Carmen de Burgos, Columbine
Una risata limpida le scuote il petto generoso
fino ad arrivare agli occhi scuri, vispi che tanto hanno visto e molto vogliono
ancora vedere. I capelli raccolti in una composizione arzigogolata e complessa
che tiene a bada i riccioli neri, lucidi e ribelli, come lei che però non
pensa neanche per un attimo a stare ‘a bada’. Suo padre ha sempre amato il suo
carattere forte, determinato, in cuor suo avrebbe voluto somigliarle un po'. Coraggiosa, curiosa della vita e lui uomo di media statura, tutto d’un
pezzo, come li facevano una volta, benestante, proprietario di miniere e
vice-console portoghese ad Almería. Sempre cordiale e certamente non vile. Definirlo un codardo sarebbe più che sbagliato, un vero torto epperò ogni volta
che vedeva partire un bastimento dal porto di Almería, una delle navi cariche di
merci, di persone e di speranze, aveva la sensazione che lui il fegato di
attraversare lo Stretto di Gibilterra e poi andare in mare aperto non lo
avrebbe mai avuto. Ricordava con un brivido di terrore misto ad ebbrezza la
prima volta che aveva visto l’oceano. Avrebbe voluto che fosse anche l’ultima
perché quella massa enorme in perenne movimento ti toglie la possibilità di
pensare razionalmente e a lui la mancanza di razionalità faceva sempre un certo
effetto. Le onde veloci che si rincorrono senza tregua, non come nelle placide
spiagge del Mediterraneo, dove c’è un ritmo che sembra quello del battito
cardiaco, ma con una foga che non si può immaginare se non la si vede, la furia
del leone e la velocità dell’aquila in picchiata che si avventa verso una
preda, nel vuoto, verso l’ignoto, assolutezza dell’attimo,
certezza del momento e contestualmente caducità dell’essere, temporalità
dell’esistenza. Vita nella sua espressione più tremenda. L’oceano non è un
semplice mare, è una cosa viva che risucchia nelle sue viscere fino a far
perdere il senno ai marinai più navigati, qualcosa da cui non si torna mai. Ne
aveva visti lui, da viceconsole portoghese nella spagnola città el-andalusa,
di naviganti che avevano preso il largo ed erano tornati con l’oceano negli
occhi, nello sguardo, nel corpo. Non erano come quei migranti che lasciavano la
loro terra in cerca di pane o di libertà e spesso non trovavano né l’uno né l’altra dopo viaggi assurdi, impossibili, disperati, non erano nemmeno come i
cercatori d’oro nel torrido deserto spagnolo fatto di terra e polvere e caldo
che soltanto la notte attutiva. I marinai che avevano nello sguardo
l’oceano non tornavano più a terra, se non per qualche breve sosta, qualche
istante di saudade che naufragavano nel forte e saporito vino spagnolo fino
alla successiva partenza, fino all’istante in cui sarebbero tornati al loro
elemento vitale. Quel qualcosa che diviene ed è, assoluto. Li riconosceva subito,
quando entravano nell’ufficio moderno della società di navigazione, con le
vetrate e le piante, non guardavano né le vetrate, né le piante ma soltanto le
sue mani, con le unghie ben limate e sempre pulite, ne seguivano i gesti nella
febbrile speranza di qualche indizio per un buon ingaggio, puntavano gli occhi
pieni d’oceano sul suo vestito ben stirato, sulle scarpe lucidate, i più audaci
fissavano le tese del cappello, immacolate nonostante la polvere del deserto
bianco. Ci teneva all’igiene,
pensava che la cura del corpo fosse qualcosa che andava di pari passo con il
rispetto di sé e degli altri, con l’onorabilità. La mattina si alzava sempre
alla stessa ora, a meno di eventi straordinari, ben prima dell’alba ché a Níjar
il sole bruciava la pelle e i volti degli uomini, inzaccherava i pensieri nella
sua densità di luce nel chiaro pulviscolo del deserto di rocce e
pietre dove far crescere succosi frutti della terra. Si radeva accuratamente
lisciando la lama del rasoio prima di farlo scivolare sulle guance inumidite
dal sapone, teneva a bada i suoi riccioli, ribelli come quelli della figlia,
bizzosa e con l’oceano negli occhi, anche se non lo aveva mai visto. Si era ben
guardato dal farglielo vedere, ma era stato subito chiaro che non sarebbe
rimasta a lungo tra le mura bianche di calce, nel caldo polveroso del Sud-Est
della Spagna.
L’abito non fa il monaco, recita il proverbio,
forse è vero ma quando entrava in quella città fenicia, romana, gota, araba,
genovese e infine spagnola che ancora portava il nome islamico attribuitole dagli al-andalusi, da non confondere con gli andalusi. “Al-Miriya”
l’avevano chiamata, nome semplice dal significato complesso di ‘specchio’. E lui,
José de Burgos Cañizares, quando arrivava in città voleva sentirsi a posto come
quando ci si guarda allo specchio per le ultime prove di un vestito nuovo dal
sarto cittadino.
Si faceva lustrare le scarpe sul lungomare, non
lontano dal porto fremente commerci da qualche millennio, sotto i grandi alberi
che procurano tutt’oggi refrigerio e una frescura che non si sente neanche nei
giardini dell’Alcazaba vicino alle acque murmuranti di canali e canaletti, cambiava
il cappello che custodiva in un pesante panno di seta indiana, lo spazzolava e
così faceva coi vestiti, che si premurava comunque di coprire con un poncho. Si
umettava il viso con acqua di colonia profumata di fiori e muschi, rimetteva a
posto i riccioli ribelli quindi, quando il sole cominciava ad insinuare i
vicoli e le strade con vampate di calore, entrava nella cattedrale per la
prima messa del giorno. Si raccoglieva in preghiera con una religiosità
profonda, non si metteva mai in prima fila, preferiva stare nel mezzo, non
lontano dal confessionale, per sentirsi immerso nelle litanie, rilassare il
cervello, ritrovare la giusta concentrazione e la dovuta devozione per chiedere
protezione all’Altissimo e alla Santa Madre Vergine.
Dopo aver fatto la comunione, essersi mondato
di polvere e peccati, poteva cominciare la sua giornata in quella città dove il
concetto di confine non si era mai limitato all’orizzonte visibile, alla
striscia blu increspata di bianco delle placide acque del Mediterraneo.
Aveva elaborato una teoria su un’inquietudine
di avventura per chi nasceva nello ‘Specchio’ e sua figlia Carmen ne aveva e ne
avrebbe dimostrato l’esattezza. Quando aveva annunciato che si sarebbe sposata
col figlio del governatore civile di Almería era una ragazzina. Arturo Álvarez
Bustos era già un uomo verso i trent’anni, faceva il giornalista ma non aveva
minimamente la stoffa di suo padre e quella figlia forte e determinata non lo avrebbe tollerato a lungo. La cosa lo inorgogliva, da una parte.
Non gli era mai piaciuto quell’uomo che si sentiva un ragazzo e faceva il filo
alla sua Carmen protetto dallo sguardo accondiscendente di sua moglie, Nicosia
Segui Nieto. Lei aveva sì fatto una scelta coraggiosa dettata dall’amore ma la
loro era una passione vera e lui certamente non era paragonabile a quel
pappamolle, seppur di buona famiglia. Un giovinastro moderno che voleva fare
l’elegantone e che non aveva neanche l’accortezza di spazzolarsi gli abiti
quando attraversava il deserto bianco, gli aveva chiesto la mano di sua figlia
con le unghie mai perfettamente limate, un bruto mascherato da cicisbeo.
Inutile nasconderlo era questa l’impressione che aveva di lui e nelle sue
riflessioni più maligne arrivava a pensare che il padre fosse riuscito a
trovare la porta magica nell’Alcazaba, che taluni erano convinti esistesse, per
attraversare il tempo e che fosse arrivato fino all’epoca di Jairan al-Amiri,
primo re liberto di origini slave della Taifa, per acquistarlo al mercato degli
schiavi bianchi. Adesso non c’era più il mercato degli esseri umani eppure a
volte aveva l’impressione che quei disperati che attraversavano lo Stretto di
Gibilterra e poi l’oceano con gli occhi chiusi dalla paura e dalle ingiustizie
fino a sembrare composti soltanto dalle pupille fossero tanto simili ai
saqaliba medievali.
Dalle mani abituate al lavoro a volte trasudava
dignità, dalle pupille che avevano sostituito gl’iridi rancore, dai vestiti e
dalla magrezza disperazione e ingiustizia. Lui, José de Burgos Cañizares,
credeva fermamente nelle parole scritte nei Vangeli e gli piaceva tenersi
informato sulle novità tecnologiche, politiche, culturali, sulle idee
progressiste e conservatrici che circolavano nel mondo, per farsi un’idea da sé
di cosa pensare e di cosa dire nelle riunioni di famiglia o con gli amici.
L’igiene personale andava di pari passo con una limpidezza del pensiero. Seppur
non mettesse mai veramente in discussione i capisaldi della sua cultura
borghese e latifondista, amava leggere con attenzione e quella che riteneva
essere la giusta dedizione idee e pensieri. Lasciava decantare le parole, come
si fa col vino buono, in un angolo del suo cervello, a volte lasciava che si
posassero fino a che concetti e idee andavano a formarsi in un insieme armonico
e si collegavano alle sue proprie idee, modificando talune convinzioni e
rafforzandone altre. Essere un uomo tutto d’un pezzo voleva anche dire
aggiornarsi per mantenere quell’onestà intellettuale necessaria ad un pensiero
sincero, ragionato e razionale.
La sua libreria era piuttosto nutrita e la
piccola Carmen amava tuffarsi a capofitto tra le pagine mai spiegazzate di
libri ben conservati, dove la polvere non faceva in tempo a depositarsi. Né
José né Nicosia avevano mai posto limiti alla sete di conoscenza di Carmen, non
c’erano libri proibiti, era giusto che la sua formazione fosse all’altezza di
una donna colta e raffinata. Speravano forse che leggere le avrebbe un po’
ammorbidito il carattere focoso anche se il padre sapeva che chi ha l’oceano
nello sguardo non riesce mai a star veramente fermo in un posto e la madre
aveva subito compreso che imporle qualcosa sarebbe stato peggio che un inutile
spreco di energie, fiato e battaglie. Invece di placarle l’animo avevano quindi
cercato di istillarle la conoscenza affinché potesse indirizzarne
gli impeti verso un approccio ‘ragionato’ alla vita.
A poco erano serviti, però, gli insegnamenti degli
amati genitori, quando aveva visto il bruto mascherato da cicisbeo non si era
resa conto di cosa fosse logico e cosa fosse sbagliato e così aveva deciso di
accettarne la corte e persino di sposarlo.
Testarda e capocciona d’una spagnola!,
immaginare una vita tranquilla di mogliettina devota in una casa arredata con
sobrietà e qualche distrazione di quando in quando era impossibile almeno come
dirle di no. Sarebbe stato più semplice impedire ad un marinaio di imbarcarsi piuttosto che andare contro la sua volontà, se ci
si provava, lei rideva con un’allegria tale che non si riusciva a non ridere
insieme a lei e tutto prendeva una luce diversa, tutto appariva meno
importante, i rifiuti categorici svanivano tra i confini della logica della
libertà che traspariva dagli occhi vispi, neri, tizzoni ardenti che sapevano di
churrasco e vino e spensieratezza.
Nicosia e José non pensavano fosse giusto
opporsi ma c’era qualcosa che li convinceva poco. Il bruto mascherato da
cicisbeo, al secolo Arturo Asterz Bustos, non era adatto a lei, si vedeva
subito e si vociferava anche che fosse un libertino, licenzioso e piuttosto
assetato di vino e altre bevande alcoliche. Da quando le faceva la corte si
diceva in città che avesse smesso di frequentare certi locali, forse era un
buon segno, forse quella piccoletta ormai giovane donna aveva su di lui un buon
influsso, forse anche lui non riusciva a dirle di no, ad andare contro la sua
volontà temprata nell’acciaio del deserto e di solidi principi morali.
Una cosa è certa, non le avrebbero mai augurato
di soffrire tutta la frustrazione di un amore sbagliato al punto da farle
agognare e ottenere la separazione legale, cosa che le avrebbe ispirato
addirittura un trattato sull’importanza del divorzio nella società iberica.
Se non avesse riso di quella risata che
dissipava ogni asperità e avesse ascoltato i suoi genitori il cui sguardo
attento aveva raggiunto un verdetto di condanna inappellabile forse non avrebbe
sofferto tutte quelle pene, non avrebbe dovuto sopportare il peso di un
matrimonio sbagliato, di un uomo infedele, inconsistente e dedito
all’ubriachezza, non avrebbe dovuto tollerare, seppur urlando come una fiera
ferita nell’orgoglio, l’olezzo insopportabile di profumi femminili volgari e
indecenti sulla pelle dell’uomo che un tempo aveva amato, o creduto di amare.
Non conosceva, allora, il significato più
passionale del verbo che ha ispirato poeti, musici, cantori e cavalieri e forse
non ebbe mai a comprendere nell’esperienza del vivere la libertà che tale
parola può far esperire. Non seppe mai che l’oceano negli occhi di marinai e
persone libere può essere quello felice di una risata semplice nel godimento
più naturale e puro di un amplesso desiderato e voluto, in cui tutto è
assolutezza, gioia, libertà.
Si sarebbe innamorata, in seguito, sì, ma il
ricordo delle lacrime e delle delusioni le si era depositato nella parte più
recondita del suo essere, in quell’angolino in cui suo padre metteva a
decantare le idee e le parole.
Nel frattempo si era impettita, non che avesse
mai avuto un seno piccolo, ma lo aveva alzato come un generale in
battaglia e aveva affrontato la vita come un torero nell’arena, mai calma, mai
stanca e, in fondo, mai veramente rilassata. Non avrebbe concesso più a niente
e a nessuno, se non all’amore profondo per i suoi cari, di arrivare fino al
cuore, aveva eretto la sua barricata personale, fatta di un decolleté solido e strutturato,
caldaia a vapore di quel treno in corsa che mai più si sarebbe fermato. Una
locomotiva di idee, pensieri, immagini e suggestioni, di libertà e di passioni.
In pochi anni la sua risata, non più
cristallina ma tenacemente diamantina, avrebbe trovato il modo di esprimere,
peraltro pubblicamente sui giornali e nei libri a volte raccolti sotto lo
pseudonimo di Columbine, forse più in onore di Cristoforo Colombo che della
scaltra furbetta amata da Arlecchino, idee rivoluzionarie per l’epoca. Sarebbe
riuscita a coinvolgere editori, intellettuali, artisti e finanche funzionari
ministeriali a prendere in seria considerazione la questione del femminismo non
come una battaglia un po’ stravagante portata avanti da una nicchia di donne
esaltate che vogliono il predominio sul maschio, bensì come conquista sociale
di tutta l’umanità per la liberazione e l’affermazione del pieno rispetto dei
diritti umani fondamentali.
Nello sguardo quell’oceano che José temeva
tanto si era trasformato ben presto in sete di conoscenza, di sapere, al punto
che, sfidando senza timore le imposizioni sociali, riuscì a farsi ingaggiare,
prima donna nella storia, quale corrispondente di guerra. Non aveva timore
dell’ignoto, dell’assoluto.
Le sue teorie non sono nate dal bisogno di pane
e lavoro, dalla mancanza di mezzi di sussistenza o delle basi necessarie per
creali, sono frutto della necessità assoluta della libertà. Un lucido,
semplice e leggibilissimo esercizio del libero pensiero, di derivazione
liberale e borghese, di quella classe sociale, dunque, che aveva permesso di
attutire il divario tra aristocratici e nullatenenti, nei cui salotti si erano
sviluppate e diffuse le idee rivoluzionarie e risorgimentali.
Trovò il modo di far emergere le discrepanze, abituata
alla logica ferrea di José, scrisse raccontini domenicali d’amore e passione,
che potrebbero essere assimilati forse alle moderne telenovelas o fiction che
dir si voglia, in cui, verghianamente, poneva l’accento in modo apparentemente
innocuo sulle disparità tra uomo e donna, senza dare giudizi nella narrazione,
salvo poi esplicitare le sue idee a chiare lettere negli articoli e negli
scritti teorici, leggibilissimi anch’essi perché con le parole difficili non si
riescono a spiegare concetti semplici eppur non ovviamente ovvi.
Scotendo il petto con la leggerezza di una
risata ha avuto la capacità di coinvolgere, di prendere per mano gli
scettici fino a farli arrivare a comprendere appieno la giustezza delle sue
idee, con lo strumento che tuttora spaventa di più i fondamentalisti di
qualunque religione, la penna e la macchina da scrivere, armi micidiali che i
talebani e i terroristi di tutte le epoche hanno condannato quali
minacciosissimi, specialmente se in mani femminili.
Le dittature non amano la libertà.
Le parole di Columbine erano tanto pericolose,
tanto scomode da costarle l’esclusione dai libri di testo, di storia e di
letteratura durante il franchismo. Poco o nulla si saprà di quei funzionari che
hanno avuto lo zelo di cercare di ammutolirla, perché di loro, davvero non si
avrà memoria, non si avrà traccia, orme inconsistenti sulla sabbia finissima
cancellate dalla prima onda, non rocce, potenti e stabili pilastri nella lunga
e non sempre gloriosa storia del libero pensiero.
Le parole di Columbine, il suo oceano interiore
di libertà sono oggi una grande ispirazione e lo saranno negli anni, forse nei
secoli.
Le parole di Carmen de Burgos, che si è dovuta
chiamare con tanti pseudonimi perché essere donna e giornalista e scrittrice e
corrispondente di guerra non era adatto ad una esponente del gentil sesso, le sue parole, semplici, ovvie, sono il ruggire
dell’oceano interiore di ognuna e ognuno di noi.
Le parole di Columbine sono io, siamo noi.
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