Carmen
de Burgos * Columbine, una donna
Carmen de Burgos ha dovuto utilizzare
pseudonimi perché scrittrice, femminista, corrispondente di guerra, giornalista,
scrittrice e soprattutto donna.
Le sue tracce intellettuali sono state
cancellate nei libri perché non c’è niente che spaventi di più i terroristi di
qualunque regime di una donna o una bambina con le armi più micidiali che
esistono, la conoscenza, la cultura e la gioia di vivere.
In qualunque angolo del Pianeta, in
qualsivoglia epoca il terrore repressivo ha sempre avuto la stessa modalità di
azione, isolare la fantasia e la libertà.
La repressione non ha molta fantasia, non ce
l’ha mai avuta neanche nell’invenzione degli strumenti di tortura più
sofisticati, si fa per dire, e chi opprime spesso non si accorge, non si rende
conto che tutte le energie sprecate nell’inutile tentativo di imbrigliare la
libertà sono le frecce avvelenate che trafiggono i momenti che è dato vivere
agli oppressori e niente più.
Opprimere, reprimere, vuol dire in primis
uccidere sé stessi ché la libertà è come il primo amore, non si scorda mai.
Le idee sono resilienti, trovano sempre il modo
di germogliare, piante sempreverdi di resistenza, espressione pura e semplice
di vita e di gioia.
José de Burgos Cañizares sapeva che chi ha
l’oceano nello sguardo non si lascia imbrigliare perché l’oceano non si può
fermare, è eternamente in movimento, onda assoluta e cielo degli abissi, antro
di Atlantide e meraviglia del tutto, lì si trovano le montagne più alte, che
neanche l’immaginazione riesce veramente a sondare.
Dai genitori Carmen aveva imparato l’amore, il
rispetto e la libertà, anche se quella ce l’aveva proprio dentro, il desiderio
di vivere, lo sguardo felice espressione femminea del Duende era la più vera
dimostrazione della bellezza e della meraviglia della vita.
Non le riuscì subito di amare, aveva desiderio
di mordere quella passione, di ardere nelle sue spire prima del tempo e si bruciò,
non irreparabilmente tanto che quando sentì il vero fuoco accanto a lei seppe
sciogliere la corazza di ghiaccio dietro cui aveva trincerato i suoi
sentimenti.
Ma la vita! Ah se la amava! Avrebbe voluto
danzare con essa in un dionisiaco vortice di balli sfrenati, magari dopo un
bicchiere di buon vino e un pasto degno d’esser mangiato, avrebbe voluto
conoscerla in tutte le sue più sottili sfumature. Non sopportava la falsità. La
verità, nei rapporti umani così come nel pensiero, era un pilastro fondamentale
della sua esistenza e delle sue convinzioni e lavare via con un colpo di
ventaglio, che soltanto una donna nata e cresciuta nel bianco deserto del Sud
della Spagna sa assestare a puntino, tutto ciò che è orpello inutile di
imbecille falsità era una sua sistematica abitudine. Immaginava la nuova
società vibrante di verità, di amore e di vita.
Questi suoi pensieri l’avvicinarono a tutto ciò
che poteva essere un veicolo per rendere concreta la possibilità di costruire
quel nuovo mondo in cui il progresso non fosse soltanto tecnico bensì sociale,
di uguaglianza e di umanità. Aveva capito che in Europa stava accadendo
qualcosa di importante e voleva essere protagonista del cambiamento, cavalcare
l’onda di portata oceanica che stava, appunto, travolgendo Vecchio e Nuovo
Continente. Se i ‘potenti’ della Terra in marsina e cappello lucido avessero
dato un po’ più ascolto alle voci sommesse o gridate delle donne, delle
femministe, forse non ci sarebbe stato il disastro della crisi, che Keynes e
Roosevelt risolsero attraverso quello che le suffragette chiedevano da tempo, l’inclusione,
peccato che anche quella volta fu un’occasione sprecata e le donne non vennero
considerate motore di cambiamento e possibili acquirenti di prodotti. Non si
comprese che le donne con parità di diritti avrebbero potuto accedere a quei
beni e a quei servizi che avrebbero potuto essere il reattore propulsore della
nuova economia.
Si comprese che affamare il popolo era stupido
e non si capì che escludere le donne era fallimentare.
O almeno, non lo compresero gli uomini in
marsina, ghette e cappello lucido.
Carmen lo intuì benissimo, tanto che trovò il
modo di costituire vere e proprie trame di rapporti sociali e, tra un impegno e
l’altro, di intrecciare meravigliose amicizie con gente straordinaria. Creò una
fittissima rete di persone, liberali, tra cui molte donne che ebbe modo di
conoscere svolgendo una delle sue molteplici funzioni oppure tramite la Libera
Muratoria.
L’amicizia più importante che costruì tramite
la Loggia dell’Amore fu con Ana de Castro Osório, scrittrice proveniente da quel
Portogallo di cui suo padre era stato viceconsole nella sua amatissima Almería,
anche lei adepta del Grande Architetto del Mondo.
La Massoneria era stata rifugio e spazio
di libertà per loro, attraverso di essa erano riuscite ad entrare in contatto
con i pensatori più illuminati, con i pensieri più progressisti e all’avanguardia,
seppur di sovente opposti a quelli espressi dalle avanguardie cosiddette ‘storiche’,
quei movimenti di rottura che avevano gridato la propaganda del progresso e l’importanza
del design, del movimento meccanico, della tecnica quale elemento di socialità
primaria.
Addio al vecchiume, strillavano nelle deperiane
lettere cubitali, eppure erano forse ai suoi occhi l’espressione più retriva di
quel vecchiume, il tradimento stesso dell’idea di progresso che sbandieravano
cercando di relegare la donna, foriera di cambiamento, ad un ruolo ancor
più marginale, tentando di distruggere le spinte progressiste incarnate dal
femminismo in nome del progresso e della modernità. Quanta falsità leggeva in
quelle parole, quanta incomprensione profonda della realtà sentiva nelle grida
assordanti dei rumoristi disturbatori che mai s’erano accoccolati senza farsi
notare in un cantuccio per scrutare la realtà e carpirne la più essenziale
meraviglia!
Quale forza intuiva invece nel sussurro gentile
delle parole di Ana, nelle fiabe e nei racconti per bambini che con infinita immaginazione
creava con le mani abili, capaci di sfiorare il magico multiverso di sensi dell’infanzia
entrandovi con la levità di una farfalla o di un’ape carica del suo bottino di
fantasie.
L’amicizia tra le due si basò su una
comprensione fatta di sguardi, ammiccatine e gesti tanto impercettibili
da risultare invisibili. Non vi fu niente di strano nell’incontro tra due
immaginazioni opposte eppure così simili tra loro, erano due matrone, due donne
con un carattere impossibile da tenere a bada, sembravano quasi sorelle, e lo
erano nello spirito della fratellanza mazziniana e massonica.
L’aveva alfine visto l’oceano e, pur non
sapendolo, ché suo padre mai le confessò questo suo pensiero, aveva finalmente
capito cosa fosse quella fiamma che sentiva divamparle in petto. Pensava fosse
l’arida calura della provincia di Almería o il desolante paesaggio della
Mancha, dove si era rifugiata con la figlia, e capì che tante persone erano
come lei, salgariani corsari che non riuscivano più a mettere i piedi a terra
senza sentir nostalgia di Mompracem, tigrotti o Leopardi che vedevano l’infinito
oltre la siepe, marinai del pensiero e della fantasia.
Il rapporto con la figlia, con cui era scappata
da Arturo, violento e alcolizzato, verso Guadalajara, nella regione di Don
Chisciotte, è di una tenerezza infinita e anche di grandissima frustrazione,
avrebbe voluto, le sarebbe piaciuto circondarla di tutte le attenzioni e di
tutta la serenità di cui lei aveva potuto godere in tenera età ma riuscì
soltanto a difenderla con le unghie e con i denti dal bruto mascherato da
cicisbeo.
Ci riuscì insegnando e scrivendo, trovando il
modo di mantenersi grazie alla scrittura, a quello stillicidio di sentimenti
che le lettere mettono in luce.
Le sue amiche più fedeli, che mai la tradirono,
furono le parole.
Le parole di Columbine esprimono la leggerezza
dell’essere.
Le parole di Columbine sono onde di meraviglia
negli oceani interiori di chi ama la libertà.
Le parole di Carmen sono io, siamo noi.
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