicevi prima?”
“Prima quando?”
“Quando mi hai detto che non sei tanto brava a suonare”
“Che non so suonare in modo eccellente”
“Ah beh allora tutto il paese è scemo”
“Che c’entra il paese?”
“E anche quel Maestro di musica è scemo”
“Ma che c’entra?”
“C’entra perché penso che noi non siamo scemi e tu sei una gran fifona”
“Fifona io?”
“Sì proprio”
“E di cosa avrei paura sentiamo un po’ che qui abbiamo Mister Coraggio”
“Hai paura di essere brava, più brava degli altri”
“Ah sì eh?”
“Sì e hai pure paura di iscriverti al Conservatorio”
“E perché, di grazia?”
“Perché hai paura che poi non saresti più una di noi ma saresti quella che tutti quanti si fregiano di conoscere perché è una musicista famosa”
“Tu non sai proprio di cosa stai parlando e sai che penso?”
“No, dimmi, che pensi?”
“Penso che tu non capisci niente!”
“E tu non vuoi suonare perché hai paura di quello che dice la gente”
“Non credo proprio sai?”
“E se studiassimo sempre insieme? Tu al piano e io in biblioteca?”
“Cioè?”
“Se invece di stare da sola a studiare il piano ci fossi anche io con te; ammesso e non concesso che te ne importi qualcosa di me”
“Sarebbe bello ma che ti direbbero i tuoi amici?”
“Che mi sono preso una bella cotta per una pianista bravissima”

Senza pensarci oltre la baciò sulla bocca, un bacio semplice, intenso a labbra serrate. Scappò via ridendo, lasciandola imbambolata, mentre diceva “Ci vediamo domani alla stessa ora”.


42.

Penelope si sentiva al settimo cielo, le sembrava di poter camminare sulle nuvole, i fiori sul suo vestito erano ali con cui librarsi in volo fin oltre il sistema solare.
Non soltanto René l’aveva notata ma l’aveva sentita suonare, l’aveva spronata a seguire i suoi sogni, le aveva promesso di studiare con lei e le aveva anche stampato un bel bacio sulla bocca.
Il suo sorriso le era entrato nel cuore come un raggio di arcobaleno e lei sentiva ancora ondate di piacere diffondersi dalla base della schiena fino alle braccia.
Guardò le sue mani e le parvero meravigliose, era come se non le avesse mai viste prima, senza neanche accorgersene tornò a casa di corsa.
Sua madre non le disse niente ma la guardò con un orgoglio malcelato dietro un burbero rimprovero per i capelli spettinati.
La notizia che in paese c’era una pianista giovanissima e piuttosto talentuosa era trapelata ben oltre i confini territoriali del paese ed era giunta alle orecchie allenate di Nonna Egeria prima ancora di varcare le mura della biblioteca.
Penelope si specchiò e si accorse di essere donna, giovanissima ma decisamente una donna e tale consapevolezza di sé le provocò una strana vertigine.


43.

Lauretta era su di giri, aveva saputo da fonti certissime che un talent scout o qualcosa del genere sarebbe passato casualmente in biblioteca un pomeriggio ed era riuscita a convincere Nonna Egeria a far confezionare un abito come si deve alla giovane Penelope.
Non le aveva spiegato il motivo ma le aveva fatto capire che forse stavolta Bea, la madre della talentuosa pianista, sarebbe stata troppo impegnata a crogiolarsi nell’orgoglio materno per sollevare obiezioni sulla questione del corredo.
Avevano trovato una seta splendida, morbida e luminosa, con una fantasia perfetta per la giovinetta e Lauretta si era industriata a cercare un cartamodello che potesse fare al caso loro, avrebbe dovuto mettere in risalto il volto di Penelope, le sue mani agili, i fianchi e i seni acerbe rotondità che si stagliavano su lunghe gambe allenate.
Erano riuscite nell’intento e quando Nonna Egeria portò il vestito Mamma Bea non oppose alcuna resistenza anzi era più che contenta.

“Meno male che ci hai pensato tu non sapevo più che fare”
“Perché, che è successo?”
“Ah, io non lo so, figurati se mi dice qualcosa ma l’altro giorno è tornata correndo, sembrava che fosse felicissima e il giorno dopo è arrivata con un muso lungo ma così tanto che rischiava di inciamparci sopra.”
“E come mai?”
“Mah dice che non ha niente da mettere… ha l’armadio stracolmo ma dice strane cose sul vestito che le hai regalato, pensa che le abbia portato fortuna e che adesso non sa più che indossare e… beh ci siamo passate tutte quante dai”
“Speriamo le piaccia…”
“Fammi vedere”
“Eccolo”
“Ma è splendido e dove l’hai trovata una seta del genere?”
“L’ho trovata”
“Hai fatto benissimo”


44.

Non sapeva nemmeno lui chi gli avesse dato il coraggio di baciarla ma l’aveva fatto ed era stato bellissimo.
Le labbra di Penelope erano molto più carnose e morbide e turgide di quanto avesse immaginato e lei era semplicemente fantastica.
René aveva deciso di riporre l’idea di imparare a suonare il flauto traverso in un lontano cassetto di desideri da realizzare forse un giorno, avrebbe soltanto fatto la figura dello scemo e ormai ne era certo: a Penelope lui piaceva.
Si era anche accorta del cambiamento nella capigliatura e lo aveva fatto parlare.
Se gli avessero chiesto dove avesse trovato il coraggio di dirle tutte quelle parole, davvero, non avrebbe saputo cosa rispondere.
Forse aveva esagerato ma qualcuno avrebbe dovuto spronarla, incoraggiarla, farle capire che è speciale, non soltanto ai suoi occhi.
Sentiva di aver fatto la cosa giusta.
Sua madre, vedendolo arrivare tanto emozionato, si era preoccupata lì per lì ma l’aveva lasciato libero di sprizzare gioia da tutti i pori e si era limitata a chiedergli se avesse voglia di acquistare qualcosa di nuovo da indossare o magari un profumo.
Un profumo era una di quelle cose cui non aveva mai pensato, stava forse diventando grande?


45.

L’idea del profumo gli era piaciuta molto.
Era uscito, aveva fatto il giro di profumerie, erboristerie e supermercati comparando prezzi e aromi e gli era venuto soltanto un forte mal di testa.
Non era riuscito a trovare niente di niente che, a suo avviso, sarebbe potuto piacere a Penelope.
Si concentrò dunque su qualche dettaglio unico, qualcosa che lei avrebbe certamente notato.
Entrò in tutti i negozi di abbigliamento del paese e, anche lì, non riuscì a trovare qualcosa che facesse alla bisogna.
Ad un primo momento di frustrazione si alternò uno scoramento quindi un’arrabbiatura rumorosa e infine la risoluta determinazione a risolvere altrimenti la questione.
Cosa avrebbe fatto?
Semplice, avrebbe chiesto a Lauretta.
Lei avrebbe saputo sicuramente escogitare una qualche soluzione anche se avrebbe dovuto trovare il modo di chiederle consiglio senza dare troppe spiegazioni.
No, anche quella era un’idea balzana.
Avrebbe domandato a sua nonna, la sartora.


46.

“Nonna?”
“Dimmi René, che c’è?”
“Senti, posso farti una domanda?”
“Certo basta che sia veloce ché devo consegnare un po’ di vestiti e ho il laboratorio tutto sossopra”
“Se vuoi posso aiutarti nel frattempo”
“Ma che idea carina e che vorresti fare nel laboratorio?”
“Non lo so, dimmi tu”
“Oh bella, guarda lì, li vedi quei cartamodelli?”
“I fogli di carta velina?”
“Sì quelli, ecco vedi se riesci a trovare il verso e mettili tutti a posto in quella cesta per favore”
“Non è difficile trovare il verso, basta capire qual è il capo e quale il piede”
“Oh, bella, tua madre non è mai riuscita a trovarlo quel verso”
“Davvero?”
“Ti risulta che sappia tenere in mano un ago?”
“Veramente… no”
“Ecco appunto”
“Senti, a me sembra che siano a verso così”
“E infatti lo sono. Come hai fatto?”
“Ho visto qual era il capo e qual era il piede e li ho messi a posto”
“Hai trovato subito il verso…”
“Sì, che c’è di difficile?”
“Oh bella è tutto lì, vedi, qualunque sia la fanciulla che ti fa palpitare il cuore, ehm scusa scusa, la questione che ti preme tanto, ecco, ogni persona e ogni cosa ha il suo verso, come i cartamodelli e la stoffa. Ecco vedi quella pezza di stoffa? Se dovessi tagliarla come faresti?”
“Penso che cercherei il punto in cui non si sfilaccia e si taglia meglio”
“Oh bella, la taglieresti per il suo verso”
“Penso di sì perché?”
“Perché tu da domani vieni a bottega da me, sei bravo. Comunque, se sai capire una stoffa guardandola appena, saprai anche capire quello che ti preme. A proposito, sarà mica la pianista di cui parla tutto il paese?”
“Nonna!”
“Oh bella e che ho chiesto?”


47.

I talent scout erano arrivati, avevano cercato, invano ovviamente, di camuffarsi tra i paesani che, sempre più numerosi, si radunavano ad ascoltare la giovane pianista.
Nonna Egeria le aveva miracolosamente fatto giungere il vestito nuovo e l’aveva baciata sulla fronte, quasi a volerle stampigliare una bella stella d’amore.
Penelope si sentiva agitata ma in suo soccorso arrivò René che la guardò estasiato, le pupille di lei si spostarono verso il basso a schivare il rossore che le stava invadendo le gote.

“Che bello questo vestito, Nonna Egeria?”
“Sì, s’è sbizzarrita”
“Me l’ha detto mia nonna”
“La sartora? Avrei dovuto immaginarlo”
“Vuole che vada a bottega da lei sai?”
“A bottega?
“Sì per imparare il mestiere”
“E il flauto traverso?”
“Non fa per me”
“Ma non era un tuo sogno?”
“Posso confidarti un segreto?”
“Penso proprio di sì”
“Mi prometti che non riderai di me?”
“Dimmi”
“Promettimelo”
“Prometto che non riderò di te”
“Volevo studiare flauto traverso per far colpo su di te: sembra che la musica sia la tua passione e ho pensato che mi avresti notato ma forse potrei piacerti anche come sartore, che dici?”


48.

“Hai riso! Ecco, vedi, non avrei dovuto dirtelo, sono stato un cretino e adesso tu penserai che..”
“Io penso che ho fatto di tutto per farmi notare da te ed ero convinta che tu non ti fossi mai neanche accorto di me…”
“Ah sì?”
“Che scemi eh?”
“Parecchio… adesso andiamo però… ho la sensazione che qualcuno sia venuto a vederti oggi, o almeno così si vocifera in paese”
“Chi sarebbe questo qualcuno?”
“Un paio di talent scout pare”
“Per cosa?”
“Non lo so però in giro si dice questo”
“Per me?”
“Se vuoi posso provare ad intrattenerli col flauto traverso ma….”
“Ma se non hai neanche il flauto!”
“Già, penso sia il caso che li incanti tu”

Odiava quel suo modo di fare, quella sua insostenibile languidezza quasi a dirle che lei ce l’avrebbe fatta, senza ombra di dubbio.
Ne era innamorata, di questo era più che certa ma non era convinta di poter davvero ammaliare qualche talent scout.
Penelope era piuttosto dubbiosa sulla sua effettiva capacità e possibilità di riuscire davvero bene in qualcosa però non voleva fare la figura della scema, avvicinò la sua mano a quella di René, respirò forte, alzò il mento e disse: “Andiamo”


49.

Penelope sentiva una tenaglia di tensione stritolarle lo stomaco, la pancia irrigidita in una smorfia spasmodica, nella sala della biblioteca si respiravano onde di aspettativa.
Guardò lo spartito per non respirare le paure e le speranze di tutte quelle persone che le volevano bene, l’avevano vista camminare sul passeggino e sbucciarsi le ginocchia, che avevano lottato nella loro vita per ottenere quello che potevano e che adesso vedevano in lei il realizzarsi di quei sogni che avevano riposto da qualche parte, per la giusta occasione.
Si concentrò sullo spartito e suonò come mai aveva fatto prima.
Nella biblioteca tutti quanti trattennero il fiato e poi esplosero in un applauso di felicità.
René le rivolse uno sguardo colmo di orgoglio, gli occhi inumiditi dall’emozione.


50.

I talent scout si avvicinarono a Penelope, le chiesero se le sarebbe piaciuto approfondire lo studio del pianoforte ed eventualmente, se tutto fosse andato bene, andare all’estero per tentare la strada di un prestigioso collegio musicale.
Penelope guardò René e tutte le persone che erano lì.

“Mi piacerebbe studiare il pianoforte ma”
“Ma?”
“Ma non andare via dal mio paese”
“Eppure ci sono molte opportunità all’estero che qui non ci sono”
“Non lo so, però so che non voglio lasciare la mia famiglia e il mio paese”
“È sicura di quello che dice? Magari, col tempo, potrebbe cambiare idea”

René capì e si intromise nel discorso senza neanche sapere a che titolo.

“Questa scuola di cui parlate dov’è?”
“A New York”, rispose uno di loro
“Negli Stati Uniti?”, chiese René sentendosi perduto
“Già”, rispose Penelope abbassando lo sguardo sconfortata
“E come si chiama?”, si informò René
“Juilliard, è la più importante scuola di musica del mondo”, spiegò l’altro talent scout.
“Grazie, potreste aspettare qualche giorno?”, domandò René
“Non abbiamo fretta”



51.

“René non ci penso proprio”
“E invece dovresti pensarci, sai?”
“Senti, mi dispiace deluderti ma io non sono fatta per andarmene in giro di qua e di là”
“Non devi andare in giro di qua e di là devi soltanto andare a scuola e studiare pianoforte”
“In una città grande e caotica come New York poi”
“Chiunque vorrebbe andarci”
“Io non sono chiunque”
“È la grande opportunità della tua vita e io lavorerò tutte le estati per mettere i soldi da parte per venire a trovarti”
“Non lo farai”
“Sì sei tu che non vorrai più vedere un sartore e ti vergognerai di me”
“Ecco, lo vedi, saremmo tutti quanti infelici”
“Penelope, senti, questa è una cosa importante, forse bisognerebbe parlarne con qualcuno che sappia consigliarti bene”
“René io non so cosa vi aspettiate tutti quanti da me: io sono soltanto una ragazzina e ho il diritto di vivere la mia adolescenza come chiunque altro”
“Tu non sei né chiunque né chiunque altro, sei Penelope e hai un grandissimo talento, fattene una ragione!”
“E a te non importa proprio niente di me?”
“Certo che mi importa e non capisco per quale motivo ti ostini a non capire che sei una persona particolare”
“E io non voglio essere particolare io voglio essere Penelope e basta!”
“Penelope è particolare ed è anche piuttosto pavida a quanto pare”
“E di che cosa avrei paura sentiamo?”
“Di essere brava per davvero”


52.

La Juillard School era molto di più di quanto avesse immaginato.
Penelope ebbe un senso di vertigine.
Forse quello che le aveva detto René era giusto ma lei non si sentiva una vigliacca. Non aveva paura e sapeva di non voler trascorrere la sua adolescenza in bianco e nero, ossessionata dalla tastiera di ebano e avorio, in una città sconosciuta, lontana dai suoi amici, dai suoi parenti, da quel paese che le andava stretto come un vestito troppo attillato ma che per lei era tutto ciò che conosceva.
Abbandonare quei ciottoli, la piazzetta e anche la sala angusta e un po’ scalcinata della biblioteca le sembrava impossibile.
Tra quelle strade e stradette si sentiva protetta, a suo agio.
Sapeva, in cuor suo, che non avrebbe più provato quella sensazione di familiarità e, paradossalmente, di libertà se fosse andata in una metropoli tanto poco a misura d’uomo dall’altra parte dell’oceano dove si parlava una lingua straniera e non avrebbe saputo dire cosa era giusto e cosa sbagliato. Non avrebbe potuto chiedere l’opinione di sua nonna, sarebbe stata una persona tra le tante in una moltitudine gremita di respiri e aspirazioni.
Nessuno l’avrebbe guardata male se si fosse comportata in modo assurdo e forse nessuno se ne sarebbe proprio avveduto.
Le voci che tanto ben conosceva sarebbero sparite in un fluttuare incerto di ricordi sfocati e tutto questo le sembrava insensato.
No, René aveva torto.
Forse era pavida, come le aveva detto, ma le sue paure riguardavano la sua vita.
Che ne sapeva lui del sentimento di solitudine che ti avvolge la gola quando i tuoi genitori stanno facendo una miriade di sacrifici per farti studiare e tu non li vuoi deludere e fai di tutto per far capire loro che non c’è proprio niente per cui affannarsi, tanto la musica è soltanto una passione passeggera, qualcosa che non è importante ma hai la consapevolezza di essere bravissima e sai che prima o poi dovrai partire, andar via, lasciare tutto quello che conosci e magari, ad un certo punto, deludere le aspettative di chi ha tanto creduto in te?
Niente ne sapeva, ecco!
Le lacrime le sgorgarono senza far rumore e Penelope singhiozzò tutta la notte con la faccia immersa nel cuscino per non farsi sentire, per non destare preoccupazione.
53.

Forse aveva esagerato, adesso Penelope l’avrebbe odiato e avrebbe pensato che era un tonto, uno scemo, uno che non capisce niente e che si intromette in questioni che non lo riguardano, un impiccione senza arte né parte.
Arrivò da sua nonna con una faccia lugubre e la voglia di sbattere la testa contro il muro.

“Che c’è Renatino, sta’ attento che tra un po’ ci inciampi in quel muso sai?”
“No no niente”
“Oh bella e che la vuoi dare a bere a me che t’ho visto attaccato al seno di tua madre?”
“Nonna dai ti ho detto che non ho niente e vuol dire che non ho niente no?”
“È per via della pianista”
“No! Ma che c’entra?”
“Sono venuti quelli a vederla e tu?”
“Dicono che è brava”
“Oh bella questo lo sapevi anche te no?”
“Sì ma pare che sia piuttosto brava, cioè parecchio”
“E?”
“E vogliono farla studiare a New York, in America”
“A New York?”
“Già”
“E tu non vuoi”
“No, è lei che non vuole e io l’ho presa per il verso sbagliato e le ho detto che ha paura di essere brava per davvero e invece sono stato stupido”
“Ma perché, lei che dice?”
“Dice che fuori dal paese si sentirebbe perduta, che non vuole rinunciare alla sua adolescenza e tutte queste scemenze qui”
“Oh bella non mi sembrano proprio scemenze e tu che hai fatto?”
“Ho detto a quei tizi di aspettare qualche giorno perché forse lei ci avrebbe ripensato e poi le ho detto che è una pavida”
“Proprio così le hai detto? Pavida?”
“Sì”
“Oh bella, è una parola un po’ demodé…comunque, hai fatto bene a temporeggiare con quelli lì, adesso ti aiuta nonna tua, tu intanto impara a mettere i bottoni e stai a bottega ché io devo fare un po’ di giri, se viene qualcuno dici di aspettarmi che torno subito, va bene?”


54.

“Nonna sei riuscita a sapere qualcosa?”
“Oh bella, direi proprio di sì, è venuto qualcuno a bottega?”
“Sì ti hanno lasciato un paio di buste con delle riparazioni da fare e una con un acconto in denaro per il vestito della “
“Ah sì bene bene. Ascolta”
“Dimmi”
“A quanto pare la tua pianista è davvero brava”
“E questo l’avevo capito da me”
“Oh bella ma lo è parecchio”
“E anche questo lo avevo capito da me”
“Vabbè, comunque pare che la scuola di New York che le hanno proposto sia”
“Una delle migliori al mondo, questo lo so Nonna”
“Oh bella, dicono che sia sempre al primo posto”
“Nonna questo lo so già”
“Vabbè, comunque pare che se venisse ammessa in quella scuola potrebbe studiare dappertutto”
“Anche in paese?”
“Volendo ma non è la stessa cosa”
“E questo lo immaginavo”
“Oh bella vuoi che studi alla banda comunale?”
“Insomma?”
“Insomma pare che”
“Che?”
“Oh bella mi lasci parlare? E fammi bere anche un goccetto d’acqua ché ho una sete!”
“Nonna l’acqua nella bottiglia dell’acquavite è finita”
“Ah sì? Oh bella anche quella nella bottiglia della grappa?”
“Sì ma se vuoi ho quella normale”
“Oh bella, e sia, dammene un bicchiere, non mi farà venire la ruggine, spero”


55.

Renato era uscito dalla bottega della nonna sartora con gli occhi illuminati da una felicità indicibile. Doveva assolutamente dirlo a Penelope, doveva vederla, incontrarla, farle capire che c’è sempre una soluzione, anche quando sembra che non ci siano scelte né alternative.
Corse verso casa sua, suonò il campanello, gli rispose sua madre e le disse che non era in casa.
Forse era in biblioteca?
René corse cercando di darsi un contegno.
Attraversò le stradine con uno strano presentimento, non sentiva la musica diffondersi nel borgo.
Salì gli scalini dell’adito principale a due a due, poi scese giù quasi scapicollandosi verso la sala col pianoforte.
Penelope non c’era.
René fu preso dallo sconforto.
Tornò verso la sua casa e chiese alla madre di entrare, lei lo guardò con aria imbarazzata e gli aprì il portone.
Penelope era in casa, gli occhi rossi, cerchiati di lacrimoni, il pigiama sgualcito, i capelli arruffati.
René si guardò intorno, istupidito.
Accettò volentieri un succo di frutta e un bicchiere d’acqua.


56.

“Penelope, senti, forse non è il momento, forse ho sbagliato a venire”
“No, figurati, è che ho passato una nottataccia”
“Hai pensato a quello che ti hanno detto?”
“Sì e forse hai ragione tu, un’occasione del genere capita soltanto una volta nella vita e sarei un’imbecille a rifiutare”
“Non sei un’imbecille, sei una persona con la testa sulle spalle”
“Sì, beh, forse”
“Penelope, ascolta: sei molto brava e puoi raggiungere i tuoi sogni ma New York è tanto lontana e pare che ci potrebbe essere una alternativa, sai?”
“Che alternativa?”
“Però dovresti studiare tutti i giorni e non sgarrare”
“Cioè cosa?”
“Potresti iscriverti al conservatorio e d’estate frequentare la summer school del Berklee College a Perugia, all’interno di Umbria Jazz, ne hai mai sentito parlare?”
“No, cos’è?”
“Umbria Jazz?”
“No, questa cosa del Berklee College”
“In estate fanno una specializzazione, una specie di corsi, non so bene poi dovresti informarti meglio, di questa università, college che è considerato tra i migliori del mondo, così potresti studiare senza dovertene andare, che ne pensi?”
“Penso che sarebbe bellissimo!”





57.

“Dalla faccia soddisfatta direi che ha accettato il suggerimento”
“Infatti l’ha accettato, grazie Nonna”
“Raccontami tutto per filo e per segno”
“Va bene ma prima voglio prepararle un portafortuna”
“Un portafortuna?”
“Sì, qualcosa che possa indossare quando andrà a parlare coi talent scout”
“Oh bella, lo vedi che hai talento?”
“Perché?”
“Oh bella perché hai già capito che quando un artigiano mette le mani sulla materia che utilizza, sta modellando un universo di sogni”
“Nonna non pensavo fossi una poetessa”
“Oh bella e che credi che gli artigiani non sappiano pensare?”
“Che c’entra?”
“Oh bella mi pare logico”
“Che c’è di logico?”
“L’hai capito da te”
“Cosa ho capito da me?”
“Oh bella, come pensi di farle il portafortuna?”
“Con bottoni e stoffa”
“Prendi i bottoni e la stoffa e glieli porti così?”
“No, li voglio modellare a forma di fiore”
“E perché?”
“Perché un fiore è bello come lei e va coltivato come il suo talento ma è di stoffa quindi rimarrà sempre con lei”
“Oh bella, lo vedi che hai capito?”
58.

Penelope si sentiva leggera e felice, René aveva trovato una soluzione e lei non avrebbe dovuto andar via dal suo paese pur continuando a cercare di realizzare le sue aspirazioni.
Il giorno dell’incontro con i talent scout era arrivato, respirò profondamente, indossò un vestito ornato da un pizzo chiacchierino, adornò i capelli con il fermaglio regalatole da sua nonna per il compleanno, raccolse le sue aspirazioni tra gli spartiti affastellati nella cartellina.
In quel momento avrebbe voluto davvero che René fosse lì a stringerle la mano ma doveva andare a bottega dalla nonna sartora quel pomeriggio e certamente non avrebbe pensato a lei.
Il sorriso le attraversò il volto di ragazzina da un orecchio all’altro quando lo vide arrivare con un fiore di stoffa e bottoni cucito appositamente per lei.

“È la mia prima creazione sartoriale, spero che ti porterà fortuna”
“Come sai dove sto andando?”
“Lo so”
“Mi fa piacere che tu sia qui”
“Non potevo mancare, non credi?”
“Giusto”
“Ti senti pronta?”
“Sì”
“Ti fa piacere se vengo con te?”
“Sì”
“Andiamo”
“Andiamo”



59.

Arrivarono in biblioteca, Penelope si appuntò il fiore sul vestito, accanto al cuore. Sembrava animato dal vento mentre il suo giovane petto danzava al ritmo del respiro, a volte lento, altre agitato.

“Buongiorno, grazie per aver avuto tanta pazienza”
“Buongiorno, è un piacere avere a che fare con persone che, seppur giovani, amano ponderare le proprie scelte, così evitiamo pericolosi quanto onerosi colpi di testa e ripensamenti successivi”
“Ho pensato a quello che mi avete detto e l’opportunità che mi offrite è molto più di quanto avessi mai immaginato nei più spericolati sogni ad occhi aperti”
“La Juillard School è effettivamente molto prestigiosa”
“Sì, lo è”
“Dunque ha deciso di accettare?”
“Io vorrei chiedervi di prendere in considerazione una specie di controproposta”
“Vuole declinare l’offerta?”
“Non ho detto questo”
“Quindi?”

Il fiore sul petto di Penelope sembrava sbatacchiato da un tempestoso temporale estivo.

“Vorrei chiedervi la cortesia di prendere in considerazione un’alternativa che potrebbe permettermi di avere la serenità necessaria per continuare a studiare senza dovermi allontanare dai luoghi e dalle persone che per me sono tanto importanti, vitali, direi, per la mia stessa ispirazione. Le persone che non vorrò deludere e che sanno spronarmi quando è necessario, e talvolta, credetemi, i tasti sembrano le ali spiegate di un’upupa che si crogiola sotto i raggi solari ma altre volte buie feritoie”
“La Juillard non si può trasferire qui e non possiamo trasferire tutto il paese a New York”
“Oh lo so benissimo e non è questo quello che vi chiedo”
“Sentiamo”
60.

Penelope spiegò per filo e per segno quello che aveva elaborato e i talent scout rimasero piuttosto impressionati.
Sembravano piccati all’inizio ma poi sembrarono ammorbidirsi e comprendere che forse la soluzione proposta sarebbe stata un buon compromesso, qualcosa che avrebbe, come usa dire, salvato capra e cavoli.

“Lei ha molto talento e sembra anche avere la testa sulle spalle, probabilmente ciò che pensa di fare adesso potrebbe essere la soluzione più adatta a lei.”
“Grazie, New York è una città immensa e io temo di perdermi tra i suoi viali”
“Questo è probabile anche se le possibilità che avrebbe lì sono decisamente superiori a quelle che potrebbe ottenere rimanendo qui. La visibilità, le occasioni, le connessioni e le conoscenze sono fondamentali per costruire una carriera”
“Anche il mio equilibrio lo è”
“È vero, lei è molto giovane e potrebbe effettivamente trovarsi molto male in una realtà tanto competitiva quale è quella newyorkese”
“A me non piace competere, mi piace fare insieme agli altri”
“Sì, beh, ecco, New York e la Juillard le permetterebbero certamente di avere molte più possibilità di incontrare quegli ‘altri’ con cui potrebbe costituire gruppi o trovarsi a suo agio, tra persone che la pensano nello stesso modo.”
“Sentite, io non conosco New York ma…”
“Ecco, infatti lei non si rende forse conto che è una città vibrante di vitalità, in perenne fermento culturale, dove una ragazzina potrebbe trovare una sua collocazione permanente”
“Posso farvi una domanda?”
“Certo”
“Se io dovessi trovare una collocazione permanente negli Stati Uniti non tornerei più qui? La mia famiglia dovrebbe scegliere se seguirmi o non vedermi per molto tempo, giusto?”
“Sì però potrebbe arrivare a guadagnare cifre tali per cui spostarsi da un continente all’altro Le sembrerebbe semplicissimo, ovvio quasi”
“Ecco però i soldi non si mangiano, non si respirano, non si guardano dalla finestra. Vedete quel paesaggio? Io non mi sento a casa se non vedo il profilo di quei monti all’orizzonte”
“Bene, la sua è sicuramente la scelta migliore per lei. La seguiremo e cercheremo di indirizzarla il più possibile.”
“Grazie”
“Buona fortuna e complimenti per il fiore, è molto bello, come lei e va coltivato, come il suo talento”


61.

“È andata”
“Che ti hanno detto?”
“Che mi avrebbero seguita e indirizzata per quanto possibile ma che, fondamentalmente, starei sprecando la più grande opportunità della mia vita”
“Tu che vuoi fare?”
“René io lontana dal paese mi sento un pesce fuor d’acqua”
“Tutto il mondo è paese”
“Mah”
“Che fai adesso, piangi?”
“È la tensione”
“Ma allora non sei felice della tua scelta?”
“René non dire cretinate e abbracciami forte”
“Se ti abbraccio mi viene voglia di baciarti… sei così bella”
“Anche coi lacrimoni”
“Anche coi capelli arruffati”
“Sai che mi hanno fatto i complimenti per il fiore?”
“Davvero?”
“Sì, mi hanno detto che è bello come me e che va coltivato come il mio talento”


62.

“Renatino che hai fatto oggi? Com’è che non sei venuto a bottega? Hai accompagnato la pianista?”
“Nonna, non ti si può nascondere niente eh”
“Oh bella, il fiore qui non c’è sicché…”
“Sai che le hanno detto?”
“Della sua scelta o del fiore?”
“Del fiore”
“Che è bello come lei e che è come il suo talento?”
“Nonna ma come fai a sapere tutto?”
“Oh bella perché sì. Della sua scelta che hanno detto?”
“Che sta sprecando un’opportunità rarissima e che comunque la seguiranno”
“Sai che ti dico Renatino?”
“Che?”
“Questi talent scout sono bravi a capire i talenti e tu sei proprio bravo”
“Perché?”
“Oh bella, se con la prima creazione che hai fatto sei già riuscito a comunicare le tue intenzioni vuol dire che sai fare le cose a verso.”
“E quindi?”
“Oh bella, per il momento vieni a bottega ad imparare il mestiere, vediamo se davvero hai talento e nel frattempo cerchiamo di capire se c’è qualche modo di mandarti in una scuola o in una sartoria d’eccellenza”
“Nonna ma che dici?”
“Oh bella ma che pensi che soltanto gli artisti hanno arte? E gli artigiani? Sai che sarebbe questo bel Paese senza artigiani? Un luogo come ce ne sono tanti e invece è meraviglioso e sai perché?”
“Perché ci sono stati grandi artisti”
“Oh bella e pensi che siano usciti dal cilindro come i conigli del mago? No, sono quelli che hanno imparato l’arte meglio degli altri e che avevano un talento speciale, unico. Sono artigiani eccellenti ecco cosa”
“Non esagerare nonna”
“Oh bella, non esagero? Ma senti, Michelangelo lavorava con lo scalpello e lo scalpello che cos’è? Uno strumento di lavoro artigiano. Prima c’erano i mastri, le maestranze e poi c’erano gli artisti e i geni assoluti ma come hanno detto quelli? Il talento va coltivato e va pure fatto crescere nell’ambiente giusto ché se metti il seme del fiore più bello nel freezer quello non germoglia”



63.

René continuò ad andare a bottega e tutti i giorni aspettava l’ora in cui Penelope sarebbe andata in biblioteca a suonare con il cuore che gli palpitava in petto come la grancassa della banda comunale. Più lei si esercitava a suonare, più lui si impegnava ad imparare il mestiere del sarto.
Punti, sottopunti, asole, aghi, fili e bottoni erano diventati i suoi amici più fidati.
La nonna lo spronava e gli insegnava l’arte come l’avevano insegnata a lei, facendo e rifacendo per giornate intere le stesse cose. Renatino non sembrava annoiarsi, ci si metteva di buzzo buono. Ogni settimana imparava qualcosa di nuovo e andava avanti, con costanza e perseveranza. Studiare gli piaceva ma quello che lo interessava davvero era la storia, non quella delle battaglie ma quella delle persone. Cercava di capire come si vestivano nelle varie epoche e ricordava tutto partendo da un particolare, una tunica o un’uniforme.
Quando andava in biblioteca ad ascoltare Penelope aveva preso l’abitudine di studiare alcuni tomi sulla storia del costume. Lo interessavano al punto che talvolta si immergeva nella lettura e quasi dimenticava di ascoltare la sua bella.
Un giorno Penelope smise di suonare all’improvviso, c’erano soltanto loro due nella sala e lui non alzò lo sguardo dal libro.
Stava copiando alcuni dettagli di un vestito su un quaderno.
I pastelli riproponevano i colori e lui cancellava tutto fino a che non trovava la giusta corrispondenza di tonalità e sfumature.
Lei si incantò a guardarlo.


64.

“Cosa fai?”
“Scusa, non mi ero accorto che avessi smesso di suonare io…”
“Sei molto bravo, sai?”
“Ma ti stavo ascoltando sai?”
“Non sono offesa”
“No?”
“No”
“Davvero?”
“Sì davvero, dai dimmi che cosa stai facendo”
“Sto copiando i dettagli di alcuni vestiti che mi piacciono e poi a bottega provo a riprodurli”
“Provi a riprodurre i vestiti?”
“No, soltanto i dettagli”
“Perché?”
“Sto imparando punti e sottopunti, le tecniche di base, insomma”
“Un po’ come il solfeggio?”
“Penso di sì”
“E quindi?”
“Ecco, i punti non sono tutti uguali sai? Ce ne sono tantissimi e nel tempo sono cambiati, alcune conoscenze sono andate perdute, altre si sono affinate, anche in base al tipo di aghi e di strumenti per lavorare gli utensili necessari a cucire. Una cosa è un ago di osso, un’altra uno di acciaio, una cosa è un ago fatto a mano e un'altra un ago sottilissimo creato da un apparecchio industriale. La cosa strana è che ci sono alcuni stili in cui i fili sono talmente sottili che adesso non si trovano più perché nessuno sa più come fare a produrli e quindi certi punti non si possono più fare, capisci?”
“Sì è esattamente come per gli strumenti musicali”
“Cioè?”
“Il pianoforte, ad esempio, è relativamente recente e i suoni che riesci ad ottenere con un piano di oggi sono molto diversi da quelli, che so, di una spinetta. Per cui gli spartiti vengono sempre reinterpretati più che eseguiti alla lettera perché per ottenere il suono originale ci sarebbe bisogno degli strumenti per cui è stato pensato e all’orecchio del pubblico di oggi sembrerebbe forse sgradevole, quasi stonato”
“Ecco, sì qualcosa del genere anche se, ecco vedi? Questo è pizzo di Burano del 1700 e questo è il fazzoletto con la N di Napoleone, guarda che perfezione, c’è un quadro all’interno, ricamato con filo sottilissimo, oggi non si potrebbe più fare perché il filo così sottile non esiste più, non si trova e non ci sono le persone in grado di ‘filarlo’, ma il pizzo in sé è di una bellezza sconvolgente.”


65.

“René ho un presentimento”
“Buono o cattivo?”
“Non lo so”
“Vuoi parlarmene?”
“Non lo so”
“Uhm sei misteriosa oggi, eh?”
“Prometti che non mi prenderai in giro per quello che ti dirò?”
“Prometto che non ti prenderò in giro”
“Per quello che ti dirò”
“Per quello che mi dirai”
“No, lo devi dire tutto insieme”
“Prometto che non ti prenderò in giro per quello che mi dirai. Va bene?”
“Va bene”
“Qual è questo presentimento?”
“Sai quando mi hanno proposto di andare a New York?”
“Non potrei certo dimenticarmene”
“Ecco, io penso che..”
“Che?”
“Che forse sarai tu a partire”
“Per andare dove scusa?”
“A crearti la tua strada”
“Perché, non mi vuoi più vedere?”
“Non ho detto questo”
“Sei ancora arrabbiata perché hai pensato che non ti stessi ascoltando”
“Non sono mai stata arrabbiata per quello anzi”
“Noooo”
“Davvero”
“Uhm”
“Il fatto è che forse la sartora ha ragione e ha visto lungo a metterti subito a bottega”
“Ma dai; sto soltanto imparando un mestiere”


66.

Penelope l’aveva presa alla larga, si era informata con discrezione e aveva cercato di capire se effettivamente René fosse bravo a cucire come le era sembrato.
In paese si diceva che la sartora dedicasse parecchio tempo a lui e, conoscendone il carattere schietto e burbero, non c’era da temere il contrario: non avrebbe mai perso tutte quelle ore con Renato se non ne fosse valsa la pena.
Oltretutto, non si era mai sentito neanche un urlo, un grido o una parola storta, cosa alquanto insolita. Tutte le persone che avevano provato ad andare a bottega da lei erano scappate a gambe levate, talvolta anche in lacrime, perché era fatta a modo suo e non sopportava insegnare a chi non aveva voglia di imparare o capacità di farlo.
Con René non gridava nemmeno quelle rarissime volte in cui arrivava in ritardo.
Probabilmente aveva una speciale predilezione per lui o forse ne aveva intuito le capacità, compreso le potenzialità e lo stava covando come una chioccia.


67.

“René ti sfido”
“Mi sfidi a fare che?”
“Voglio commissionarti un abito, ti va di cucirlo?”
“Non lo so ancora fare ma ti prenderei molto volentieri le misure”
“Ah beh, se non lo sai ancora fare…”
“Ma le misure posso prendertele, fidati”
“Che peccato”
“Perché?”
“Mi serviva proprio”
“Che devi fare?”
“Forse posso partecipare ad un concerto e volevo vestirmi in modo speciale”
“Te l’hanno proposto i talent scout?”
“Come fai a saperlo?”
“Pare che siano passati da queste parti ultimamente”
“Il taglia e cuci l’hai imparato bene vedo”
“Che c’entra?”
“Allora, me lo fai questo vestito sì o no?”
“Ti ho detto che non sono ancora capace”
“E impari, io voglio indossare un abito cucito da te”
“Devo chiederlo a nonna”
“Quando me lo fai sapere?”
“Domani va bene?”
“Va bene”


68.

“Nonna?”
“Che c’è Renato, t’ha mozzicato la tarantola?”
“No, perché?”
“Oh bella, sembri intimorito e che mi devi chiedere mai?”
“Ma niente, lascia perdere”
“Oh Renatino, non ti sarai mica messo in qualche casino?”
“Ma che dici nonna, no il fatto è che?”
“Oh bella ma te l’hanno mangiata quella lingua? Non aver tema”
“Sai Penelope?”
“La pianista?”
“Eh, sì, la pianista”
“Beh?”
“Forse dovrà partecipare ad un concerto”
“Oh bella, e mi chiedevo che cosa fossero venuti a fare quei due”
“Ecco, vedi, lei mi ha chiesto”
“Di accompagnarla, ma va bene, e che problema c’è?”
“No, mi ha chiesto”
“Oh bella ma vuoi parlare o ti devo tirar fuori le parole con la tenaglia?”
“Di confezionarle un abito”
“Oh bella hai già le prime clienti. E sia, facciamo così, le prepareremo insieme una tunichina semplicissima e tu la decorerai, va bene?”
“Grazie nonna”


69.

La sartora aveva chiesto a Lauretta di andare a prendere le misure della pianista per non destare troppi sospetti con la madre di Penelope e per evitare inutili pettegolezzi. S’era espressa chiaramente, i due ragazzini si volevano bene, lei dal canto suo non era poi così contraria ma neanche troppo d’accordo.

“Sono così giovani Lauretta mia”
“Ma sono due giovani a modino”
“Oh bella, la testa sulle spalle ce l’hanno, per questo non c’è che dire”
“E non mi hai detto che René viene a bottega da te?”
“Oh bella, tutti i giorni e non si lamenta mai né mi fa lamentare sai?”
“Che non faccia lamentare te mi sembra già qualcosa di straordinario”
“E che ci sarebbe di tanto straordinario?”
“Tutte e tutti quelli che sono venuti a bottega da te sono scappati dopo pochi giorni, talvolta piangenti”
“Oh bella e se non hanno voglia di lavorare o non hanno punto fantasia di imparare non è certo colpa mia”
“Vabbè, quindi mi pare che René invece…”
“È bravo sai? E ha pure tanta voglia di apprendere il mestiere. Guarda che ha fatto, ti faccio vedere il suo quaderno, ogni tanto lo lascia qui. Io faccio finta di non sapere che ce l’ha guarda che disegni fa”
“Belli ma cosa sono?”
“Oh bella, dettagli”
“Dettagli di che?”
“Di costumi, di vestiti d’epoca. Quando va in biblioteca a sentire la pianista”
“Penelope”
“Eh sì, lei, oh bella, quando va là scartabella i libri di storia e di storia del costume e ricopia i dettagli, poi viene a bottega e rifà per ore le cuciture fino a che non gli vengono uguali. È proprio bravo.”
“Se continua costì ci diventerà un grande sarto”
70.

“Penelope tesoro, vieni di là con me”
“Va bene Lauretta ma che mi devi dire?”
“È un segreto”
“Ah qui non ci sono segreti, mi dovete dire cosa state confabulando”
“Mamma io non ne so niente”
“Bea non ti intromettere e non essere noiosa
“Lauretta ti ricordo che”
“Sì sì poi mi ricorderai, intanto io e Penelope andiamo di là”
“Lauretta!”
“Ti vogliamo bene Bea”
“Ti vogliamo bene Mamma”
“Ma guarda un po’!”


71.

“Lauretta allora che c’è?”
“Ti dice niente un certo René?”
“René? Perché gli è successo qualcosa?”
“Non gli è successo niente di brutto, che io sappia, ma non arrossire in quel modo benedetta figliola”
“Non sono arrossita”
“Sembri un’aragosta”
“Uffa”
“Spogliati dai”
“Perché mi dovrei spogliare?”
“Semplice: ti devo prendere le misure”
“Le misure?”
“Sì, pare che il tuo bel René voglia cucirti addosso un bell’abito ma sua nonna ha pensato che sarebbe stato più opportuno, o no?”
“O no cosa?”
“No, dico, o forse già le ha prese lui le misure?”
“Lauretta, René non ha preso nessuna misura e smettila di fare quella faccia!”
“Quale faccia?”
“Quella che stai facendo, come ad insinuare chissà cosa”
“Non stavo insinuando niente, figurati, non vi siete mai dati un bacio?”
“Lauretta!”
“E che ho chiesto mai, figurati! Alza il braccio un pochino che devo farti passare il centimetro intorno ai fianchi”
“Così?”
“Sì ma adesso riabbassa le braccia. Ecco, fatto”


72.

“Che voleva Lauretta?”
“Mamma non cominciare anche tu”
“Perché, che ti ho chiesto di tanto strano?”
“Mamma per favore”
“Ma senti un po’… almeno dimmi perché si è scomodata a venire fin qui con il centimetro e tutta l’attrezzatura da sarta”
“È venuta a prendermi le misure”
“Le misure?”
“Sì, per un vestito”
“Ma non te l’aveva regalato tua nonna un vestito?”
“Mamma per cortesia”
“Ma aspetta un po’, non è che per caso quel ragazzetto che viene sempre a vederti e a cercarti”
“Adesso che hai da dire contro René?”
“Non è il nipote della sartora per caso?”
“È il nipote della sartora e allora?”
“Niente niente figurati”
“Mamma non fare quella faccia”
“Quale faccia?”
“Di chi la sa lunga”
“Lunga?”
“Tanto non hai capito niente”
“E che cosa avrei dovuto capire?”
“Mamma la smetti?”
“Va bene va bene, comunque è proprio carino quel ragazzo”