lunedì 12 settembre 2016

Carmen de Burgos * Columbine in cucina

Carmen de Burgos * Columbine in cucina

Le urla vivaci del mercato cittadino dopo quelle strazianti della guerra guerreggiata, vissuta da corrispondente, prima donna nella storia del giornalismo, e quelle laceranti delle lunghe, estenuanti battaglie legali per separarsi da Arturo, la facevano stare bene. Amava rintanarsi lì, luogo dell’impermanenza ricorrente in cui tutto cambia e al contempo è senso immutabile, costante. Era qualcosa che le ricordava i momenti spensierati dell’infanzia, quando coi suoi genitori e i suoi familiari era tutto così meravigliosamente armonioso, allegro e semplice.  Sentiva la mancanza, talvolta, della leggerezza anche nelle difficoltà,  della capacità di essere sempre uniti e di andare avanti, di ridere, leggere, scoprire sempre qualcosa di nuovo; della nettezza nel pensiero e nelle azioni di suo padre e del sorriso coinvolgente di sua madre, donna di grande intelligenza e cultura. Tra loro non c’era mai una parola storta, una frase detta male, una mancanza di rispetto. Suo padre non era mai tornato a casa col profumo disgustoso di alcol e bordelli e sua madre non aveva mai avuto necessità di distrazioni, la frustrazione e il rimorso non avevano fatto parte della loro vita. E neanche della sua infanzia o della sua prima giovinezza fino a che non aveva incontrato il bruto mascherato da cicisbeo che le aveva precluso l’amore.
Nel mercato centrale di Almería, splendido esempio dell’architettura del ferro di cui la parigina Torre Eiffel è l’espressione più rinomata, sentiva che tutte le cattiverie svanivano come d’incanto, richiamate dal canto di sirena di venditori e produttori locali, e che la normalità, qualunque cosa fosse, ricominciava ad avere un senso profondo. Si sedeva in un cantuccio, cercando di rendersi invisibile respirando piano, facendo finta di niente guardava le persone che entravano, contrattavano, gestivano l’economia familiare. Donne, erano tutte donne. Sui loro volti gioie e dolori di vite molto più complicate e difficili di quelle degli uomini. Ognuna di loro tesseva le storie della propria famiglia, ognuna di loro riusciva a comporre complicatissimi arzigogoli con l’abilità e la naturalezza di una ricamatrice di tombolo. Le loro mani si muovevano leggiadre, spostandosi tra le sporte, le borsette, gli alimenti, pesavano, scrutando con sguardi veloci e vispi, intente in complessi calcoli matematici per riuscire a far quadrare i conti della propria famiglia, vivere un’esistenza dignitosa, meglio di qualcun altro, così da non sfigurare, sfoggiando ricchezza e povertà, alternandole col ritmo di un ragno che tesse il suo ricamo. Osservando senza guardare, fingendo una stanchezza o manifestando un bisogno di refrigerio, scrutava la società in cui viveva con maggiori dettagli che se si fosse messa ad origliare dal buco della serratura di una reale o immaginaria quarta parete. Le donne si occupavano di far quadrare i conti, anche se i conti non quadravano punto. In altre parole gestivano, dirigevano e determinavano l’andamento dell’economia più e meglio di quei capitalisti in marsina, ghette e cappello lucido delle satire giornalistiche.
Mentre guardava uno splendido melone che trasudava soda dolcezza le venne l’ispirazione e tutto cominciò ad avere un significato profondissimo, tutto cominciò a prendere forma. Si alzò dalla sua postazione privilegiata senza dare troppo nell’occhio anche se la voglia di correre via saltellando le si leggeva negli occhi e uscì dal mercato. Arrivò nella sua casa a meno di un chilometro che le sembrò una distanza enorme, quel giorno anche dieci metri le sarebbero risultati troppo lunghi, e cominciò a scrivere, senza fermarsi, non riusciva a smettere di creare parole. Cercò tutti i materiali che potevano servirle e poi ancora giù a scrivere. Si fermò soltanto all’ora di pranzo, per rispettare la sacralità di quel momento e capì quanto era importante il cibo nella vita di qualunque famiglia e dell’economia in generale. Cosa cercasse esattamente non lo sapeva bene, quello che voleva esprimere era però più che ovvio. Perché c’è disparità tra uomo e donna quando è la donna a gestire l’economia? Perché la donna ‘deve’ cucinare o stirare o svolgere le faccende di casa mentre l’uomo può tranquillamente esimersi da tali compiti, anzi è auspicabile che non si impicci proprio di ‘cose femminili’?
La prima cosa è mettere bene i puntini sulle ‘i’. I più grandi cuochi della storia di cui si abbia notizia sono uomini, re, nobili e personaggi illustri che hanno ritenuto “la scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, come l’ha definita Pellegrino Artusi, uomo con idee piuttosto progressiste abituato dalla consuetudine di esser nato nello Stato Pontificio ad aggirare i divieti di pensar liberamente, autore cui Carmen si riferisce in continuazione in quella che sarà la sua lunga, lunghissima prefazione ad un libro di ricette della “cucina moderna”, con un dato sorprendente. Le ricette sono tutto fuorché ‘ricette’. Non ci sono gli ingredienti, non c’è neanche una dose, non viene spiegato il procedimento se non nel modo in cui le donne si tramandano le ricette tra loro, senza svelare i segreti di pentole e pignatte, un suggerimento veloce, qualche gesto e la ricetta è bell’e spiegata. Columbine cominciò a scrivere con la gioia di aver finalmente capito in che modo parlare ad ognuna di loro, come spiegare che il femminismo non è una brutta parola, non è offensiva, né lesiva di diritti altrui, il femminismo è la battaglia per l’affermazione dei principi e dei diritti fondamentali di tutte le persone, in primis degli uomini.
Le parole di Carmen sono un fiume in piena.
Le parole di Carmen sono le urla del mercato centrale di Almería.
Le parole di Columbine sono brevi sussurri nelle orecchie delle donne spagnole.
Le parole di Columbine sono macigni scagliati contro l’ingiustizia mormorate con levità civettuola.
Le parole di Carmen de Burgos, che si è dovuta chiamare con molti pseudonimi perché donna, libera pensatrice, femminista e giornalista, scrittrice, innamorata della vita ché l’amore passionale non era scritto tra le pagine del suo fato, sono i sapori forti e delicati della cucina mediterranea.
Le parole di Columbine sono le confidenze femminili e le risate schiette nelle cucine del Sud dell’Europa.  

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