sabato 10 settembre 2016

Carmen de Burgos * Columbine s’innamora dell’uomo, sbagliato, della sua vita

Carmen de Burgos * Columbine s’innamora dell’uomo, sbagliato, della sua vita 

Il sole quel pomeriggio nel bianco deserto spagnolo aveva deciso di mettere a dura prova coloro che avessero avuto la ventura, o la sventura, di attraversarlo. Sembrava che anche la polvere fosse immobile nel caldo che stava evidentemente consigliando a chiunque di non mettere il naso fuori dalle abitazioni e di rifugiarsi nelle grotte di roccia argillosa. Il vento era un rantolo affannato tra le roche chiome degli alberi rinsecchiti dall’estate piena. La terra un piatto ammasso di polvere finissima, talmente sottile che quando entrava nei tessuti non c’era niente che fosse in grado di spazzolarla via. Níjar sembrava disabitata, non foss’altro che per il rumore stridulo delle pale del mulino a vento in ferro che creava una sinfonia con il verso disperato di corvi e rapaci troppo accaldati, pareva, per affaticarsi a cercare prede. Grilli e cicale frinivano a stento, con un ritmo rallentato, dandosi coraggio l’un con l’altro. L’acqua della fontana nel riparato cortile della tenuta de Burgos in cui il profumo dolce e pieno del gelsomino si mescolava con quello inebriante e sensuale delle zagare, zampillava lenta dando un’illusione di frescura. I gatti erano distesi sul pavimento di cotto intervallato da ceramiche in cui la mano sapiente di artigiani locali aveva saputo trasformare l’argilla tanto bianca da sembrare lunare in colorate e finemente decorate maioliche. Il loro corpo era incorporeo, si intravedeva il respiro rallentato tra i micromovimenti della pelle, le vibrisse immobili. Non lontani dalla fontana, sotto i ficus magnolideis alcuni lavoranti della fattoria cercavano il meritato riposo per recuperare le forze indispensabili al lavoro.
Da questa parte dell’Europa, nella provincia di Almería, pieno Sud della Spagna el-Andalusa, in estate i ritmi della quotidianità sono dettati dal sole, come in ogni altro luogo del mondo con una differenza. Mentre in qualunque, o quasi, altro posto del Vecchio Continente ci si sveglia con lo spuntar della nostra stella e ci si corica quando tramonta, cercando di utilizzare al meglio le ore del giorno, a Rodalquilar, municipio di Níjar, provincia di Almería, Andalusia, Regno di Spagna si smette di lavorare quando è alto e si ricomincia al calar del sole. Le due del meriggio sono dunque equiparabili alla mezzanotte e andare a bussare al grande portone sul muro di cinta imbiancato con la calce, decorato con bougainville, fichi d’india e complessi arzigogoli di ferro nero è generalmente segno di pessime notizie, tanto gravi da richiedere, appunto, l’interruzione della siesta.
Bum bum bum. Non potevano essersi sbagliati, qualcheduno aveva pesantemente fatto urtare il grande cerchio di ferro del portone centrale. Una disgrazia? Pensarono allarmati tra gli sbadigli mentre con bradipesca celerità una coraggiosa voce dall’interno si fece forza e chiese chi fosse.
Arturo Álvarez Bustos. Rispose con giuliva allegrezza un giovane, si fa per dire, di una trentina d’anni o poco meno che si era avventurato nel bianco deserto munito di un mazzo di fiori, ovviamente giunti fin lì in pessima forma nonostante le accortezze nella confezione.
Clang                      Clang               Clang             Hiiiiiiiiiiii           Sbabong    rispose il portone aprendosi grazie all’aiuto attonito di Juana, la tata i cui occhi si atteggiarono a cordialità tradendo uno smarrimento istupidito dalla sorpresa.
C’è Carmen? Voleva sapere se la piccola fosse in casa. Beh, forse tanto piccola non era più, se non di statura, s’intende era una signorina già da tempo e non c’era da stupirsi se con quegli occhi vispi, quel sorriso irruento e la libertà che emanava da tutti i pori qualche giovinotto avesse attraversato il bianco deserto el-andaluso e si trovasse con un mazzo di fiori che chiedevano a gran voce acqua e refrigerio come qualunque altro essere dotato di buon senso, chiedendosi, peraltro che cosa avessero fatto di tanto sbagliato da trovarsi nell’incresciosa situazione di dover fare bella figura dopo essere stati pressoché lessati, dunque arrostiti e impiastricciati di sottilissima polvere d’argilla.   
Juana lo fece accomodare nell’ingresso, chiedendogli, impietosita da tanto ardore, se avesse necessità di rinfrescarsi un po’ nella stanza da bagno.
Lui ringraziò rendendosi forse conto di aver attraversato il bianco deserto e di essere in condizioni impresentabili per un corteggiamento degno di questo nome.
La tata lo portò nella sala da bagno riservata agli ospiti e lo pulì, come si fa con un cagnolino o un bimbo inzaccherato. Con naturalezza lo fece accoccolare fino ad arrivare alle sue spalle alte e magre, lei più piccola ancora di quella Carmencita che aveva tenuto in grembo, senza guardarlo gli spazzolò le vesti, i baffi, i capelli. Le sue mani abituate alla fatica erano morbidi cuscinetti che lo accarezzavano incantandolo con la malia di una ninnananna esotica. Avrebbe voluto rimanere lì in eterno, un brivido gli attraversò la schiena accendendogli lo sguardo di desiderio. Lei lo girò, come un pupazzo, lui docile, mansueto, ammaliato e fremente non oppose la minima resistenza. Non poté non guardare il corpo sinuoso e giunonico della tata, posò l’azzurro dei suoi occhi sul generoso seno di lei, che indugiò un attimo per fargli annusare l’odore pieno di donna del Sud. Lo profumò, lo riportò in salotto lasciandolo in un torpore estatico e andò a chiamare Carmencita.
Carmen de Burgos si era appisolata sotto il ronzio di un ventilatore a pale, modernissimo, che il padre le aveva fatto arrivare appositamente dalle Americhe, con un libro dalla libreria dei suoi genitori tra le mani scritto da un italiano, un tal Mazzini. Accanto, una pila di classici greci e latini, sul tavolo da lavoro un tombolo, tele da ricamare lasciate lì per un corredo che ormai era ora di preparare a dovere, pennelli, colori e il Don Chisciotte aperto in modo disordinato.
Juana le accarezzò la guancia con dolcezza e la svegliò, sussurrandole all’orecchio il nome della persona che le aveva portato un bellissimo mazzo di fiori momentaneamente nell’acquaio della cucina. Carmen la guardò con una gran nostalgia negli occhi, quel giorno avrebbe segnato la fine della sua spensieratezza, intelligente com’era sempre stata lo aveva capito prima degli altri, soprattutto prima di sé stessa.
Sei contenta? Sembrava chiederle con occhi speranzosi.
Certo, pareva risponderle con lo stesso sguardo felice e triste delle Madonne col bambino nelle chiese, dove si vede che la Vergine Madre sa.
Juana le mise una mano tra le spalle, sulla spina dorsale, convinta che fosse soltanto la timidezza adolescenziale di una ragazzina come tutte le altre, anche se era stato chiaro sin da subito che Carmen non era e non sarebbe mai stata una come tutte le altre, le sistemò i capelli, la profumò, strappandola dal torpore fantastico delle letture.
Un brivido le raddrizzò la schiena e un fremito sensuale le fece inturgidire i seni straripanti giovinezza e voglia di vivere. Si recò in salotto con passo fermo di donna, seppur in giovane età.
Arturo era lì, le sottili gambe accavallate con eleganza, il collo del piede ben teso nelle scarpe morbide con le calze di seta abbinate alla cravatta, un sorriso malandrino gli increspava le labbra verso destra, il suo sguardo le arrivò attraverso le sopracciglia, brumoso, cupo e affascinante. Poco importa se aveva provato e riprovato quel movimento davanti allo specchio per poi affinarlo nei locali notturni, nei circoli mondani di Almería e con una buona parte delle sue conoscenze femminili, l’effetto era sempre garantito. Una nonchalance studiatissima e l’aria di dire non so proprio perché mi trovi qui ma, ehi, guarda chi c’è in casa sua, quale mirabile visione.
Carmen non era, non era mai stata e mai sarebbe stata come le altre ma le mosse studiate di quello che suo padre definiva con disprezzo, e forse con ragione, un bruto mascherato da cicisbeo fecero immediatamente effetto, irretendola in una spirale di sensualità densa come un frutto esotico in una giornata di caldo intenso.
Forse si sarebbe potuto disquisire sulla definizione che José de Burgos Cañizares aveva affibbiato ad Alvaro ma non sulla temperatura di quel pomeriggio, paragonare quell’uomo sottile e veloce ad un succulento frutto tropicale poteva forse richiedere uno sforzo di grande immaginazione ma quella era certamente una qualità che non fagliava a Carmen.
Difficile, d’altronde, attribuire al clima le vampate di eccitazione che stavano pian piano salendole dalle caviglie, dai malleoli fin nelle cosce, nel bacino per arrivare fino al ventre, al petto, al collo, alle labbra che si protrassero impercettibilmente verso il viso scarno e sfuggente del suo corteggiatore.
Lui le sfiorò senza toccarla, con un gesto calibrato e ambiguo, quasi per sbaglio, distrattamente, il collo, dopo aver tenuto tra le mani il bicchiere gelido di sangria, il suo respiro si affannò nell’aria ferma di fuoco lattiginoso.
Il frinire di grilli e cicale risvegliò il mulino a vento in ferro, che cominciò a vorticare come i battiti d’ali che Carmen sentiva muoversi nello stomaco.

Le parole di Carmen si fermano al limite delle sue labbra.

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