Carmen
de Burgos * Columbine s’innamora dell’uomo, sbagliato, della sua vita
Il sole quel pomeriggio nel bianco deserto
spagnolo aveva deciso di mettere a dura prova coloro che avessero avuto la
ventura, o la sventura, di attraversarlo. Sembrava che anche la polvere fosse
immobile nel caldo che stava evidentemente consigliando a chiunque di non
mettere il naso fuori dalle abitazioni e di rifugiarsi nelle grotte di roccia
argillosa. Il vento era un rantolo affannato tra le roche chiome degli alberi
rinsecchiti dall’estate piena. La terra un piatto ammasso di polvere finissima,
talmente sottile che quando entrava nei tessuti non c’era niente che fosse in
grado di spazzolarla via. Níjar sembrava disabitata, non foss’altro che per il
rumore stridulo delle pale del mulino a vento in ferro che creava una sinfonia
con il verso disperato di corvi e rapaci troppo accaldati, pareva, per
affaticarsi a cercare prede. Grilli e cicale frinivano a stento, con un ritmo
rallentato, dandosi coraggio l’un con l’altro. L’acqua della fontana nel
riparato cortile della tenuta de Burgos in cui il profumo dolce e pieno del
gelsomino si mescolava con quello inebriante e sensuale delle zagare,
zampillava lenta dando un’illusione di frescura. I gatti erano distesi sul
pavimento di cotto intervallato da ceramiche in cui la mano sapiente di
artigiani locali aveva saputo trasformare l’argilla tanto bianca da sembrare
lunare in colorate e finemente decorate maioliche. Il loro corpo era incorporeo,
si intravedeva il respiro rallentato tra i micromovimenti della pelle, le
vibrisse immobili. Non lontani dalla fontana, sotto i ficus magnolideis alcuni
lavoranti della fattoria cercavano il meritato riposo per recuperare le forze
indispensabili al lavoro.
Da questa parte dell’Europa, nella provincia di
Almería, pieno Sud della Spagna el-Andalusa, in estate i ritmi della quotidianità sono
dettati dal sole, come in ogni altro luogo del mondo con una differenza. Mentre
in qualunque, o quasi, altro posto del Vecchio Continente ci si sveglia con lo
spuntar della nostra stella e ci si corica quando tramonta, cercando di
utilizzare al meglio le ore del giorno, a Rodalquilar, municipio di Níjar,
provincia di Almería, Andalusia, Regno di Spagna si smette di lavorare quando è
alto e si ricomincia al calar del sole. Le due del meriggio sono dunque
equiparabili alla mezzanotte e andare a bussare al grande portone sul muro di
cinta imbiancato con la calce, decorato con bougainville, fichi d’india e
complessi arzigogoli di ferro nero è generalmente segno di pessime notizie,
tanto gravi da richiedere, appunto, l’interruzione della siesta.
Bum bum bum. Non potevano essersi sbagliati,
qualcheduno aveva pesantemente fatto urtare il grande cerchio di ferro del
portone centrale. Una disgrazia? Pensarono allarmati tra gli sbadigli mentre
con bradipesca celerità una coraggiosa voce dall’interno si fece forza e chiese
chi fosse.
Arturo Álvarez Bustos. Rispose con giuliva
allegrezza un giovane, si fa per dire, di una trentina d’anni o poco meno che
si era avventurato nel bianco deserto munito di un mazzo di fiori, ovviamente
giunti fin lì in pessima forma nonostante le accortezze nella confezione.
Clang Clang Clang Hiiiiiiiiiiii Sbabong rispose il portone aprendosi grazie
all’aiuto attonito di Juana, la tata i cui occhi si atteggiarono a cordialità
tradendo uno smarrimento istupidito dalla sorpresa.
C’è Carmen? Voleva sapere se la piccola fosse
in casa. Beh, forse tanto piccola non era più, se non di statura, s’intende era
una signorina già da tempo e non c’era da stupirsi se con quegli occhi vispi,
quel sorriso irruento e la libertà che emanava da tutti i pori qualche
giovinotto avesse attraversato il bianco deserto el-andaluso e si trovasse con
un mazzo di fiori che chiedevano a gran voce acqua e refrigerio come qualunque
altro essere dotato di buon senso, chiedendosi, peraltro che cosa avessero
fatto di tanto sbagliato da trovarsi nell’incresciosa situazione di dover fare
bella figura dopo essere stati pressoché lessati, dunque arrostiti e
impiastricciati di sottilissima polvere d’argilla.
Juana lo fece accomodare nell’ingresso,
chiedendogli, impietosita da tanto ardore, se avesse necessità di rinfrescarsi
un po’ nella stanza da bagno.
Lui ringraziò rendendosi forse conto di aver
attraversato il bianco deserto e di essere in condizioni impresentabili per un
corteggiamento degno di questo nome.
La tata lo portò nella sala da bagno riservata
agli ospiti e lo pulì, come si fa con un cagnolino o un bimbo inzaccherato. Con
naturalezza lo fece accoccolare fino ad arrivare alle sue spalle alte e magre,
lei più piccola ancora di quella Carmencita che aveva tenuto in grembo, senza
guardarlo gli spazzolò le vesti, i baffi, i capelli. Le sue mani abituate alla
fatica erano morbidi cuscinetti che lo accarezzavano incantandolo con la malia
di una ninnananna esotica. Avrebbe voluto rimanere lì in eterno, un brivido gli
attraversò la schiena accendendogli lo sguardo di desiderio. Lei lo girò, come
un pupazzo, lui docile, mansueto, ammaliato e fremente non oppose la minima
resistenza. Non poté non guardare il corpo sinuoso e giunonico della tata, posò
l’azzurro dei suoi occhi sul generoso seno di lei, che indugiò un attimo per
fargli annusare l’odore pieno di donna del Sud. Lo profumò, lo riportò in
salotto lasciandolo in un torpore estatico e andò a chiamare Carmencita.
Carmen de Burgos si era appisolata sotto il
ronzio di un ventilatore a pale, modernissimo, che il padre le aveva fatto
arrivare appositamente dalle Americhe, con un libro dalla libreria dei suoi
genitori tra le mani scritto da un italiano, un tal Mazzini. Accanto, una pila
di classici greci e latini, sul tavolo da lavoro un tombolo, tele da ricamare
lasciate lì per un corredo che ormai era ora di preparare a dovere, pennelli,
colori e il Don Chisciotte aperto in modo disordinato.
Juana le accarezzò la guancia con dolcezza e la
svegliò, sussurrandole all’orecchio il nome della persona che le aveva portato
un bellissimo mazzo di fiori momentaneamente nell’acquaio della cucina. Carmen
la guardò con una gran nostalgia negli occhi, quel giorno avrebbe segnato la
fine della sua spensieratezza, intelligente com’era sempre stata lo aveva
capito prima degli altri, soprattutto prima di sé stessa.
Sei contenta? Sembrava chiederle con occhi
speranzosi.
Certo, pareva risponderle con lo stesso sguardo
felice e triste delle Madonne col bambino nelle chiese, dove si vede che la
Vergine Madre sa.
Juana le mise una mano tra le spalle, sulla
spina dorsale, convinta che fosse soltanto la timidezza adolescenziale di una
ragazzina come tutte le altre, anche se era stato chiaro sin da subito che
Carmen non era e non sarebbe mai stata una come tutte le altre, le sistemò i
capelli, la profumò, strappandola dal torpore fantastico delle letture.
Un brivido le raddrizzò la schiena e un fremito
sensuale le fece inturgidire i seni straripanti giovinezza e voglia di vivere.
Si recò in salotto con passo fermo di donna, seppur in giovane età.
Arturo era lì, le sottili gambe accavallate con
eleganza, il collo del piede ben teso nelle scarpe morbide con le calze di seta
abbinate alla cravatta, un sorriso malandrino gli increspava le labbra verso
destra, il suo sguardo le arrivò attraverso le sopracciglia, brumoso, cupo e
affascinante. Poco importa se aveva provato e riprovato quel movimento davanti
allo specchio per poi affinarlo nei locali notturni, nei circoli mondani di
Almería e con una buona parte delle sue conoscenze femminili, l’effetto era
sempre garantito. Una nonchalance studiatissima e l’aria di dire non so proprio
perché mi trovi qui ma, ehi, guarda chi c’è in casa sua, quale mirabile
visione.
Carmen non era, non era mai stata e mai sarebbe
stata come le altre ma le mosse studiate di quello che suo padre definiva con
disprezzo, e forse con ragione, un bruto mascherato da cicisbeo fecero
immediatamente effetto, irretendola in una spirale di sensualità densa come un
frutto esotico in una giornata di caldo intenso.
Forse si sarebbe potuto disquisire sulla
definizione che José de Burgos Cañizares aveva affibbiato ad Alvaro ma non
sulla temperatura di quel pomeriggio, paragonare quell’uomo sottile e veloce ad
un succulento frutto tropicale poteva forse richiedere uno sforzo di grande
immaginazione ma quella era certamente una qualità che non fagliava a Carmen.
Difficile, d’altronde, attribuire al clima le
vampate di eccitazione che stavano pian piano salendole dalle caviglie, dai
malleoli fin nelle cosce, nel bacino per arrivare fino al ventre, al petto, al
collo, alle labbra che si protrassero impercettibilmente verso il viso scarno e
sfuggente del suo corteggiatore.
Lui le sfiorò senza toccarla, con un gesto
calibrato e ambiguo, quasi per sbaglio, distrattamente, il collo, dopo aver
tenuto tra le mani il bicchiere gelido di sangria, il suo respiro si affannò
nell’aria ferma di fuoco lattiginoso.
Il frinire di grilli e cicale risvegliò il
mulino a vento in ferro, che cominciò a vorticare come i battiti d’ali che
Carmen sentiva muoversi nello stomaco.
Le parole di Carmen si fermano al limite delle
sue labbra.
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