venerdì 9 settembre 2016

Carmen de Burgos, Columbine

Carmen de Burgos, Columbine 

Una risata limpida le scuote il petto generoso fino ad arrivare agli occhi scuri, vispi che tanto hanno visto e molto vogliono ancora vedere. I capelli raccolti in una composizione arzigogolata e complessa che tiene a bada i riccioli neri, lucidi e ribelli, come lei che però non pensa neanche per un attimo a stare ‘a bada’. Suo padre ha sempre amato il suo carattere forte, determinato, in cuor suo avrebbe voluto somigliarle un po'. Coraggiosa, curiosa della vita e lui uomo di media statura, tutto d’un pezzo, come li facevano una volta, benestante, proprietario di miniere e vice-console portoghese ad Almería. Sempre cordiale e certamente non vile. Definirlo un codardo sarebbe più che sbagliato, un vero torto epperò ogni volta che vedeva partire un bastimento dal porto di Almería, una delle navi cariche di merci, di persone e di speranze, aveva la sensazione che lui il fegato di attraversare lo Stretto di Gibilterra e poi andare in mare aperto non lo avrebbe mai avuto. Ricordava con un brivido di terrore misto ad ebbrezza la prima volta che aveva visto l’oceano. Avrebbe voluto che fosse anche l’ultima perché quella massa enorme in perenne movimento ti toglie la possibilità di pensare razionalmente e a lui la mancanza di razionalità faceva sempre un certo effetto. Le onde veloci che si rincorrono senza tregua, non come nelle placide spiagge del Mediterraneo, dove c’è un ritmo che sembra quello del battito cardiaco, ma con una foga che non si può immaginare se non la si vede, la furia del leone e la velocità dell’aquila in picchiata che si avventa verso una preda, nel vuoto, verso l’ignoto, assolutezza dell’attimo, certezza del momento e contestualmente caducità dell’essere, temporalità dell’esistenza. Vita nella sua espressione più tremenda. L’oceano non è un semplice mare, è una cosa viva che risucchia nelle sue viscere fino a far perdere il senno ai marinai più navigati, qualcosa da cui non si torna mai. Ne aveva visti lui, da viceconsole portoghese nella spagnola città el-andalusa, di naviganti che avevano preso il largo ed erano tornati con l’oceano negli occhi, nello sguardo, nel corpo. Non erano come quei migranti che lasciavano la loro terra in cerca di pane o di libertà e spesso non trovavano né l’uno né l’altra dopo viaggi assurdi, impossibili, disperati, non erano nemmeno come i cercatori d’oro nel torrido deserto spagnolo fatto di terra e polvere e caldo che soltanto la notte attutiva. I marinai che avevano nello sguardo l’oceano non tornavano più a terra, se non per qualche breve sosta, qualche istante di saudade che naufragavano nel forte e saporito vino spagnolo fino alla successiva partenza, fino all’istante in cui sarebbero tornati al loro elemento vitale. Quel qualcosa che diviene ed è, assoluto. Li riconosceva subito, quando entravano nell’ufficio moderno della società di navigazione, con le vetrate e le piante, non guardavano né le vetrate, né le piante ma soltanto le sue mani, con le unghie ben limate e sempre pulite, ne seguivano i gesti nella febbrile speranza di qualche indizio per un buon ingaggio, puntavano gli occhi pieni d’oceano sul suo vestito ben stirato, sulle scarpe lucidate, i più audaci fissavano le tese del cappello, immacolate nonostante la polvere del deserto bianco. Ci teneva all’igiene, pensava che la cura del corpo fosse qualcosa che andava di pari passo con il rispetto di sé e degli altri, con l’onorabilità. La mattina si alzava sempre alla stessa ora, a meno di eventi straordinari, ben prima dell’alba ché a Níjar il sole bruciava la pelle e i volti degli uomini, inzaccherava i pensieri nella sua densità di luce nel chiaro pulviscolo del deserto di rocce e pietre dove far crescere succosi frutti della terra. Si radeva accuratamente lisciando la lama del rasoio prima di farlo scivolare sulle guance inumidite dal sapone, teneva a bada i suoi riccioli, ribelli come quelli della figlia, bizzosa e con l’oceano negli occhi, anche se non lo aveva mai visto. Si era ben guardato dal farglielo vedere, ma era stato subito chiaro che non sarebbe rimasta a lungo tra le mura bianche di calce, nel caldo polveroso del Sud-Est della Spagna.
L’abito non fa il monaco, recita il proverbio, forse è vero ma quando entrava in quella città fenicia, romana, gota, araba, genovese e infine spagnola che ancora portava il nome islamico attribuitole dagli al-andalusi, da non confondere con gli andalusi. “Al-Miriya” l’avevano chiamata, nome semplice dal significato complesso di ‘specchio’. E lui, José de Burgos Cañizares, quando arrivava in città voleva sentirsi a posto come quando ci si guarda allo specchio per le ultime prove di un vestito nuovo dal sarto cittadino.
Si faceva lustrare le scarpe sul lungomare, non lontano dal porto fremente commerci da qualche millennio, sotto i grandi alberi che procurano tutt’oggi refrigerio e una frescura che non si sente neanche nei giardini dell’Alcazaba vicino alle acque murmuranti di canali e canaletti, cambiava il cappello che custodiva in un pesante panno di seta indiana, lo spazzolava e così faceva coi vestiti, che si premurava comunque di coprire con un poncho. Si umettava il viso con acqua di colonia profumata di fiori e muschi, rimetteva a posto i riccioli ribelli quindi, quando il sole cominciava ad insinuare i vicoli e le strade con vampate di calore, entrava nella cattedrale per la prima messa del giorno. Si raccoglieva in preghiera con una religiosità profonda, non si metteva mai in prima fila, preferiva stare nel mezzo, non lontano dal confessionale, per sentirsi immerso nelle litanie, rilassare il cervello, ritrovare la giusta concentrazione e la dovuta devozione per chiedere protezione all’Altissimo e alla Santa Madre Vergine.
Dopo aver fatto la comunione, essersi mondato di polvere e peccati, poteva cominciare la sua giornata in quella città dove il concetto di confine non si era mai limitato all’orizzonte visibile, alla striscia blu increspata di bianco delle placide acque del Mediterraneo.  
Aveva elaborato una teoria su un’inquietudine di avventura per chi nasceva nello ‘Specchio’ e sua figlia Carmen ne aveva e ne avrebbe dimostrato l’esattezza. Quando aveva annunciato che si sarebbe sposata col figlio del governatore civile di Almería era una ragazzina. Arturo Álvarez Bustos era già un uomo verso i trent’anni, faceva il giornalista ma non aveva minimamente la stoffa di suo padre e quella figlia forte e determinata non lo avrebbe tollerato a lungo. La cosa lo inorgogliva, da una parte. Non gli era mai piaciuto quell’uomo che si sentiva un ragazzo e faceva il filo alla sua Carmen protetto dallo sguardo accondiscendente di sua moglie, Nicosia Segui Nieto. Lei aveva sì fatto una scelta coraggiosa dettata dall’amore ma la loro era una passione vera e lui certamente non era paragonabile a quel pappamolle, seppur di buona famiglia. Un giovinastro moderno che voleva fare l’elegantone e che non aveva neanche l’accortezza di spazzolarsi gli abiti quando attraversava il deserto bianco, gli aveva chiesto la mano di sua figlia con le unghie mai perfettamente limate, un bruto mascherato da cicisbeo. Inutile nasconderlo era questa l’impressione che aveva di lui e nelle sue riflessioni più maligne arrivava a pensare che il padre fosse riuscito a trovare la porta magica nell’Alcazaba, che taluni erano convinti esistesse, per attraversare il tempo e che fosse arrivato fino all’epoca di Jairan al-Amiri, primo re liberto di origini slave della Taifa, per acquistarlo al mercato degli schiavi bianchi. Adesso non c’era più il mercato degli esseri umani eppure a volte aveva l’impressione che quei disperati che attraversavano lo Stretto di Gibilterra e poi l’oceano con gli occhi chiusi dalla paura e dalle ingiustizie fino a sembrare composti soltanto dalle pupille fossero tanto simili ai saqaliba medievali.
Dalle mani abituate al lavoro a volte trasudava dignità, dalle pupille che avevano sostituito gl’iridi rancore, dai vestiti e dalla magrezza disperazione e ingiustizia. Lui, José de Burgos Cañizares, credeva fermamente nelle parole scritte nei Vangeli e gli piaceva tenersi informato sulle novità tecnologiche, politiche, culturali, sulle idee progressiste e conservatrici che circolavano nel mondo, per farsi un’idea da sé di cosa pensare e di cosa dire nelle riunioni di famiglia o con gli amici. L’igiene personale andava di pari passo con una limpidezza del pensiero. Seppur non mettesse mai veramente in discussione i capisaldi della sua cultura borghese e latifondista, amava leggere con attenzione e quella che riteneva essere la giusta dedizione idee e pensieri. Lasciava decantare le parole, come si fa col vino buono, in un angolo del suo cervello, a volte lasciava che si posassero fino a che concetti e idee andavano a formarsi in un insieme armonico e si collegavano alle sue proprie idee, modificando talune convinzioni e rafforzandone altre. Essere un uomo tutto d’un pezzo voleva anche dire aggiornarsi per mantenere quell’onestà intellettuale necessaria ad un pensiero sincero, ragionato e razionale.
La sua libreria era piuttosto nutrita e la piccola Carmen amava tuffarsi a capofitto tra le pagine mai spiegazzate di libri ben conservati, dove la polvere non faceva in tempo a depositarsi. Né José né Nicosia avevano mai posto limiti alla sete di conoscenza di Carmen, non c’erano libri proibiti, era giusto che la sua formazione fosse all’altezza di una donna colta e raffinata. Speravano forse che leggere le avrebbe un po’ ammorbidito il carattere focoso anche se il padre sapeva che chi ha l’oceano nello sguardo non riesce mai a star veramente fermo in un posto e la madre aveva subito compreso che imporle qualcosa sarebbe stato peggio che un inutile spreco di energie, fiato e battaglie. Invece di placarle l’animo avevano quindi cercato di istillarle la conoscenza affinché potesse indirizzarne gli impeti verso un approccio ‘ragionato’ alla vita.
A poco erano serviti, però, gli insegnamenti degli amati genitori, quando aveva visto il bruto mascherato da cicisbeo non si era resa conto di cosa fosse logico e cosa fosse sbagliato e così aveva deciso di accettarne la corte e persino di sposarlo.
Testarda e capocciona d’una spagnola!, immaginare una vita tranquilla di mogliettina devota in una casa arredata con sobrietà e qualche distrazione di quando in quando era impossibile almeno come dirle di no. Sarebbe stato più semplice impedire ad un marinaio di imbarcarsi piuttosto che andare contro la sua volontà, se ci si provava, lei rideva con un’allegria tale che non si riusciva a non ridere insieme a lei e tutto prendeva una luce diversa, tutto appariva meno importante, i rifiuti categorici svanivano tra i confini della logica della libertà che traspariva dagli occhi vispi, neri, tizzoni ardenti che sapevano di churrasco e vino e spensieratezza.
Nicosia e José non pensavano fosse giusto opporsi ma c’era qualcosa che li convinceva poco. Il bruto mascherato da cicisbeo, al secolo Arturo Asterz Bustos, non era adatto a lei, si vedeva subito e si vociferava anche che fosse un libertino, licenzioso e piuttosto assetato di vino e altre bevande alcoliche. Da quando le faceva la corte si diceva in città che avesse smesso di frequentare certi locali, forse era un buon segno, forse quella piccoletta ormai giovane donna aveva su di lui un buon influsso, forse anche lui non riusciva a dirle di no, ad andare contro la sua volontà temprata nell’acciaio del deserto e di solidi principi morali.
Una cosa è certa, non le avrebbero mai augurato di soffrire tutta la frustrazione di un amore sbagliato al punto da farle agognare e ottenere la separazione legale, cosa che le avrebbe ispirato addirittura un trattato sull’importanza del divorzio nella società iberica.
Se non avesse riso di quella risata che dissipava ogni asperità e avesse ascoltato i suoi genitori il cui sguardo attento aveva raggiunto un verdetto di condanna inappellabile forse non avrebbe sofferto tutte quelle pene, non avrebbe dovuto sopportare il peso di un matrimonio sbagliato, di un uomo infedele, inconsistente e dedito all’ubriachezza, non avrebbe dovuto tollerare, seppur urlando come una fiera ferita nell’orgoglio, l’olezzo insopportabile di profumi femminili volgari e indecenti sulla pelle dell’uomo che un tempo aveva amato, o creduto di amare.
Non conosceva, allora, il significato più passionale del verbo che ha ispirato poeti, musici, cantori e cavalieri e forse non ebbe mai a comprendere nell’esperienza del vivere la libertà che tale parola può far esperire. Non seppe mai che l’oceano negli occhi di marinai e persone libere può essere quello felice di una risata semplice nel godimento più naturale e puro di un amplesso desiderato e voluto, in cui tutto è assolutezza, gioia, libertà.
Si sarebbe innamorata, in seguito, sì, ma il ricordo delle lacrime e delle delusioni le si era depositato nella parte più recondita del suo essere, in quell’angolino in cui suo padre metteva a decantare le idee e le parole.
Nel frattempo si era impettita, non che avesse mai avuto un seno piccolo, ma lo aveva alzato come un generale in battaglia e aveva affrontato la vita come un torero nell’arena, mai calma, mai stanca e, in fondo, mai veramente rilassata. Non avrebbe concesso più a niente e a nessuno, se non all’amore profondo per i suoi cari, di arrivare fino al cuore, aveva eretto la sua barricata personale, fatta di un decolleté solido e strutturato, caldaia a vapore di quel treno in corsa che mai più si sarebbe fermato. Una locomotiva di idee, pensieri, immagini e suggestioni, di libertà e di passioni.
In pochi anni la sua risata, non più cristallina ma tenacemente diamantina, avrebbe trovato il modo di esprimere, peraltro pubblicamente sui giornali e nei libri a volte raccolti sotto lo pseudonimo di Columbine, forse più in onore di Cristoforo Colombo che della scaltra furbetta amata da Arlecchino, idee rivoluzionarie per l’epoca. Sarebbe riuscita a coinvolgere editori, intellettuali, artisti e finanche funzionari ministeriali a prendere in seria considerazione la questione del femminismo non come una battaglia un po’ stravagante portata avanti da una nicchia di donne esaltate che vogliono il predominio sul maschio, bensì come conquista sociale di tutta l’umanità per la liberazione e l’affermazione del pieno rispetto dei diritti umani fondamentali.
Nello sguardo quell’oceano che José temeva tanto si era trasformato ben presto in sete di conoscenza, di sapere, al punto che, sfidando senza timore le imposizioni sociali, riuscì a farsi ingaggiare, prima donna nella storia, quale corrispondente di guerra. Non aveva timore dell’ignoto, dell’assoluto.
Le sue teorie non sono nate dal bisogno di pane e lavoro, dalla mancanza di mezzi di sussistenza o delle basi necessarie per creali, sono frutto della necessità assoluta della libertà. Un lucido, semplice e leggibilissimo esercizio del libero pensiero, di derivazione liberale e borghese, di quella classe sociale, dunque, che aveva permesso di attutire il divario tra aristocratici e nullatenenti, nei cui salotti si erano sviluppate e diffuse le idee rivoluzionarie e risorgimentali.
Trovò il modo di far emergere le discrepanze, abituata alla logica ferrea di José, scrisse raccontini domenicali d’amore e passione, che potrebbero essere assimilati forse alle moderne telenovelas o fiction che dir si voglia, in cui, verghianamente, poneva l’accento in modo apparentemente innocuo sulle disparità tra uomo e donna, senza dare giudizi nella narrazione, salvo poi esplicitare le sue idee a chiare lettere negli articoli e negli scritti teorici, leggibilissimi anch’essi perché con le parole difficili non si riescono a spiegare concetti semplici eppur non ovviamente ovvi.
Scotendo il petto con la leggerezza di una risata ha avuto la capacità di coinvolgere, di prendere per mano gli scettici fino a farli arrivare a comprendere appieno la giustezza delle sue idee, con lo strumento che tuttora spaventa di più i fondamentalisti di qualunque religione, la penna e la macchina da scrivere, armi micidiali che i talebani e i terroristi di tutte le epoche hanno condannato quali minacciosissimi, specialmente se in mani femminili.
Le dittature non amano la libertà.
Le parole di Columbine erano tanto pericolose, tanto scomode da costarle l’esclusione dai libri di testo, di storia e di letteratura durante il franchismo. Poco o nulla si saprà di quei funzionari che hanno avuto lo zelo di cercare di ammutolirla, perché di loro, davvero non si avrà memoria, non si avrà traccia, orme inconsistenti sulla sabbia finissima cancellate dalla prima onda, non rocce, potenti e stabili pilastri nella lunga e non sempre gloriosa storia del libero pensiero. 
Le parole di Columbine, il suo oceano interiore di libertà sono oggi una grande ispirazione e lo saranno negli anni, forse nei secoli.
Le parole di Carmen de Burgos, che si è dovuta chiamare con tanti pseudonimi perché essere donna e giornalista e scrittrice e corrispondente di guerra non era adatto ad una esponente del gentil sesso, le sue parole, semplici, ovvie, sono il ruggire dell’oceano interiore di ognuna e ognuno di noi.
Le parole di Columbine sono io, siamo noi. 


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