domenica 25 settembre 2016

AUTUNNO Comtessa de Dia

AUTUNNO Comtessa de Dia

«Bels amics, avinens e bos,
Cora.us tenrai e mon poder?
e que jagues ab vos un ser
e qe.us des un bais amoros!
Sapchatz, gran talan n'auria
qe.us tengues en luoc del marit,
ab so que m'aguessetz plevit
de far tot so qu'eu volria»

«Mio bello e dolce amico,
quando verrà l'ora che sarete mio?
e una notte con voi restare
per darvi un amoroso bacio!
Sappiate che grande è il desio
di avervi nel mio letto [coniugale],
purché giuriate in pegno
di fare ciò ch'io voglio»
            Beatriz, Comtessa de Dia


Il sole filtrava curioso tra le foglie rosse, arancioni, gialli e verdi della valle quasi a voler giocare con il bosco vestito coi colori del fuoco. L’arietta frizzante e l’odore umido arrossavano le gote di adulti e fanciulli intenti nella ricerca di gustose castagne, funghi, bacche e prelibatezze autunnali. I caminetti spandevano nell’aria pulita dalle prime piogge di stagione l’aroma inconfondibile del legno asciugato dal sole estivo e la fragranza di marmellate, composte di frutta, conserve e castagnaccio. Nelle botti si riponeva ad affinare il vino novello per impreziosirlo dell’ambrata meraviglia autunnale e conservare il sapore pieno dei raggi estivi racchiusi negli acini sodi, dorati e rossi dell’uva settembrina. Gli abitanti del borgo e del bosco erano affaccendati in mille faccende e a malapena facevano caso l’uno all’altro, tanto c’era da fare, sistemare, aggiustare, preparare. Come se non fosse bastato il trambusto autunnale, si aggiunse l’annuncio dell’araldo per una gran festa organizzata dalla Comtessa de Dia. Anche se né gli abitanti del borgo né quelli del bosco sarebbero stati invitati al palio e le attività del castello erano ben discoste da quelle valligiane, questa volta l’araldo aveva richiesto espressamente che ogni villaggio cuocesse un pane dolce o salato che avesse una bella forma e fosse preparato con amore nel centro del paese. Inutile dire che cosa avesse comportato tale richiesta ma a questo punto non dovrebbe più essere un mistero la frenesia che percorreva come un fremito di passione il borgo e il bosco. Calduc veniva interpellata anche per la più piccola foglia, ghianda o bacca e dovette chiedere aiuto a Brizeida e Azalais, le quali già avevano capito che ci sarebbe stato bisogno di loro. Il saggio del villaggio decise che il prete e la perpetua non potevano non essere informati della richiesta per cui fece buon viso a cattivo gioco e chiese con furba aria umile di poter utilizzare la sagrestia e la campana per coordinare i lavori, non gli venne concessa né l’una né l’altra ma in compenso aveva trovato il modo di togliersi dai piedi il prelato, che avrebbe altrimenti ficcato il naso nelle questioni del borgo e, ancor peggio, in quelle del bosco. Il maniscalco Daude era impegnato a cercar di capire in che modo costruire una teglia con la forma che voleva Calduc e a Cossezen dolevano i piedi per le corse che doveva fare dalla bottega di Daude alla cucina di Calduc schivando questuanti di ogni sorta che portavano bacche, foglie e prelibatezze. Ot e Bieris erano intenti ad aromatizzar castagne nel mosto cotto e speziato mentre Mirabai trasformava fiori e bacche in dolci sculture con un’abilità che nessuno sapeva bene da dove provenisse. Non s’era ben capito cosa sarebbe accaduto nel castello ma si vociferava che ci sarebbe stata una giostra o un palio con cavalieri da ogni angolo del regno, tant’è che per precauzione a Daude era stato chiesto di rinforzar chiavistelli e catenacci, e che sarebbero arrivate dame e madonne da luoghi lontani. Nessuno poteva immaginare che vi sarebbe stata un’importante riunione del tribunale dell’amor cortese, che, com’è noto, disquisiva di questioni riguardanti gli amori cortigiani e le rigidissime regole di comportamento collegate al nobile sentimento. La comtessa, fine musica e poetessa, s’era infatti innamorata e, dopo anni di vuote attività matrimoniali, aveva finalmente trovato un cavaliere che sapeva destare in lei il fuoco vivace della passione più sincera. Un tale evento andava celebrato, seppur con la dovuta discrezione, per non urtare la suscettibilità del marito, il quale, dal canto suo, benediceva mentalmente il cavaliere amato da Beatriz, sua moglie. Lo avrebbe così lasciato libero di godersi la sua vita amorosa, ispirata più ai costumi dell’antica Grecia e dell’Imperatore Adriano che a quelli mirabilmente cantati dalla sua splendida, seppur per lui molto poco attraente, consorte. Di Beatriz apprezzava fortemente le capacità canore e la sensibilità d’animo espressa in tenson e cansos accompagnate con maestria dalle diafane dita danzanti sul melodioso flauto, attività che suscitava in lui pensieri di amorosi e segreti amplessi col suo cavalier servente. La notizia, seppure non avrebbe mai dovuto giungergli all’orecchio, gli era ovviamente arrivata con la velocità di una saetta. L’innamoramento corrisposto di Beatriz lo aveva decisamente messo di ottimo umore ed era stata sua l’idea di chiedere ai villaggi del regno la creazione di un pane, dolce o salato, per l’occasione. Segretamente l’aveva dedicato, in un eccesso di passione, al suo amato, il quale casualmente era al servizio della comtessa e aveva accolto con un moto di sincera felicità l’amante della trobaidiriz, con l’abilità di un confidente che vede finalmente rimosse tutte le barriere per poter vivere con serenità, seppur con le dovute precauzioni, un amore pieno e felice. Tutto avrebbe dovuto essere eccezionale. L’idea, assurda per l’amor cortese, di un matrimonio fondato sui sentimenti e non vincolato da trattati e clausole scritte a chiare lettere aveva stimolato Beatriz a comporre senza tregua e si era anche profusa nell’organizzazione del palio consigliata dall’amante segreto di suo marito, il quale era attento ai minimi dettagli, come se si fosse trattato del suo sposalizio col marito della comtessa. Aveva chiesto agli artigiani più rinomati di confezionare gioielli e vestiti per l’occasione e aveva rinnovato il guardaroba della sua corte, cosa davvero strabiliante. Tutto doveva essere perfetto per accogliere la passione nella sua vita, per questo voleva che il tribunale suggellasse e validasse a suo modo tale gioia. Seppure chiunque sappia che un tribunale d’amore non è in alcun modo simile alle tristi e sconsolate riunioni che condannano alla prigionia o ridanno luce di libertà agli uomini, le sue decisioni erano tenute in altissima considerazione e contravvenire a quelle che potevano essere considerate alla stregua di vere e proprie sentenze poteva portare discredito, disonore e talvolta alimentare quelle scaramucce tra consanguinei di alto rango. La comtessa trascorreva ore intere a limare, aggiustare, sistemare le parole delle canzoni con le quali avrebbe dichiarato il suo amore corrisposto, seguendo a puntino tutte le regole dell’amore cortese. Dopo lunghe giornate si trovava spesso a scrivere e comporre alla fioca luce del lume e delle candele fino a che si trovò, quasi senza accorgersene a danzare con loro, immaginando, era sogno o realtà?, le dame e i cavalieri che si sarebbero pronunciate su ciò che per lei significava così tanto. La fiammella si trasformò in una danzatrice di grandissima abilità, le candele presero forma e cominciarono un ballo dionisiaco, le stesse parole sembrarono esprimersi in forma compiuta ed ella ballò, con la forza del cristallo, la densità del vetro in cottura, la luminescenza delle foglie nel pieno dell’autunno. Si svegliò la mattina curva sullo scrittoio, una candela si era sciolta creando la forma angelica di un danzatore con lunghe ali. Bussarono alla sua porta per farle vedere i doni e quando arrivò il pandolce creato dalle sapienti mani di Calduc, decorato con i fiori e le bacche glassate da Mirabai, confezionato con il panno magico tessuto dagli abitanti del bosco ebbe la certezza assoluta che tutto sarebbe stato perfetto.  

sabato 24 settembre 2016

EQUINOZIO Fatima

EQUINOZIO Fatima


Una splendida giornata settembrina di pieno sole scaldava l’aria tiepida e fresca al contempo in un clima perfettamente bilanciato come la durata del giorno e della notte che si erano alternati con equivalente galanteria. Nel borgo ferveva l’attività di vendemmia, un odore dolcemente acre si spandeva nell’aere. Grappoli dorati e succulenti riempivano le ceste chiare e scure in base alla qualità dell’uva. I grandi tini erano stati posizionati, come di consuetudine, al centro del borgo e già dal primo mattino le donne avevano cominciato a pigiare il prezioso nettare. Dalle cantine un profumo di mosto, zolfo e fumo di legna avvolgeva le narici predisponendole all’allegria che l’occasione portava con sé. L’unica persona che sembrava totalmente aliena alla felicità dilagante era la giovane Fatima, splendida ragazza dalla pelle ambrata, occhi e capelli nerissimi giunta al villaggio con la carovana di un mercante genovese di ritorno da Frassineto che per qualche ragione aveva deciso di rimanere nella valle. All’inizio nessuno capiva il suo strano modo di parlare e nonostante qualche perplessità iniziale non s’era dato troppo peso al fatto che una donna sola giunta con la carovana di un mercante di un grande stato in compagnia di un gatto e un falco che le ubbidiva con docilità e per di più con un baule carico di preziosissimi libri avesse cercato alloggio nei pressi del borgo perché era arrivata in un momento in cui c’era un gran daffare e non c’era stato fisicamente il tempo di badarle. Quando finalmente era stato possibile ragionare sulla opportunità della sua presenza non ce n’era stato più il bisogno perché nessuno si ricordava esattamente cosa ci fosse di strano nella presenza di una persona che sapeva annodare semplici fili facendoli diventare decorazioni di incredibile bellezza e preparare dolciumi prelibati con il miele e poco più. Il saggio del villaggio un giorno si era recato da lei, aveva bussato alla porta della sua abitazione, non senza aver prima sbirciato all’interno, e aveva, per così dire, cercato di capire se ella fosse un pericolo per il borgo oppure no. Fatima lo aveva invitato ad entrare lasciando di proposito la porta aperta cosicché chiunque potesse vederli e gli aveva offerto una bevanda calda e aromatica di cui nella valle non s’era mai sentito neanche parlare. Cercarono di comunicare in uno strano ghibberish poi trovarono un linguaggio tutto loro e chiacchierarono a lungo. Lei raccontò la sua storia, comprendendo che quello era l’unico modo per ottenere la fiducia del saggio del villaggio, descrisse le lontane terre da cui proveniva e che aveva dovuto lasciare, nonostante fosse una donna molto ricca e rispettata, per le gelosie di un parente. Senza soffermarsi narrò il suo lungo viaggio per mari, monti e deserti, l’incontro programmato con il mercante genovese, l’arrivo in una città che credeva porto sicuro e che invece si era rivelata covo d’insidie e la decisione di fermarsi in un luogo sconosciuto, lontano dagli interessi di commercianti, pirati, abati e conquistatori. Il saggio del villaggio le chiese perché una dama di tale lignaggio anziché portare con sé vestiti e gioielli avesse preferito trascinarsi dietro un baule pieno di pesanti, seppur preziosissimi, libri. Fatima rispose senza indugio, spiegando che avrebbe voluto costruire una biblioteca se avesse avuto modo di tornare nelle sue terre. Il saggio volle sapere se c’era il rischio per il borgo di essere messo a ferro e fuoco da chi la cercava e lei affermò, rassicurante, che non v’era pericolo perché il mercante, grande amico di suo padre, avrebbe dichiarato ciò che anche lui sapeva, ossia che lei era in un convento. Egli, che non l’aveva mai vista, era infatti convinto di aver lasciato nel borgo una donna cristiana, in realtà fuggita con lei dal terribile mercato el-andaluso almeriense, e di aver affidato Fatima, redenta e convertita, all’abate Maiolo in un convento distante almeno dieci giorni di cavalcata veloce da lì. Per quanto riguardava il prete, ella non avrebbe destato sospetti, e si sarebbe recata regolarmente in chiesa pur continuando a pregare la sua religione. Il saggio pensò che quella donna era molto scaltra, non avrebbe nociuto alla gente del borgo e a quella del bosco. Ritenne opportuno, comunque, per maggiore sicurezza, consultare la Sibilla. Salutata la donna chiese dunque ad Azalais e Brizeida di condurla con loro nel bosco: la decisione non era semplice. Calduc non ne volle sapere di cucinare un pandolce mentre era occupata col mosto, le marmellate, le conserve e tutto ciò che notoriamente si deve preparare nel giorno dell’equinozio, tra l’altro quell’anno cadeva anche in pieno plenilunio quindi era impensabile che si mettesse a cuocere pandolci, se avessero proprio avuto necessità avrebbe potuto dar loro un barattolo di marmellata appena fatta. Azalais e Brizeida ringraziarono sbuffando le loro lamentele rimaste inascoltate e si diressero verso l’abitazione di Fatima con il cestino carico di marmellata, composte di frutta, utensili di legno intarsiati da Ot, di ferro forgiati da Daude, stoffe ricamate da Mirabai e un pane appena sfornato ripieno di erbe selvatiche e aromi di montagna. Quando giunsero da Fatima ella era intenta nella preparazione di una specialità a base di miele e noci, assaggiatolo Azalais e Brizeida convennero che era una vera delizia e per quel giorno, eccezionalmente, avrebbe potuto costituire una potenziale alternativa allo squisito pandolce di Calduc. La donna originaria della lontana Kairouan accolse l’idea di una passeggiata nel bosco con allegra titubanza, non era avvezza alla preparazione del vino ma aveva visto che tutto il villaggio era in fermento poi, ad uno sguardo sospirante delle due, capì che era proprio il momento adatto per andare nel bosco senza che nessuno si accorgesse della loro assenza e che prete e perpetua si impicciassero delle loro faccende. Non capì a cosa servisse il cestino ma comprese che era qualcosa di importante per cui decise di aggiungervi una manciata di uva passita dai chicchi grandi e succosi come non se n’era mai veduta prima nella valle. Si coprì con un mantello di lieve stoffa e si incamminò verso il bosco con Azalais e Brizeida. Come previsto nessuno fece caso a loro, erano tutti quanti troppo affaccendati nelle proprie faccende e l’unica accortezza fu di dar l’impressione di andare di fretta da qualche parte quando incontravano qualcuno. Cammina cammina si trovarono vicino ad un ruscello alimentato da un’acqua odorosa che sembrava sgorgare dalle viscere della terra e che lasciava sul greto una patina biancastra. Quale fu la sua meraviglia quando, seguendo l’esempio delle due donne, si trovò coi piedi nudi immersa in un fiume in taluni punti gelido, come si conviene ad un rio che trae la sua linfa dalle nevi perenni, e in altri tanto caldo da far venire voglia di immergersi anche in pieno inverno. Azalais e Brizeida sorrisero della sua espressione stupita mentre gli abitanti del bosco osservavano le tre con curiosità, sapevano che il cestino ricolmo voleva dire che avrebbero voluto incontrare la Sibilla ma una delle tre era decisamente una sconosciuta. Ebbero la certezza che fosse necessario aspettare e far capire che erano lì proprio per incontrarla. Si sedettero dunque in una grotta, riparate da una cascata naturale odorosa e calda, ad aspettare. L’attesa si prevedeva lunga perché le due donne ben conoscevano la diffidenza degli abitanti del bosco. Crearono tre giacigli con foglie e arbusti quindi si sedettero. Visto che parlare non era cosa troppo semplice date le barriere linguistiche, le due donne del borgo intonarono un canto, soffiando in un tronco cavo perfettamente intarsiato dalle abili mani di Ot che produceva un suono magico, vellutato e acuto al contempo. Fatima non sapeva suonare ma aveva capito che quello era l’unico modo di raccontare la sua storia senza falsità e senza timori. Si alzò e cominciò ad ondeggiare replicando con il bacino il movimento lento e flessuoso di serpenti e anguille. Dal suo ventre partiva una danza atavica che ella accompagnava con volute degli arti che si giravano in direzioni opposte e contrarie. Il tempo trascorse senza tempo mentre il suono della voce si univa a quello prodotto dal legno cavo e dal movimento del corpo. Si lasciarono andare ad un’estasi mediterranea in cui le onde del mare dialogavano con le dune del deserto nel bel mezzo delle alte montagne che abbracciavano la valle, forse parteciparono anche gli abitanti del bosco e forse pure la Sibilla si unì a loro perché, quando si destarono nell’abitazione della misteriosa forestiera il cestino era vuoto delle prelibatezze del borgo ma pieno di un prezioso manoscritto avvolto in carta di papiro che emozionò Fatima fino alle lacrime, e di altri monili magici che Azalais e Brizeida sapevano come distribuire. Nessuno seppe mai cosa accadde ma da quel giorno Fatima arricchì il cestino di Brizeida e Azalais con leccornie preparate con le sue abili mani per gli abitanti del bosco e per la Sibilla la quale ricambiava con i preziosissimi fogli di papiro. 

venerdì 23 settembre 2016

ESTATE

ESTATE

«e val trop mais qi zo qe diz aten,
qe qi en als son coratge cambia.»

«e vale molto più chi mantiene ciò che dice
che non colui che il suo intento muta.»
                         Guilleuma de Rosers

La temperatura era decisamente calda, muoversi significava inevitabilmente inzupparsi di sudore ma rimanere nelle abitazioni adatte a tenere lontano il freddo e mantenere il tepore all’interno era impensabile per qualunque persona con un po’ di senno. Il sole arroventava i metalli e rendeva densa l’aria afosa della valle, gli abitanti del borgo non erano davvero abituati a quelle temperature. Sembrava che i Saraceni avessero portato fin lì il clima che, si diceva, caratterizzava le terre degl’Infedeli. Non se n’erano mai visti, lì, di Mori e Saraceni ma se ne diceva un gran male. Il prete raccontava di luoghi lontani in cui uomini tutti neri e vestiti nelle fogge più strane bestemmiavano il primo comandamento, vivevano nel peccato, erano cattivi e volevano uccidere tutti i cattolici e i buoni cristiani. Pertanto era importante che le popolazioni delle valli, con cristiano spirito di sacrificio, accettassero le gabelle imposte per foraggiare le Sante Guerre contro i perfidi el-andalusi. Non soltanto arabi erano i nemici, ben si capisce, lo erano anche i catari che non accettavano l’autorità religiosa e i precetti di Santa Madre Chiesa. Era dunque evidente che le popolazioni delle valli, per l’incolumità dello spirito e della carne, dovessero accettare senza protestare le gabelle imposte per foraggiare le Sante Guerre contro i perfidi cristiani eretici. Gli abitanti del borgo e quelli del bosco non davano mai troppo ascolto alle parole del prete e cercavano di tener lontano lui e la perpetua da tutte le decisioni importanti. Andavano in chiesa, facevano tutto ciò che si conveniva ad un buon cristiano fingendo ottusa stupidità e poi si arrangiavano tra loro. Quella era una di quelle giornate in cui si erano dovuti organizzare da sé e avevano deciso di andare tutti quanti al ruscello nel bosco per rinfrescarsi un poco, certo in qualche modo avrebbero dovuto avvertire sacerdote e perpetua altrimenti chissà che avrebbero pensato, magari che si fossero convertiti al catarismo o che qualche Saraceno li avesse portati nelle terre assolate d’Arabia e di Spagna. Come fare? Daude il maniscalco, abituato al caldo della forgia ma non a quello del solleone, propose di chiedere un battesimo collettivo al fiume per scacciare gli spiriti catari e saraceni che sembravano portati dalla gran calura. Il saggio del villaggio ritenne la soluzione proposta molto interessante e cercò il modo migliore per parlare col sacerdote cui si rivolse pressappoco così:
“Abbiamo udito che i malvagi Saraceni e i perfidi eretici Catari minacciano il nostro villaggio”
“Le nostre anime, certo ma bisogna avere fede e confidare nella Misericordia”
“Sì ma le donne, sa, sono impressionabili e noi siamo povera gente, non come voi che avete studiato”
“Certo e dovete sempre recitare le vostre preghiere”
“Si ma”
“Cosa?”
“Noi vorremmo”
“Vorreste?”
“Vorremmo chiedervi”
“Cosa?”
“Di essere battezzati tutti insieme come un unico corpo per scacciare via gli spiriti Saraceni che sembrano giunti fin qui con le lingue di fuoco di satanassi e demoni”
“Oh buon uomo ma come si fa? Siete già tutti battezzati”
“Sì ma vorremmo essere proprio certi e vorremmo avere la benedizione”
“Ma come si può? Come si può?”
“Pensavamo che forse si potrebbe andare al torrente nel bosco e lì fare come è scritto nel Vangelo che ci avete detto”
Il prete fu talmente sorpreso da tale ardore religioso e così felice che gli venisse tributata tanta importanza dai sempliciotti del borgo che ebbe un fremito vanesio di improvvisa vocazione e assecondò il volere del borgo.
Grande fu il sollievo quando videro il prete avvicinarsi, tutti si segnarono e vi fu anche chi si inginocchiò implorante dinanzi alla croce del rosario.
Pregando e salmodiando si avventurarono dunque nella radura dove gli abitanti del bosco ridacchiavano nella frondosa freschezza boschiva.

Quando tutti quanti furono giunti al ruscello si diede inizio alla cerimonia che però, essendo celebrata in un luogo ben diverso dal solito,  presto si trasformò in un rito che sembrava piuttosto pagano. Si presero per mano, cantando le preghiere in una lingua a metà strada tra il latino e l’occitano, poi ondeggiarono spostando un piede davanti all’altro e poi di lato e incrociando, si formò un cerchio perfetto all’interno del quale si lanciò a danzare e cantare inni una persona per volta fino a che il ballo divenne frenesia tarantolata, movimento ritmato e caldo del Sud e la celebrazione di quell’insolita messa si tramutò in un momento di profonda liberazione dalle paure e dalle preoccupazioni. Danzarono senza fermarsi fino a notte fonda, si destarono nei loro giacigli senza sapere se quello che era accaduto nel bosco fosse stato sogno o realtà. Nessuno raccontò nulla ma da quel giorno sembrò quasi che prete e perpetua avessero cominciato a capire qualcosa di quella valle in cui le guerre non arrivavano mai se non in forma di racconto. 

giovedì 22 settembre 2016

AFELIO Garsenda di Sabran

AFELIO Garsenda di Sabran

Gli araldi avevano da tempo gridato l’annuncio delle nozze e nel borgo c’era molta agitazione per quel matrimonio tanto importante. La bella Garsenda di Sabran avrebbe unito il suo regno a quello di Alfonso II d’Aragona nel mese di luglio dell’anno Domini 1193 e tutto doveva essere perfetto, le strade pulite, le botteghe arieggiate, alle finestre bisognava esporre panni che facessero una bella figura, sulle case apporre le coroncine di fiori e grano che donne e bambini avevano preparato nei due anni precedenti l’evento e durante l’inverno non troppo rigido di Aix-en-Provence, che all’epoca non si chiamava esattamente così, ma questa è un’altra storia. Si arrivò persino a dire che sarebbe stato necessario lavare vesti e corpi, raccogliere i capelli in acconciature appropriate e abbigliarsi con decenza.
 Il sole sembrava voler entrare prepotente tra le finestre e il caldo rendeva l’aria densa di polvere, sudore e aspettative. 
Il castello brulicava di persone e frenesie. Cuochi, sguatteri, camerieri riuscivano miracolosamente a non urtarsi tra loro nella gran confusione generale, o quasi. La balia proprio non voleva capacitarsi del fatto che la bambina che aveva tenuto stretta sul suo generoso petto fino al mattino stava per subire il martirio del matrimonio con tutta la solitudine e lo squallore che ne derivava. Lei, con quel suo animo così gioioso e pronto allo scherzo, con quegli occhi vispi che sapevano scrutare nell’animo profondo di animali e piante, che sapeva leggere la musica nel gorgogliare di un ruscello non avrebbe dovuto sopportare tutto ciò che sposarsi, ineluttabilmente, comporta. Vedeva già la vivacità dello sguardo tramutarsi in comprensione delle umane cose, in smaliziate occhiate di chi ha capito la prosaicità mondana e non ha più illusioni, sogni... se fosse andata in convento certo sarebbe stato ancor peggio ma cos’altro poteva fare se non rammaricarsi per quello scricciolo di creatura? Mentre a passo di formica o di elefante attraversava il cortile si fermava d’improvviso inseguendo i suoi pensieri, girandosi di scatto e urtando chiunque si fosse trovato nel suo raggio di movimento, per quanto fossero stati precisi i loro calcoli di traiettoria e le previsioni di ogni minima o brusca variazione delle litanianti preghiere. Quando non arrivava a colpire inavvertitamente i malcapitati che si trovavano a transitarle accanto con gli arti e il busto ci pensava il rosario, ora scosso di qua e di là, ora lanciato con veemenza insieme alla pesante croce metallica, con le punte, per lo meno arrotondate, decorata con mosaico in pasta di vetro. L'unico movimento che evitava era quello che l’avrebbe portata accanto a Garsenda per non renderle ancor più gravoso quel già pesantissimo momento. Dal canto suo la futura sposa e Contessa di Provenza sembrava non far caso a nulla di ciò che le accadeva intorno, pareva quasi che tutto quel trambusto non la riguardasse minimamente, si lasciava lavare nell’acqua tiepida profumata con petali di rosa e fiori di lavanda, ungere con olii magici creati appositamente dalla Sibilla del mare, lucidare le unghie con la pietra e la sabbia. Lasciava che la guardassero e la scrutassero per abbellirla allontanandosi e avvicinandosi nuovamente come fanno i pittori quando dipingono o gli scultori quando rimirano e limano qui e là, dando un colpo di scalpello per rendere più gradevole all’occhio la propria opera per poi ricominciare a girarla e guardarla. La balia non c’era, non avrebbe mai potuto assistere alla lunga cerimonia di vestizione senza scoppiare in un pianto disperato e sincero che mal si addiceva ad un’occasione che doveva esser lieta di un matrimonio deciso e concordato nei minimi dettagli con apposito trattato, il trattato di Aix, appunto. I capelli erano stati lavati con infuso di camomilla e ortica per rendere più splendente e morbida la sua capigliatura dorata e lasciare che i raggi del sole rilucessero sul suo volto innocente facendola splendere quale gemma preziosa tra le gemme che ornavano le sue trecce, gocce di rugiada sui petali di un fiore mai colto. Ahhhhh no, la balia non poteva proprio vederla quella scena e così continuava ad essere l’ostacolo contro cui chiunque fosse in qualche faccenda affaccendato si andava necessariamente e inevitabilmente a scontrare. Il sole scottava sulla pelle eppure istintivamente aveva compreso che quel giorno la stella che infonde luce e vita sulla Terra era alla sua più siderale distanza dal pianeta. Non aveva nozioni di astronomia ma conosceva la profondità dello sguardo di Garsenda e pur di evitarle lo strazio del corpo goffo del marito nel talamo nuziale avrebbe volentieri fatto a cambio con lei. Pregava tutti i santi che conosceva che potessero farle un incantesimo per evitare alla piccola che aveva tenuto in braccio fino alla mattina di dover sopportare quel puzzo di ubriachezza dopo tali festeggiamenti e la prepotenza cui non poteva sottrarsi. Più ci pensava e più pericolosi e imprevedibili diventavano i suoi movimenti e relativi lanci di rosario con pesante croce intarsiata. Vani erano, da parte di chiunque avesse la sventura di passarle accanto, gli sforzi per distrarla in qualche modo dalle cupe riflessioni che mal si addicevano ad una tale festa. Maggiore era la pena che la balia provava nel cuore, maggiore il dolore fisico di chi orbitava intorno alla sua notevole presenza corporea, ovviamente. Grande fu il sollievo di tutti quanti quando Garsenda la mandò a chiamare con grande premura ed ella dovette sciacquarsi il volto, rassettarsi i capelli, riporre il temuto rosario in una tasca nel grembiale e recarsi, con l’umore uggioso e infelice, verso la stanza della giovane. Non ci fu bisogno di bussare alla porta perché l’attendeva, chiese, unico capriccio di tutta la giornata, di essere lasciata sola per qualche minuto con la balia che la guardò e non poté trattenere un gridolino di stupore e meraviglia. Quando tutte le ancelle furono uscite Garsenda prese la balia per mano e si fece accarezzare il volto, strinse con le sue dita lievi quelle abituate alla fatica della donna e intonò un canto melodioso come il suono dell’usignolo, spostò un piede davanti all’altro, senza scomporre la complessa acconciatura iniziò una danza lieve ché un discorso sarebbe stato troppo complicato, la balia capì e la assecondò, ballando come non aveva mai danzato prima e mai avrebbe fatto in futuro e tutto fu improvvisamente bello.

“L’amore e il matrimonio sono due cose diverse ha decretato il tribunale dell’amor cortese e non disperare, cara balia, che anche io troverò chi farà splendere la felicità nei miei occhi come oggi i raggi del sole rilucono sulla mia testa”, disse soltanto con aria tra il serio e lo scherzoso. Le risate si fusero insieme come un fuoco d’inverno, il gatto le guardò sornione non comprendendo se ciò che vedeva fosse il vero o frutto del caldo, non parve badarci tanto e si rimise a ronfare. 

mercoledì 21 settembre 2016

Solstizio

SOLSTIZIO

«O frate - disse -, questi ch'io ti cerno
col dito - e additò un spirto innanzi -
fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi.»
                                      Dante Alighieri[1]


Tuoni, fulmini, saette e raffiche di pioggia che si riversava in ondate orizzontali su prati, alberi e coltivazioni avevano caratterizzato l’inizio di quell’estate in cui tutto sembrava complottare contro la riuscita della festa popolare e di quella tradizionalmente tenuta nel castello geograficamente non troppo lontano dal borgo e dal bosco eppure così distante da tutto ciò che accadeva nella valle abbracciata dalle montagne. Azalais e Brizeida erano un po’ preoccupate, sapevano che la Sibilla gradiva ricevere il cestino carico di prelibatezze e utensili in occasione di particolari ricorrenze astronomiche, quali appunto il solstizio, ma avventurarsi nel bosco era semplicemente impossibile. Oltre al pericolo di essere colpiti da un fulmine c’era il rischio di non riuscire a ritrovare la via di casa e sicuramente chiunque, ma soprattutto il prete e la perpetua, si sarebbero accorti della loro assenza e questa era un’eventualità da escludere nel modo più categorico. Il problema era che, senza il favore della Sibilla, della Fata Bianca e della Fata del Lago, seminare la segale per il raccolto invernale sarebbe stato a dir poco imprudente. Come se non fossero bastate le preoccupazioni che già avevano, giunse, nel bel mezzo del temporale estivo, una carovana di gitani con facce ece abbigliamento che non s’erano mai vedute in tutta la valle. Avevano i volti intirizziti dal vento e dall’acqua, i vestiti zuppi e strani calzari grondanti terra. Parlavano una lingua antica, gutturale, di cui ben poco si comprendeva. Venne chiesto l’aiuto di Mirabai, forse una qualche reminiscenza lontana avrebbe potuto in qualche modo aiutarla a comprendere ciò che dicevano, ma niente. Il saggio del villaggio temette che sarebbe stato necessario avvisare il parroco e chissà che avrebbe detto e quante storie avrebbe fatto. Non era il caso. Stettero in silenzio fino all’arrivo di Calduc, donna di poche e ponderate parole ma dalle grandi e apprezzatissime abilità culinarie. Appena entrò nell’abitazione piccola ma decorosa, strizzò gli occhi come per ripararsi da una luce o per meglio leggere mimute lettere, salutò e si lanciò in una conversazione lunghissima con quegli insoliti gitani, tanto più insoliti in quanto non erano affatto gitani. Si guardarono e continuarono a parlare senza sosta, destando ovviamente lo stupore di chi conosceva il burbero carattere della donna, mangiarono con generosità, bevvero con allegria e risero felici producendo strani versi. Quando ebbero finito il cielo si era rischiarato, l’estate sembrava aver finalmente capito che era ora di fare capolino e Azalais e Brizeida cominciarono a prepararsi per portare alla Sibilla il cestino con ciò che le avrebbe fatto piacere ricevere. Calduc prese il cestino, le guardò negli occhi spiegando senza parole che quella volta sarebbe andata lei nel bosco, accompagnata da quegli strani gitani. Brizeida e Azalais, abituate a non contraddire troppo la cuoca con il carattere a dir poco irascibile, capirono che questa volta non avrebbero potuto, neanche accampando le più ragionevoli ragioni, andare contro la sua volontà e forse preferivano così, c’era qualcosa di inquietante e familiare al contempo in quell’insolita compagnia. Il saggio del villaggio annuì e chiese a Calduc l’onore di accompagnarli, ella acconsentì con sguardo di dolce rimprovero. Si allontanarono appena la frenesia nel borgo fu sufficientemente caotica. Appena giunsero, come il saggio del villaggio aveva intuito, i gitani si tolsero gli abiti che li rendevano tanto goffi e i calzari che celavano zoccoli resistenti: quale meraviglia quando, tolti i cappelli, emersero palchi di splendide corna o orecchie a punta e lunghe zanne. Gli abitanti del bosco avevano chiesto, per una volta, ospitalità a quelli del borgo e per non spaventarli avevano nascosto le loro vere sembianze in abiti gitani. Calduc guardò attentamente la reazione del saggio del villaggio, il quale era sì meravigliato ma non impaurito, quindi cominciò a spogliarsi lentamente e mostrò la sua vera natura. Brizeida e Azaleis non avrebbero dovuto sapere che era per suo tramite che loro potevano comunicare con la Sibilla e mai ne ebbero neanche il minimo sentore. Il saggio del villaggio si lasciò guidare verso una foresta di conoscenza di cui non immaginava neanche l’esistenza, respirò a lungo e per scacciare i cattivi pensieri o per esprimere la profonda meraviglia, cominciò a cantare producendo suoni gutturali e una scala armonica di sonorità flautate, come un concerto di campanellini. Gli abitanti del bosco e Calduc assecondarono il canto e suonarono con splendidi strumenti fiabeschi intarsiati con gli utensili forgiati da Daude, il maniscalco. Danzando, suonando e cantando arrivarono fino ad una radura indicata dall’arcobaleno dove gli animali stavano ballando in modo incantevole. Si fermarono soltanto quando arrivò Cernunnos, di cui il saggio del villaggio aveva soltanto sentito parlare, tanto tempo prima, ma gli avevano detto che l’uomo cervo era soltanto una diceria pagana, un culto demoniaco o qualcosa del genere. Lui aveva sempre dato poco credito a demoni e diavoli ma la presenza in carne, ossa e corna di Cernunnos lo aveva davvero impressionato. Gli abitanti del bosco intonarono i canti armonici che il saggio del villaggio aveva accennato e cominciarono a danzare in cerchio, poi in una specie di spirale, seguendo  i simboli rituali incisi su qualche pietra che a volte si svelava qui e là.  Ballarono senza fermarsi per un tempo che sembrò infinito, esplorarono luoghi e spazi che ancor oggi gli scienziati avrebbero difficoltà a definire, tutto fu comprensibile in quell’istante perenne, tutto fu limpido e il saggio del villaggio, quando si svegliò nel suo giaciglio senza sapere bene dove si trovasse, non domandò niente ma da quel giorno pose nel cestino di Azalais e Brizeida un pane di segale fatto con le sue mani con sopra un simbolo di quelle danze, ricordo di un arcobaleno di cui non seppe e mai volle sapere se fosse stato immaginario o reale.




[1] Dante Alighieri, Purgatorio XXVI, 115-120

martedì 20 settembre 2016

PRIMAVERA Gli ebrei erranti

PRIMAVERA Gli ebrei erranti

Era quella la stagione in cui tutto sembrava risvegliarsi, gli animali andavano in amore, i fiorellini sbocciavano sugli alberi profumando l’aria con i pollini raccolti dalle api bottinatrici, e il prete vigilava con solerzia sulla tranquillità del borgo, sia mai la troppa allegrezza si fosse trasformata in libera espressione di gioia, peccato contro le divine e sacre scritture. Di tutta evidenza era anche quel tempo in cui chi ama non riamato immalinconisce ma quell’anno non vi fu tempo di tramutare la malinconia in tristezza, il morbo dell’animo tanto temuto, perché giunse al villaggio un gruppo di esuli ebrei in fuga dalla città di Narbona dove infuriava una battaglia per la successione e quindi i primi contro cui si erano scagliate le fazioni rivali erano stati proprio loro, colpevoli di aver fatto crocifiggere Gesù e quindi perseguitati per principio, per picca, per ripicca e per puntiglio nella infinita diaspora del popolo di Abramo.
Avevano così narrato la loro storia chiedendo asilo per il tempo necessario a spostarsi verso più miti e favorevoli luoghi: «I giorni di Rabbi Todros […] furono tempi di grande calamità per la città, poiché il signore di Narbona, Don Aymeric, venne ucciso nel corso della battaglia di Fraga, senza lasciare eredi [che gli sopravvivessero], e il governo della città venne lasciato nelle mani di Donna Esmeineras [Ermengarda], ancora minorenne, terza [dei suoi tre figli]. E i grandi paesi ambivano alla sua eredità, in quanto [la viscontea] è grande e ricca, e la persuasero dunque con tutte le loro forze a sposare il signore di Tolosa, Don Alfonso. Ma il conte di Barcellona, Raimondo Berengario, nemico di questi e parente di Donna Esmeineras persuaderà costei a rifiutarne la mano, consigliandole di sposare Don Bernardo d’Anduze. Si scatena così una guerra che vede la città divisa in due fazioni: una metà appoggia la viscontessa e i suoi consiglieri, mentre l'altra si schiererà con il conte di Tolosa, Don Alfonso. Ora, prima [di questi avvenimenti], vi era a Narbona una grande comunità ebraica di circa duemila unità, tra cui grandi [personaggi] e studiosi di fama mondiale. A causa di queste lotte, essi si disperdettero nel territorio di Anjou, di Poitou e in Francia. Durante questa guerra un pesante tributo fu imposto alla comunità [ebraica]»[1]
Il saggio del villaggio, di comune accordo con gli abitanti del borgo e del bosco, aveva pensato che non sarebbe stato possibile celare agli occhi indiscreti di prete e perpetua un’intera carovana di ebrei i quali, dal canto loro, non avrebbero acconsentito a sentir messa turandosi le orecchie con la cera come avrebbero dovuto sopportare più tardi durante le prediche romane facendo finta di essere cattolici. D’altronde non avrebbero costituito per il borgo un gran pericolo. Si decise di andare dal prete e, con un’abilità che ottenne l’ammirazione incondizionata del rabbi e finanche delle più manipolatrici madri di quegli ebrei erranti, il saggio del villaggio parlò.
“Oh Signur, oh Signur!”
“Che c’è? Perché invochi l’Altissimo senza un motivo?”
“Oh Signur, ooooooh Signur!”
“Buon uomo, cosa c’è? Lo vedi che qui c’è un gran daffare vuoi dirmi che cosa succede?”
“Ma come posso? Come? Oh Signur, Signur, Signur”
“Vuoi venire in confessionale? Con me puoi aprire il tuo cuore, hai premura per la salvezza della tua anima?”
“Ah!”
“Che è stato?”
“L’anima, l’anima, l’anima, oh Signur, Signur, Signur”
“Cosa avrai mai fatto di tanto grave da aver paura per la tua anima?”
“Voi dovete avere pietà di me, io sono soltanto un sempliciotto, non le capisco le cose che vossia sa su tutto ciò che è giusto e sbagliato e io ora… oh Signur, Signur”
“E sempre sia lodato. Buon uomo cosa è accaduto? Parlate vi dico!”
“Oooooh, cosa cosa cosa, perché perché perché ma io volevo soltanto..."
“Cosa buon uomo, cosa?”
“Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati”
“Giusto e invece?”
“E invece ho dato da bere agli assetati e da mangiare agli affamati”
“E hai fatto bene, bravo”
“Oh Signur, voi dite?”
“Ma certo buon uomo, hai fatto una buona azione, così è nelle Sacre Scritture”
“Aaaaah”
“Cosa?”
“Io volevo soltanto...”
“Dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati e hai fatto bene quindi ora lasciami alle mie faccende… ma… un momento… chi erano questi assetati e affamati? Forse lebbrosi? Eretici? Saraceni?”
“Ahhhh, lo vedete che io, me miserrimo, non capisco cosa c’è scritto e poi faccio confusione?”
“Parlate mi state snervando”
“Ho dato...”
“Da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, questo l’ho capito ma a chi????”
“A….. LORO!” gridò nel pianto indicando con gesto teatrale il gruppo che si fece avanti con aria mesta, dignitosa, seguito a poca distanza da tutta la popolazione del borgo che aveva assunto, per l’occasione, un’aria trita, contrita, triste e preoccupata che avrebbe ispirato un moto di sincera pena a chiunque avesse avuto un cuore, seppur celato dietro un abito talare.
Di fronte a questo magistrale coup de théâtre il prete non poté far altro che accoglierli, come le regole del giusto vivere impongono e le parole delle Sacre Scritture insegnano, nella chiesa, acconsentendo a che venissero ospitati alla meglio nel borgo, dietro lauto compenso e regalie di vario genere, tra cui un pesce conservato e spezie d’India, merce rarissima in quella valle abbracciata dalle montagne. Com’è uso tra le genti ebraiche essi ringraziarono l’Altissimo intonando un canto litaniante e melodioso e danzando un ballo atavico che scatenò gli istinti risvegliati dalla stagione floreale. L’arrivo degli erranti divenne una grande festa che si protrasse per due notti e tre giorni. Rimase impressa nella memoria al punto che ancor oggi nella valle si celebra la primavera con una bellissima e coloratissima fiera danzante anche se degli esuli ebrei tormentati per picca, per ripicca e per puntiglio non v’è più memoria se non nei balli tradizionali e nella musica che li accompagna.




[1] Traduzione francese di Aryeh Graboïs dal testo ebraico originale, in Graboïs 1966, p. 24-25, da Wikipedia nota 3 alla voce Ermengarda di Narbona

lunedì 19 settembre 2016

Equinozio. Mirabai.

EQUINOZIO

Mas aitan plus vuoill li digas, messatges,
qu'en trop d'orguoill ant grand dan maintas gens.

Ma vo' che gli dica, mio messaggero,
che troppo orgoglio molto danno reca.
Dona de Toloza


Quella mattina il freddo era talmente intenso che i raggi del sole non riuscivano neanche a sciogliere le stalattiti di ghiaccio formatesi nottetempo sui rami gelati degli alberi, i crochi si ergevano orgogliosi facendo prevedere la fine dell’inverno col prezioso carico di zafferano e gli uccellini del bosco cercavano di svegliare la nostra stella con un soave e melodioso canto. Nel borgo i comignoli tossivano un fumo denso le cui particelle quasi  si cristallizzavano nell’azzurro pieno dell’aria limpida e tersa. Mentre gli orsi erano immersi nel loro letargo gli animali selvatici cominciavano ad uscire dalle tane. Che le giornate si fossero allungate era più che evidente e infatti quello era proprio il giorno in cui l’oscurità e la luce si alternavano in un equilibrio perfettamente bilanciato. Non altrettanto equilibrati sembravano, però, gli umori nel villaggio e soprattutto nella casa dove abitava la giovane e bellissima Mirabai. Ella non era originaria della valle, essendo stata lasciata lì in tenera età da una coloratissima carovana che poco somigliava a quelle di gitani e zingari d’ogni dove e la cui origine era rimasta avvolta nel mistero più fitto, gelosamente custodito dagli abitanti del borgo. Non c’era stato molto altro da fare quando il piccolo batuffolo frignante era comparso sulla piazza se non affidarlo alle amorevoli coccole di Ot e Bieris, cui si era invano rigonfiato il ventre per poi sgonfiarsi tra lacrime e sangue molteNmolte volte. Non erano giovanissimi e avevano trovato nel profondo amore che li univa la soddisfazione di una vita che si prospettava senza pargoli e frugoletti in giro per l’umile seppur decorosa abitazione. Il borgo si era rinchiuso nel più assoluto riserbo e nulla aveva fatto trapelare alle orecchie di prete e perpetua, ai quali qualche dubbio era sorto ma aveva preferito far finta di non accorgersi di niente, tanto più che la piccola Mirabai, di lei si sapeva soltanto lo strano nome, ispirava in chi le si avvicinava un senso di pace interiore e serenità che placava anche il più focoso tra i più rissosi del borgo. Aveva occhi color del cielo nel tramonto d’inverno, la pelle morbida e leggermente più scura di quelle di Ot e Bieris seppure non del colore di Mori e Infedeli, morbidissimi capelli neri, un sorriso grazioso e un portamento regale. Le ci era voluto un po’ prima di adeguarsi al clima rigido della valle, sembrava fosse abituata a temperature molto più calde e le stoffe in cui era avvolta erano tessuti preziosi degni di una principessa. Il carattere della piccola Mirabai era tutto fuorché docile ma a Bieris e Ot divertiva vederla impuntarsi su questioni che sembravano per lei di fondamentale importanza quali la disposizione di fiori e bacche nelle coroncine festive. C’era qualcosa di meraviglioso in lei che incuteva sempre un certo rispetto. Da quando era arrivata nella loro vita Bieris e Ot avevano iniziato a decorare semplicemente la loro abitazione a ricamare anziché soltanto rammendare le loro vesti e per la ormai non troppo piccola Mirabai c’era sempre modo di trovare qualche filo che lei sapientemente univa alle pietre raccolte accanto al ruscello creando arzigogoli tanto belli che ricordavano quelli con cui erano ornati i panni che l’avevano avvolta al suo arrivo nel villaggio, anche non le era mai stato rivelato di esser giunta e non nata in quel luogo. Man mano che Mirabai cresceva Ot e Bieris invece di invecchiare sembravano rimanere sempre giovani, dal loro sguardo era sparita la rassegnazione e alla frustrazione si era sostituita una vivace gioiosità che faceva bene allo spirito e al corpo. Cosa poteva essere accaduto in quella mattina di marzo in cui il giorno e la notte si alternavano con pari dignità da causare tutto quel trambusto nella casa che sembrava benedetta dalla serenità e dalla pace? Mirabai più che una creatura angelica pareva un’ossessa era arrivata persino a strillare e strepitare con la foga di un giovane purosangue lanciato in una corsa furiosa. Ot e Bieris, superato il momento iniziale di sbigottimento, stavano reagendo con veemenza e, se lui era più accondiscendente, lei non voleva saperne di darle ragione. A quell’età tutti quei capricci le sembravano davvero inopportuni, non li aveva fatti quando era piccola doveva cominciare proprio ora che era divenuta signorina a gridare a quel modo? Ma che maniere erano?
“Non voglio, non voglio, non voglio e mai lo farò!” si sentiva risuonare selvaggiamente in tutto il villaggio mentre Ot rimbrottava: “Ma che le abbiamo detto di male?” e Bieris berciava: “Che le abbiamo detto? Di preparare il corredo le abbiamo detto e quando mai s’è sentita tale ostinazione a non volersi né sposare né farsi monaca?”, era talmente sorpresa che stava quasi per rivelarle il segreto che per tanti anni era rimasto celato all’ombra delle montagne, nella tranquilla valle in cui gli abitanti del borgo e gli abitanti del bosco vivevano felicemente e senza troppi scossoni da così tanto tempo che oramai s’era persa la memoria della prima volta in cui s’erano parlati per giungere ad un accordo di pacifica convivenza. Come se non fossero bastate le urla anche il placido cane Boj s’era messo ad ululare mentre i gatti s’erano ben guardati dal rimanere oltre in quel luogo disarmonico, almeno fino a che non fosse stata ristabilita un po’ di domestica serenità come si conviene ad un’abitazione popolata anche da felini i quali, come è noto, amano accovacciarsi vicino alla stufa e sonnecchiare ronfando senza eccessivi disturbi o leggere un bel libro illustrato anche se a quel tempo i libri illustrati erano cosa rara e preziosa ed erano custoditi nei monasteri o nelle splendide biblioteche nobiliari, ma questa è un’altra storia. Il trambusto si placò soltanto quando giunsero Brizeida e Azalais recanti un pandolce caldo e profumato di anice preparato da Calduc. Ot e Bieris impallidirono, temendo che fosse giunto il momento di rivelare ciò che avevano riposto in fondo alla memoria e che ora sembrava più irreale della neve d’agosto. Si sedettero intorno ad un tavolo e venne servito latte caldo in zuppiere dove intingere il pandolce, la cui fragranza sciolse la morsa di tensione che aggrovigliava gli stomaci di Ot e Bieris. Azalais iniziò, calma, a parlare.

“Oggi vorremmo andare nel bosco, la giornata è così bella da non poter essere sprecata e vorremmo riempire il nostro cestino per non avere fame durante il tragitto”. Bieris comprese all’istante e Ot la lasciò agire, visto e considerato che sembrava proprio che sapesse cosa fare anche se lì per lì non si era proprio avveduto di quelle ‘cose da donne’. Si alzò rischiando di far cadere il latte e il pandolce di Calduc, rovistò in un ripostiglio segreto e ne trasse un bellissimo nastro, piccolo seppur riccamente ricamato, lo avvolse in un pezzo di tela che aveva tessuto con le sue mani e lo mise nel cestino. Ot capì, uscì a prendere uno splendido legno che aveva intarsiato magistralmente con le sue mani per tutto l’inverno e che avrebbe dovuto servire come decorazione per la festa d’estate, lo mise nel cestino coprendolo con un po’ di paglia. Mirabai li guardava torva e sembrò placarsi soltanto quando Brizeida le chiese se per caso non volesse accompagnarle ché loro sentivano di non aver più l’età per avventurarsi da sole nel bosco. Era palesemente soltanto una scusa ma la giovane sembrò non avvedersene. Bieris e Ot non si sarebbero opposti e questo era, a suo modo di vedere, un punto a suo favore, così indossò la pesante mantella e uscì insieme alle due sagge donne con la benedizione silenziosa di Ot e Bieris. Brizeida e Azalais le strinsero rispettivamente la mano destra e la sinistra e si incamminarono verso il bosco. La giovane non ne aveva la minima idea ma stava per scoprire qualcosa di tanto importante da non poter essere raccontato. Nonostante la stretta delle mani le infondesse fiducia è impossibile descrivere quale fu la sua meraviglia quando sentì Azalais e Brizeida parlare con gli abitanti del bosco, di cui invero aveva sempre sospettato l’esistenza e quindi non si era più di tanto stupita vedendoli comparire da un cespuglio che in effetti si muoveva un po’ troppo. Le donne percorsero un tratto di sentiero e poi si trovarono in una radura verdeggiante dove neve e ghiaccio non avevano trovato alloggio, al centro crepitava un grande fuoco e intorno ferveva una sonora attività musicale di cui fino ad un passo prima di mettere piede sul verde manto non si era udita una sola nota. Poggiarono il cestino su una pietra con delle strane e arcaiche incisioni, si scrollarono dalle spalle la pesante coperta invernale e intonarono un canto atavico da cui si diffondevano dense sonorità. Mirabai, senza capire cosa stesse facendo e perché, si tolse i calzari invernali restando scalza sulla soffice terra, il suo corpo fu percorso da un brivido e da quei graziosissimi piedi partì un movimento armonioso perfettamente sincronizzato. Dovunque i suoi passi si dirigessero spuntavano fiori coloratissimi e d’improvviso quei fiori si trasformarono in uomini e donne riccamente abbigliati con veli policromi che si scatenarono in una danza di indescrivibile bellezza la cui forza evocava luoghi lontani, posti da cui provenivano spezie sconosciute e profumi mai annusati. Gli uomini e le donne si intrecciarono tra loro come ruscelli impetuosi e fiammeggianti ciliegi mentre Mirabai si esprimeva in una danza che mai s’era veduta in tutta la valle, un ballo vorticoso e formalistico al contempo, fino a che cadde addormentata avvolta dai suoi capelli per risvegliarsi nel suo giaciglio allo spuntare del primo giorno di primavera mentre il gatto ronfava accanto al camino acceso, Bieris preparava una tazza di latte caldo e Ot sistemava la porta che aveva cigolato per tutto l’inverno.  

domenica 18 settembre 2016

PERIELIO Il cavaliere misterioso

PERIELIO Il cavaliere misterioso

«Ar em al freg temps vengut
quel gels el neus e la fainga
el aucellet estan mut,
c'us de chanter non s'afrainga
e son sec li ram pels plais
que flors ni folha no-i nais
ni rossinhols no-i crida
que am s'en mai me reissida»

«Siamo ai giorni freddi venuti
con neve e ghiaccio e fanga
e fermi gli uccellini e muti:
nessuno a cantar si rinfranca.
E gli alberi e i rami spogli
sono senza fiori e foglie
né l'usignuolo amato grida
quando al maggio mi risveglia»
Azalaïs de Porcairagues

Il pettirosso spiccava nel bosco gelato dalla Fata del Freddo come un fiore scarlatto cresciuto nell’albula nebbia dei poli. Gli alberi erano sculture scintillanti di brina e neve, le strade che portano al villaggio interamente ricoperte da un manto di freschissimi e soffici fiocchi di acqua cristallizzata sul quale non c’erano neanche le orme di lepri e passeretti. Le foglie della quercia, l’ultimo albero a togliersi le vesti per potersi accertare del risveglio primaverile, sembravano decorazioni scolpite nel diamante da mano invisibile ed incredibilmente talentuosa. Il silenzio era accompagnato dal freddo notturno, la giornata cominciava a costruire i suoni della quotidianità e la luce dell’alba prismatiche meraviglie. Una finestra si aprì nell’inverno pieno di gennaio mentre il crepitio del fuoco scaldava un comignolo aggiungendo una nuvoletta all’aria limpida del mattino nella valle abbracciata dalle montagne. Il ciaf ciaf improvviso degli zoccoli in quel silenzio ovattato sembrò irreale agli abitanti del borgo e a quelli del bosco. Come avesse fatto una persona a ritrovar la via quando non si vedeva neanche l’ombra di un acciottolato fu il primo tra i tanti misteri che accompagnarono l’arrivo del cavaliere, celato da algido mantello, che montava un destriero immacolato nascondendo il proprio volto dietro una maschera anch’essa bianca, su cui spiccavano due baffetti neri sottili e un pizzetto sottilissimo sotto sopracciglia ad ali di gabbiano perfettamente disegnate, pareva col carbone o con quelle strane tinture per viso che usano gl’Infedeli in Terra d’Arabia. Il cavaliere viaggiava solitario, non v’era un servitore o una compagnia, non c’era uno stendardo o una bandiera, un segno di riconoscimento, niente. Con passo cadenzato e ritmico cavalcava verso il borgo, senza fretta e senza indugio. Non bastò neanche il tempo di preparare una tazza di latte caldo che le finestre si spalancarono quali occhi curiosi di un unico organismo che pareva chiedersi se non fosse il Mago del Lago giunto fino al villaggio per qualche occorrenza eccezionale. Le nuvolette di fumo uscirono pettegole dai comignoli creando una movimentata serie di linee e volute, i gatti si stiracchiarono velocemente fingendo noncuranza per acciambellarsi sornioni e attenti. Gli zoccoli non lasciavano tracce, sembrava che cavallo e cavaliere planassero sulla superficie terrestre in un nulla soffice e nevoso. Forse furono proprio i rigagnoli del legno arso a mettere in allerta gli abitanti perché, in effetti, il rumore degli zoccoli del bianco destriero non si distingueva quasi dal silenzio prodotto da un fiocco di neve nell’impatto col suolo. Quando giunseigiunse, il villaggio si schiuse e si richiuse accogliendolo e fagocitandolo al proprio interno con l’eleganza e la celerità di un Tyto alba alba, o barbagianni che dir si voglia, intento nelle ricognizioni notturne.

Quale meraviglia quando dall’elmo spuntò la splendida chioma perfettamente agghindata della dama del castello. Lei si tolse la maschera e affidò ai paesani il pesante compito della verità di una donna innamorata che era fuggita dal letto nuziale per andare incontro al suo unico vero amore mentre il marito era in battaglia. Se fosse tornata al castello sarebbe scoppiato uno scandalo e lei aveva pensato di fidarsi di quelle persone che tante volte le avevano dimostrato affetto e lealtà. Il paese si raccolse intorno a lei e una donna la prese per mano conducendola verso il calduccio della sua povera ma dignitosissima abitazione. Le sue dita erano sporche di lavoro e indurite dalla fatica, non lasciarono macchie sulla pelle diafana e intirizzita dal freddo della coraggiosa dama infervorata dal più puro e nobile sentimento. Il saggio radunò tutta la popolazione facendo una gran fatica a non sbirciare e a tenere a freno la curiosità di grandi e piccini. La questione era importante e molto delicata e richiedeva la più assoluta collaborazione da parte di ciascuno. Un problema non da poco era ovviamente tenere il tutto nascosto a prete e perpetua prima di aver preso la giusta decisione. Il più piccolo di tutti quanti si aggrappò alle mani delle due persone che aveva accanto, d’improvviso tutti si presero per mano formando un cerchio e il saggio ebbe l’illuminazione di andare a raccogliere quanta più legna era possibile per creare un gran falò al centro del cerchio. In men che non si dica fu creata una grande pira che si accese con una luce fortissima e un inconfondibile profumo di resina, tutti quanti si disposero in cerchio salmodiando una litania in una lingua arcaica quasi scomparsa dalla loro memoria che narrava di amor cortese e di un inverno infinito. Un passo laterale, il piede si riunisce all’altro, un passo incrociato, il piede si riunisce, un passo indietro, il piede si riunisce e poi di seguito. La dama del castello non capì subito perché la sua gentile ospite le avesse asciugato in tutta fretta le lacrime dal viso felice e disperato al contempo né riusciva a comprendere per quale motivo avrebbe dovuto uscire e affrontare tutto ciò che le avrebbe gettato sul nome e sull’onore l’infame sigillo del ripudio. Gli occhi della donna erano dolci, calmi, fiduciosi e lei non poté far altro che seguirla mentre si rassettava le vesti e decorava i suoi capelli con un ramo di bacche rosse. Non si ribellò quand’ella pose sulla sua testa una coroncina di nastri e agrifoglio cui erano state tolte le spine per non offendere, né quando la prese per mano e la portò fuori dalla sua dimora. Appena all’esterno sollevò i lembi del mantello con la solennità riservata ad un re o ad un imperatore, il cerchio danzante si aprì per farla passare e la più povera donzella non maritata le si avvicinò con coraggio e umiltà, profondendosi nell’inchino più elegante che potesse immaginare. La dama del castello capì, si inchinò a sua volta e iniziò a ballare con lei, la prese tra le braccia e la fece volteggiare all’interno del cerchio danzante. La giovane si lasciò guidare, quindi le due si lanciarono in un ballo furioso, ardendo come fossero state espressione stessa del fuoco che riscaldava i volti e i corpi della gente del borgo. Chiunque avrebbe potuto giurare che a quella danza si fosse unita anche la popolazione del bosco ma tale e tanta era la concitazione che non vi fu altro se non la gioia di quell’istante presente in cui la dama del castello e la più povera donzella non maritata difesero la propria libertà sugellando un patto di rispetto. Trascorsero due notti e tre giorni in balli scatenati, si cucinò in un grande paiolo e da quel giorno la più povera ragazza nubile del borgo divenne la compagna inseparabile della dama del castello. Le danze e l’idromele scaldarono via il freddo dai cuori e dai corpi, la zuppa calda li nutrì, nessuno avrebbe potuto giurare quando arrivò la castellana, l’unica certezza fu che quella festa divenne tradizione, così come l’usanza per cui ogni lustro la più povera fanciulla del borgo accompagna la dama nel castello, dove riceve un’educazione e la possibilità di un futuro dignitoso. 

sabato 17 settembre 2016

Inverno. La danza di Challant

La danza di Challant 
INVERNO

La cosa più bella dell’inverno è mettersi intorno al fuoco a raccontare storie mentre si svolgono tutte quelle attività che durante il giorno o nella bella stagione non s’ha il tempo di fare. È un momento del ricordo e della narrazione, attimi in cui tutto è più vero del vero, i racconti della montagna e delle valli si mischiano con le storie più bizzarre e le più inverosimili fiabe prendono forma nella brace ardente.
Fuori è tutto bianco e nero, con la volta celeste imperlata di stelle, i raggi della luna ad illuminare i fiocchi di neve cristallizzati sugli alberi di cui si scorgono a malapena i tronchi e i rami.
Le montagne, pericoloso rifugio spesso infestato da briganti o da belve selvatiche ma soprattutto abitato dalla popolazione del bosco e dai popoli montani, sono maestose e dense.
Dentro si sta ben riparati dalle intemperie, al calduccio di un focolare intorno al quale fervono le attività più varie, c’è chi crea o sistema i cesti, chi intarsia le grolle di legno, chi aggiusta o modifica gli attrezzi agricoli, chi ricama e rammenda vestiti, chi intreccia fiori per le ghirlande natalizie. Sul fuoco un gran pentolone, di quelli buoni, col fondo che non si spacca mai, nel caso si ripara, si aggiusta, altrimenti sai che disastro!, da cui emanano profumi delicati, l’aroma delle castagne, il pane dei poveri, si unisce alle suggestioni floreali e balsamiche dell’estate. Le erbe raccolte dopo la Pentecoste, messe ad essiccare per insaporire zuppe e pasti che scacciano via il freddo dal naso e dai bronchi.
Qualche topolino cerca riparo negli anfratti e si avvicina lesto quando i gatti sono troppo intenti a godersi la compagnia facendo le fusa acciambellati sul ventre comodo di chi non ha paura del potere magico che taluni attribuiscono loro, ronfando fino a divenire parte integrante di quella musica sommessa che si crea da sé, tra rumori di scalpelli e aghi, mestoli e risate per mandar via le paure e ricordarsi che in fondo il gelo può essere anche un alleato nella Valle di Challant.
Certo, quando le nevi non arrivavano fino ai piedi del monte anche in primavera, coltivare la terra lontano dal forte è più semplice, per quanto possa essere facile coltivare la terra, bassa e capricciosa. L’acqua da queste parti non manca, anzi, anche in inverno si sente il Dora gorgogliare vivace e i torrenti ammansiti cercando di imitare alla meglio quello che avevano fatto, tanti anni fa i Romani. Si raccontava che prima del tempo, o almeno così si capiva dalle prediche in chiesa, c’erano i Romani, gli infedeli che misero in croce Gesù. Beninteso, non erano infedeli infedeli, come i mori e gli arabi, è che pensavano di esistere prima di Cristo e non capivano niente. Qualcosa però l’avevano compresa, i pellegrini che venivano dalla Francia diretti a Roma o che tornavano dalla Città del Papa raccontavano di grandi costruzioni fatte in modo bizzarro, con i muri rotondi, a guisa degli archi, come se ci fossero delle mani invisibili e si potesse scoccare tramite essi un qualche immaginario dardo. Dovevano essere bei guerrieri questi Romani infedeli per arrivare a costruire archi con cui lanciare frecce contro il cielo grandi quanto un castello. Non come Ibleto l’invincibile e fiero guerriero che li proteggeva e che aveva fatto costruire il forte più sicuro di tutto il Regno dei Savoia proprio a protezione del paese, di Verrez.
Lo aveva eretto sopra una roccia ed era più sicuro dell’antro della grande montagna. Neanche il Drago di Loo avrebbe potuto entrarvi senza trovare una fervida resistenza. Per accedervi era necessario passare a piedi, con il lato scoperto dallo scudo ben visibile ed era impenetrabile con gli arieti. Da lassù si vedevano anche le lingue degli aquilotti urlanti nel nido coperti dalle invincibili ali di Mamma Aquila.
C’era di che sentirsi protetti a stare al calduccio con i guerrieri a guardia del feudo, eppure i valligiani avevano imparato anche a proteggersi da sé. Il fatto di non poter possedere armi certo non era utile ma tutti insieme potevano fare e anche decidere qualcosa. Ibleto si era dimostrato tanto valoroso in battaglia da conquistare il favore dei Savoia e il rispetto dei loro avversari, a loro non dispiaceva per niente e quando c’era stato da combattere si erano stretti intorno a lui e avevano dato una bella mano. Non s’erano tirati indietro come la prudenza avrebbe richiesto, invece di rintanarsi in casa e nascondere donne, bambini e uomini in età da lavoro s’erano uniti ai guerrieri con quello che avevano, attrezzi agricoli, bastoni, pentole. La prima volta era accaduto tanti anni prima, quando c’era il valoroso feudatario, ma poi era capitato di nuovo, a difesa di altri membri della famiglia di Challant.
I bambini non credono mai alla storia della bella Caterina e chiedono di sentirla raccontare ancora una volta per trovare qualche elemento da contestare. D’altronde, che assurdità sarebbe!, niente a che vedere con i racconti della Fata di Verrayes, una Sibilla che conosce il fato di ognuno e di tutto ciò che è e sarà, o della Sposa Bianca che si aggira tra i ghiacci, a volte salvando chi vi rimane intrappolato, altre volte incantando con la carezza del sonno.
Quando i rumori davanti al grande focolare da suoni diventano una vera e propria musica ecco che si ripete la magia, ogni anno la stessa, qualcuno istintivamente controlla che non ci sia nessuno a sbirciare e curiosare e poi il lento crepitio si trasforma in musica e la Contessa di Challant agita i piedi della più bella del borgo che così, scalza, si anima di una forza sovrumana e lascia che il fuoco diventi ritmo e ispirazione e movimento.
Tup tup tup le fasce utilizzate come calzari battono cupi colpi sul pavimento, il mestolo gira nel paiolo, le palette di legno richiamano gli spiriti del bosco, intorno al borgo cala il silenzio scandito dal tempo dell’ultima campana della sera, la neve cade lieve complice nell’attutire i rumori, le mani, le poche che riescono a liberarsi dalle attività, si uniscono al focolare per ricreare la magia di quella notte in cui trenta musici fecero uscire la Contessa a ballare insieme al suo popolo, le foglie tra le labbra usate per il richiamo degli uccelli diventano splendidi flauti e pifferi. Qualunque utensile viene usato per ricreare i suoni di quella notte di giugno, quando le api si preparavano ad impollinare i fiori disposti a cerchio nei prati dalle fate che lì avevano danzato fino alle prime luci dell’alba, in cui la Contessa si lanciò in un ballo dionisiaco insieme al popolo che aveva difeso lei e la sua famiglia.
Clang clang clang le posate per cucinare si muovono guidate dall’invisibile genio degli abitanti dei boschi a ricomporre le suggestioni di quella notte unica in cui fu la gente a decidere e non i potenti, in cui fu il popolo a scegliere e non i regnanti, quella sera che sembrava fatta apposta per innamorarsi o gettarsi in qualche impresa impossibile, quella notte in cui la luna illuminava a giorno la valle e le nuvolette che nascono dagli alberi venivano soffiate dai dahu e dai greundzi a nascondere le creature del bosco, quelle del magico e incantato regno dell’ignoto e della fantasia che soltanto i bambini e i gatti conoscono, mentre si univano anche loro nella travolgente danza della fiera Caterina.
Tin tin tin ecco che anche i martelli cominciano a muoversi ritmicamente e la bella del villaggio lascia da parte il rossore che le sale alle guance e, incitata dagli altri, si lancia in una danza focosa, zingaresca e gitana in cui tutto sembra ricrearsi.
Blub blub blub il liquido bollente infonde calore e forza, intorno al focolare si tiene la gonna, lascia liberi i piedi con un’impudicizia che non pensava di avere, scioglie i lunghi capelli, neri serpenti che sembrano uscire direttamente dal fuoco. Prima un giro semplice, un passo lento e ripetitivo poi due passi avanti e uno indietro, come nei balli tradizionali, il ritmo aumenta, lo scialle preparato con tanto amore e con tanta cura sempre riposto nello stipo più alto con i fiori di lavanda per allontanare le tarme e l’elicriso per profumarlo d’estate viene lanciato verso l’ignoto, forse proprio verso il futuro sposo.
All’esterno il silenzio, controllato di quando in quando da qualche premuroso, dentro tutto è musica, ritmo, danza. Non si potrebbe ballare, c’è chi dice che il ballo è opera del demonio, ma non c’è niente di male in quei movimenti, non c’è niente di sbagliato in quella magia che si ripete ogni anno.
La contessa sembra prendere per mano la bella, le fate le insegnano passi antichi, gli abitanti del bosco le infondono, per una notte, il senso ineffabile del ritmo e tutto si trasforma.
Le braccia si muovono con la forza degli alberi scossi da una tempesta, i suoni diventano la più soave e meravigliosa tra le musiche mai composte, gli abitanti del bosco difendono quel popolo che ha saputo scegliere, che ha avuto il coraggio di affermare la propria volontà e di unirsi nella meraviglia della libertà.
All’improvviso tutto tace, come d’incanto, lasciando negli occhi il dubbio che sia stato soltanto il sogno di un gatto che ronfa acciambellato davanti al fuoco o qualcosa che unicamente i bambini sanno vedere.
La bella del paese si ricompone lesta, riprende il suo scialle riposto con tanta cura, chissà se il suo sposo sarà proprio colui che con le stelle nello sguardo indugia un impercettibile istante a ridarle il caldo accessorio?, riannoda i capelli nella cuffia senza far vedere neanche una di quelle ciocche che si erano divincolate con la forza di un torrente in piena fino a qualche attimo prima, qualche attimo che ora sembra eterno, riannoda le fasce a coprire i piedi, riprende il lavoro di ricamo quasi come se non l’avesse mai interrotto.

La vecchia balia del castello intona una nenia, i suoni ancestrali fanno venire un certo non so che, assopiscono in quello che, forse, è stato soltanto un sogno frutto dell’immaginazione fervida di un gatto, di un bimbo o di una vecchia. 

venerdì 16 settembre 2016

La danza sibillina. Solstizio d'inverno

La danza sibillina. SOLSTIZIO D’INVERNO

I preparativi erano la parte più frenetica, non si sapeva mai come sarebbe stato possibile, c’era sempre qualcosa che non andava come previsto ma alla fine tutto era pronto, le lanterne si accendevano in un insieme spettacolare, sembrava che il sole si destasse placidamente dal sonno e finalmente si ricordasse di tornare a scaldare i campi coperti di acqua trasformata in gelo dalla fata dell’inverno.
Il parroco diceva che non si doveva credere nelle fate, negli gnomi e negli altri abitanti del bosco, gli dicevano di sì ma non gli badavano, ne sapeva tante, lui, ma a far la legna non c’era mai andato e non s’era mai neanche inoltrato tra i fitti rami per cercare i funghi con cui Calduc faceva quella minestra così densa e profumata che soltanto a pensarci veniva l’acquolina in bocca e l’umidità delle ossa svaniva d’incanto. Non era mai stato nemmeno nella regione del grande lago, abitato dalla Bianca fata e dalla Sibilla che viveva ben celata da occhi estranei. Gli abitanti del borgo la conoscevano ma sapevano che soltanto tramite gli abitanti del bosco potevano entrare in contatto con lei. Quando ne avevano bisogno per un avvenimento importante o una malattia che sembrava incurabile, stando ben attenti a non farsi vedere dal parroco ché altrimenti chissà che avrebbe detto, Brizeida o Azalais, rispettivamente la levatrice e la nutrice dei signori del castello, si coprivano bene e, quando nessuno passava per le strade si allontanavano con un cestino intrecciato con le loro mani pieno di nastri, bacche e prelibatezze preparate in gran segreto da Calduc.
A volte i loro cestini avevano all’interno anche qualche utensile preparato dal maniscalco Daude, uno scialle di lana di pecora colorata con l’elicriso, calzari e altre cosette che potevano esserle utili nel bosco. Nessuno sapeva dove abitasse, a dire il vero non ne avevano la minima idea ma trovavano sempre un modo per incontrarla.
La quercia era decorata di brina luminosa, gli abeti adornati con coroncine intrecciate, e nel borgo ferveva veloce l’attività per utilizzare quelle poche ore del giorno.
Bugie decorate con quello che si trovava nel bosco, oggetti semplici che esprimevano tutta la forza di millenni di bellezza. Tante cose s’erano dimenticate dopo che erano arrivati i barbari però il senso del bello era rimasto nella memoria visiva e sensoriale delle popolazioni che abitavano la valle. La voglia di aggiustare, sistemare, abbellire anche quel niente che a volte costituiva il tutto di una vita era un modo per gioire ed essere felici e cuore lieto il Ciel l’aiuta.
Prima del solstizio non ci si poteva proprio dimenticare di portare qualcosa di buono alla Sibilla per propiziare il favore della Fata Bianca e della Fata del Lago con cui lei era certamente in buoni rapporti. Soprattutto perché aveva più volte fatto capire agli abitanti del borgo che prima di talune ricorrenze le faceva piacere ricevere qualche piccolo dono. Brizeida e Azalais avevano pronti i loro cestini e le loro cappe, certe che sarebbero riuscite a sgattaiolare via indisturbate e che la loro assenza non sarebbe stata notata da nessuno in quel trambusto prima della festa per il passaggio dall’autunno all’inverno. Avevano preparato uno scialle con splendidi fili che parevano d’argento mescolati alla lana celestina e bianca, l’avevano ricamato con semplici decori all’uncinetto ispirandosi alle foglie e ai frutti dell’estate e le avevano confezionato un paio di calzari di panno impermeabilizzato con cera d’api e resina di pino nero. Calduc aveva preparato un pan dolce con rosa canina, uva passita, miele di ginestra, farina di castagne, fiori di lavanda e noci che soltanto a guardarla faceva venire una gran voglia di assaggiarne anche soltanto un pezzettino. Un gesto e un biscotto appena sfornato sarebbero bastati al piccolo Cossezen, impegnato nell’arduo compito di dare un aiuto a tutte e due nelle faccende più disparate, per richiamarle. Aveva la missione di mantenere sul loro allontanamento il più assoluto riserbo e al loro ritorno lo aspettava una bella salsiccia cotta apposta per lui. Una vera e propria leccornia che non si sarebbe lasciato sfuggire per niente al mondo. Quando tutti gli abitanti del borgo erano per le strade o impegnatissimi nel sistemare tutto ciò che c’era da preparare e quando i festeggiamenti sembravano allontanarsi perché non si sarebbe mai e poi mai fatto in tempo a mettere tutto a posto e a sistemare tutto a puntino Cossezen ricevette il compito più importante di tutto l’anno, che portò a compimento con velocità, maestria e destrezza degna di un felino. In men che non si dica di Brizeida e Azalais non si ebbe più traccia, ma d’altronde a cercarle in quel trambusto sarebbe stata impresa più che difficile, impossibile. Il piccolo garzone con la chioma riccioluta e gli occhi vispi capì che se anche lui fosse sparito in quel preciso istante nessuno si sarebbe accorto della sua assenza e soprattutto nessuno si sarebbe preoccupato se non l’avesse trovato. E così ecco che fece qualcosa di veramente inaspettato e di severissimamente proibito, seguì nel bosco le due donne, col rischio di perdersi e non ritrovare più la via di casa. Mentre si addentrava nella radura, tra i sentieri che credeva di conoscere a menadito tutto gli apparve arcano, remoto. Una leggera nebbiolina rendeva oscuri i tronchi degli alberi di cui conosceva i più nascosti anfratti per esservisi rintanato quando non voleva che le incombenze più noiose lo scovassero. La luce della luna faceva fatica ad attraversare i folti rami e gli uccelli notturni pareva lo deridessero col loro canto stridulo. I suoi piedi abituati a non rompere neanche il più piccolo ramoscello si muovevano felpati, il battito del suo cuore scandiva veloce un ritmo forsennato nella sua testa. Le tempie pulsavano come se tanti picchi stessero battendo i loro becchi contro il cranio, nella gola sentiva l’arsura che gli bruciava le corde vocali cosicché non poteva certo essere stato prodotto dalla sua ugola quel canto soave e lieto che aveva indistintamente udito.
Guidato da uno scoiattolo si raggomitolò nel ramo più nascosto dell’abete che era proprio lì e si mise a guardare senza credere ai suoi occhi.
Brizeida e Azalais, erano loro avrebbe potuto giurarlo, improvvisamente ringiovanite tanto da poter essere confuse facilmente con due vergini del castello, tolti i cupi e caldi mantelli svelavano corpi sinuosi velati da stoffe policrome finemente decorate e intarsiate con le gemme più preziose della Terra, i loro calzari popolani erano raffinatissime scarpette della seta più pura d’Oriente ricamata con fili d’argento e perle di fiume, i loro capelli erano adorni di fiori di una tale freschezza e carnosità che non aveva mai veduto prima. Un inebriante profumo di essenze, muschi, ambre ed erbe aromatiche si spandeva nell’aere. Il pandolce di Calduc era al centro di un cerchio, accanto ad un fuoco azzurro e giallo, composto da un numero imprecisato di donne, fate, animali e abitanti del bosco. Molti di loro avevano strani strumenti che emettevano suoni mai ascoltati prima, melodie complesse in cui echeggiavano sonorità simili al richiamo delle campanelle sistemate a bella posta intorno alle finestre e accanto agli usci per scacciare via gli spiriti malvagi e propiziarsi quelli benevoli, una linea densa di armonici sottesa al canto degli strumenti a corda o a fiato.
meravigliosi canti si levarono verso la luna e il tempo parve fermarsi all’improvviso.
Cossezen si sforzava di guardare più attentamente ma non scorgeva altro che il lento frusciare delle vesti e la delicatezza dei movimenti veloci sugli strumenti. I suoni lo attiravano come canto di sirene, doveva stare attento  a non sporgersi troppo per non cadere e rovinare al suolo fragorosamente tra le risate degli uccelli notturni e il disappunto degli abitanti del bosco. Che figura ci avrebbe fatto se si fossero accorti di lui, intruso nell’abbraccio legnoso dell’abete che gli aveva offerto un così protettivo rifugio? Pessima e lo avrebbero preso in giro per anni in tutta la valle, senza contare che rischiava anche di scatenare lo sfavore della Fata del Lago e della Bianca Fata, per non menzionare la Sibilla che si sarebbe poi rifiutata di raccogliere le richieste degli abitanti del borgo mettendo a repentaglio l’esistenza stessa del paesello.
La musica si fece sempre più coinvolgente, il suono sempre più forte e d’un tratto una donna bellissima, forse la Sibilla?, con lunghi capelli neri mossi, il corpo esile ma non di magrezza eccessiva, ridondante di forze e colmo di passione iniziò a muovere passi studiati, precisi e scanditi da un ritmo rituale.
Tutte le persone che erano attorno al fuoco giallo e azzurro si presero per mano, coloro che avevano gli strumenti formarono un altro cerchio, più grande e più aperto, i due cerchi cominciarono a muoversi in direzioni opposte e contrarie, fermandosi dopo due passi per un passo indietro in sincrono perfetto.
La donna con i capelli neri si tolse il lungo scialle frangiato che le copriva le spalle con un gesto intrecciato delle braccia a creare una fiamma vivace. Cominciò a muovere lo scialle e questo si trasformò in ali che la cingevano e abbracciavano il focolare e i cerchi in movimento. Cossezen non riusciva a chiudere la bocca dalla meraviglia, gli occhi spalancati per non perdere neanche un dettaglio di quello spettacolo tanto fantastico che neanche alla corte dell’imperatore s’era mai veduta cosa altrettanto mirabile.
Il ritmo regolare dei passi era scandito da tutti gli strumenti che uno alla volta si staccavano dal gruppo per creare musiche celestiali e sfrenate che si compenetravano al canto arcano e favoloso delle voci e delle onde di armonici.
Le ali della donna avevano avvolto i cerchi, si erano posate a proteggere il gruppo svelando un corpo sodo e morbido adornato di una veste arabescata col blu della notte più fonda che emanava riflessi di stelle e pianeti. I piedi si stendevano lunghi scoprendo colli e caviglie flessuose come giunchi sottilissimi mossi dal vento, le gambe snelle si alzavano certe e nette muovendo l’ampia gonna nella luce della fiamma, complice la nebbiolina che sfocava i contorni, trasformandola in una enorme nuvola con forma di fiore o farfalla, per un attimo Cossezen temette fosse diventata fuoco ella stessa tanto verosimile era il movimento della nuvola emanata dal ventre stesso della donna. Lei sciolse i lunghi capelli dal nastro avvolto in una folta treccia imperlata e si lanciò in un ballo ch’egli non aveva né avrebbe mai più rivisto. I piedi liberi dai calzari si spostavano esperti seguendo una coreografia magica conosciuta soltanto dagli abitanti del bosco e dalle fate. All’improvviso tutto si trasforma in bellezza, libertà, assolutezza.
“Cossezen!”
Lo sguardo morbido e dolce di Brizeida e Azalais accanto a lui gli fanno temere d’essere stato scoperto, si guarda intorno smarrito e con sua somma sorpresa riconosce gli oggetti quotidiani, la stufa su cui borbotta una pentola di fagioli, il panno morbido e resistente delle gonne contadine, il gatto che fa le fusa e c’è anche un pezzetto del pandolce di Calduc.
Cossezen non capisce, si sveglia stordito nel dubbio di essersi ridestato da un sogno mai sognato.