giovedì 28 gennaio 2021

Ricordo del Maestro Santelli per Giornata mondiale della Commedia dell'arte bozza 1

 Cammino indossando la mia mascherina di cotone colorato per coprire le vie respiratorie. A Mentana non c’è molta gente in giro, tranne qualche fila ordinata di persone che indossano le mascherine e mantengono la distanza fisica, come impongono le ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19 di uno dei tanti decreti emergenziali cui ci siamo ormai tutti quanti abituati.

Tutti, tranne forse i bambini con le loro infinite risorse, la loro capacità di capire e conoscere più e meglio degli altri, la loro risata spontanea per un frizzo, un lazzo, per la vita che è ontologicamente meravigliosa. Alcuni di loro non parlano ancora perché non riescono a vedere i movimenti labiali di adulti e bimbi grandi e perché con le mascherine che indossiamo, in alcuni casi un costoso oggetto di moda, il suono non viene ben veicolato.
Mentana è un paese vicino Roma, dove non accade mai niente, quando accade è talmente eclatante che rimane nei libri di storia e questo capita circa una volta ogni mille anni, quindi non c’è da preoccuparsi per una tranquilla passeggiata tra strade e vicoli.
L’ultima volta che è successo qualcosa di importante è stato durante una fredda giornata del novembre 1867 quando Giuseppe Garibaldi e i suoi Volontari combatterono una battaglia infausta contro francesi e papalini. La battaglia di Mentana rimase impressa nella memoria del corsaro nizzardo e venne tramandata ai posteri, per lui rimase una ferita aperta, qualcosa che non avrebbe mai dimenticato e così in ogni angolo del mondo c’è un vicoletto, una strada, un’aiuola dedicata a Mentana, c’è una rue Mentana, Mentana strasse, piazza Mentana, Mentana Avenue…
L’altra cosa eclatante che accadde fu il 23 novembre dell’anno 800 quando il papa Leone III incontrò Carlo Magno prima della solenne incoronazione. Il Sommo Pontefice scelse Mentana, all’epoca Nomentum, facendo peraltro un po’ infuriare la potentissima Abbazia di Farfa, per una serie di considerazioni politiche tra cui certamente vi fu quella del protocollo diplomatico vigente all’epoca, tale per cui a quella distanza da Roma avrebbe dovuto incontrare la Basilissa dell’Impero Romano d’Oriente, Irene d’Atene. Leone III non la incontrò non riconoscendo di fatto il potere politico di una donna. Un pregiudizio ancor oggi duro a morire perfino nell’Europa politicamente divisa e unita che nacque dagli accordi finalizzati il 23 novembre. Molti anni sono trascorsi da quell’incontro prima che una donna potesse divenire ancora una volta molto potente, pure se Garibaldi e il suo amico Mazzini scrissero parole alquanto importanti in merito.
Continuo a camminare nel paese dove non accade mai niente se non qualcosa di veramente eclatante e mentre cammino mi sembra di sentire un tuc tuc tuc tuc, un rumore strano, sordo, provenire dal grande portale su cui campeggia lo stemma della famiglia Peretti, un leone rampante con una specie di sonaglino formato da tre pere. Il portale si trova proprio accanto ad un altro e subito dopo un arco nei pressi di una chiesetta adornata con un piccolo affresco realizzato da un artista della bottega di Giotto e reperti sabini, latini, romani accroccati come decorazioni, o utilizzati come base di antiche scale popolari.
All’interno di quel palazzo, grande, imponente e un po’ fatiscente, come nell’antro di Vulcano o di Mangiafuoco, c’era un uomo, con la faccia tonda sorridente, il più delle volte burbera, con gli occhi abituati a scrutare i più reconditi anfratti dell’animo umano. Era come se dovesse capire dai movimenti degli occhi, delle labbra, della mandibola, degli zigomi come l’altra persona parlava, pensava, agiva, quali fossero i suoi problemi… No, non era un medico, era un mascheraio. Era IL mascheraio, forse il più bravo di tutti gli altri, se non era il più bravo, era certamente uno tra i più abili e migliori mascherai viventi. Lo chiamavamo Maestro Santelli, anche se quello non era il suo vero nome. Un personaggio che si adattava perfettamente a Mentana, perché era un personaggio sopra le righe e Mentana è un posto un po’ strano dove capita di trovare personalità importantissime del mondo dell’arte e della cultura, grandi artisti e persone che davvero andrebbero bene in una farsa del teatro dell’Antica Grecia, quella stessa Grecia considerata la culla dell’Europa e della democrazia dove si usavano le maschere cui si ispirava il Maestro Santelli che con enorme mestiere, con strabiliante sapienza plasmava il cuoio come fosse stata una pelle leggera con la medesima abilità di un elfo che forgia indistruttibili spade. Lui forgiava, manipolava, creava strumenti per recitare, per parlare, per assumere un volto diverso, per far sentire la propria voce.
In questo momento portiamo tutti quanti una mascherina usa e getta ma quelle di Santelli non erano mascherine da gettare nel secchio della spazzatura, erano maschere vere, distillati di antichi saperi, di mestieri ormai dimenticati, espressione di tutti gli studi scientifici compiuti sulle teorie del suono e sulla sua propagazione, gli stessi che hanno permesso all’Umanità intera di costruire straordinari e bellissimi teatri, quelli greci adagiati sulle colline, quelli italici proiettati verso l’infinito, le ingegneristiche costruzioni romane, i teatri a forma di globo e quei bellissimi teatri all’italiana in cui oggi non si può andare né indossando una maschera né una mascherina usa e getta come impongono le ulteriori misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19. I teatri sono chiusi, anziché essere popolati di maschere e dei personaggi della commedia dell’arte – guai a chiamarla in quel modo! come si infuriava il Maestro Santelli! Perché l’arte è il mestiere, è tutto, tutto è commedia e tutto è arte. Oggi indossiamo tutti delle mascherine leggere che ci proteggono dal virus cattivo e rispettiamo il distanziamento sociale, sì perché chiamarlo distanziamento fisico avrebbe rotto il tabù della naturalità del corpo, della sua forza e delle sue fragilità, della sua naturale essenza. Perché? Forse perché le maschere che ci cuciamo addosso sono comode come quelle che Santelli plasmava per i suoi illustri committenti, da Macario a Eduardo de Filippo, veri e propri gioielli di tecnica e tecnologia, estensione non tanto dei sensi come la penna, il computer, il monitor, il microfono, gli strumenti musicali, la stampa bensì estensioni dei sentimenti, di qualcosa che finora la tecnologia aveva soltanto mediato nelle sue forme rappresentative, cioè mediate dalla socialità.
Il grande portale è chiuso, così come lo è quello strano posto, l’antro-laboratorio del Maestro Santelli, il dio Vulcano dei mascherai.
Mi giro a guardare la piazza, bellissima, medievale, sembra un teatro e l’orecchio del paese. O forse lo è davvero. Su una panchina, accanto al portale adiacente, siedono spesso delle donne che abitano nel borgo fortificato, lì prendono il fresco d’estate e un po’ di sole d’inverno, e raccontano storie del borgo e del paese, chiacchiere di nascite e morti. Spesso sono in tre come le parche, ma molto più graziose, e come loro sembrano tessere i destini della gente del paese, sbrogliare le matasse di vite intrecciate.
Continuo a camminare nel labirintico centro storico dove attraverso un arco e giungo a Piazza Borghese. Un’anziana signora cucina prelibate pietanze e mi chiede come sto, come sta la mia famiglia, dispensa saggezza popolare ed esprime la felicità dell’essere ancora qui per raccontarla, mi elenca qualche guaio e mi parla di figli e nipoti, i bambini scorrazzano senza la paura delle automobili che qui non arrivano, da un lato della piazza c’è la parte alta del palazzo con lo stemma del leone rampante, quello dell’antro del mascheraio, poi un lato dell’antico Palazzo Crescenzio e la casa da cui Giorgio Bettinelli partiva con la sua Vespa verso luoghi lontani, l’Australia, l’Africa, l’Asia e quella Cina in cui trovò l’amore, sua moglie, e la morte improvvisa a poco più di cinquant’anni mentre scriveva un libro sul Tibet.
Esco dal labirinto, serraglio e trappola per i garibaldini rimasti asserragliati nel borgo dopo la cupa ritirata di Garibaldi, attraverso un altro arco turrito, entro in un forno che c’è da sempre, come sempre indosso la mia mascherina leggera, disinfetto le mani, mantengo il distanziamento fisico, chiacchiero con le fornaie ed esco per sgranocchiare una gustosa ciammella a cancellu, un dolce salato di antiche origini - forse venne creato per la tavola di Carlo Magno e Leone III, forse Garibaldi e i suoi la mangiarono o la portarono con sé. Percorro qualche altro metro, mi fermo ad ammirare il sole tramontare nella vallata tra i Colli Sabini. I raggi danzano con i pioppi nella valle che Garibaldi preferì evitare perché troppo esposta e accarezzano per l’ultima volta la casa del burattinaio, del mascheraio, del Mastro artigiano.