mercoledì 21 settembre 2016

Solstizio

SOLSTIZIO

«O frate - disse -, questi ch'io ti cerno
col dito - e additò un spirto innanzi -
fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi.»
                                      Dante Alighieri[1]


Tuoni, fulmini, saette e raffiche di pioggia che si riversava in ondate orizzontali su prati, alberi e coltivazioni avevano caratterizzato l’inizio di quell’estate in cui tutto sembrava complottare contro la riuscita della festa popolare e di quella tradizionalmente tenuta nel castello geograficamente non troppo lontano dal borgo e dal bosco eppure così distante da tutto ciò che accadeva nella valle abbracciata dalle montagne. Azalais e Brizeida erano un po’ preoccupate, sapevano che la Sibilla gradiva ricevere il cestino carico di prelibatezze e utensili in occasione di particolari ricorrenze astronomiche, quali appunto il solstizio, ma avventurarsi nel bosco era semplicemente impossibile. Oltre al pericolo di essere colpiti da un fulmine c’era il rischio di non riuscire a ritrovare la via di casa e sicuramente chiunque, ma soprattutto il prete e la perpetua, si sarebbero accorti della loro assenza e questa era un’eventualità da escludere nel modo più categorico. Il problema era che, senza il favore della Sibilla, della Fata Bianca e della Fata del Lago, seminare la segale per il raccolto invernale sarebbe stato a dir poco imprudente. Come se non fossero bastate le preoccupazioni che già avevano, giunse, nel bel mezzo del temporale estivo, una carovana di gitani con facce ece abbigliamento che non s’erano mai vedute in tutta la valle. Avevano i volti intirizziti dal vento e dall’acqua, i vestiti zuppi e strani calzari grondanti terra. Parlavano una lingua antica, gutturale, di cui ben poco si comprendeva. Venne chiesto l’aiuto di Mirabai, forse una qualche reminiscenza lontana avrebbe potuto in qualche modo aiutarla a comprendere ciò che dicevano, ma niente. Il saggio del villaggio temette che sarebbe stato necessario avvisare il parroco e chissà che avrebbe detto e quante storie avrebbe fatto. Non era il caso. Stettero in silenzio fino all’arrivo di Calduc, donna di poche e ponderate parole ma dalle grandi e apprezzatissime abilità culinarie. Appena entrò nell’abitazione piccola ma decorosa, strizzò gli occhi come per ripararsi da una luce o per meglio leggere mimute lettere, salutò e si lanciò in una conversazione lunghissima con quegli insoliti gitani, tanto più insoliti in quanto non erano affatto gitani. Si guardarono e continuarono a parlare senza sosta, destando ovviamente lo stupore di chi conosceva il burbero carattere della donna, mangiarono con generosità, bevvero con allegria e risero felici producendo strani versi. Quando ebbero finito il cielo si era rischiarato, l’estate sembrava aver finalmente capito che era ora di fare capolino e Azalais e Brizeida cominciarono a prepararsi per portare alla Sibilla il cestino con ciò che le avrebbe fatto piacere ricevere. Calduc prese il cestino, le guardò negli occhi spiegando senza parole che quella volta sarebbe andata lei nel bosco, accompagnata da quegli strani gitani. Brizeida e Azalais, abituate a non contraddire troppo la cuoca con il carattere a dir poco irascibile, capirono che questa volta non avrebbero potuto, neanche accampando le più ragionevoli ragioni, andare contro la sua volontà e forse preferivano così, c’era qualcosa di inquietante e familiare al contempo in quell’insolita compagnia. Il saggio del villaggio annuì e chiese a Calduc l’onore di accompagnarli, ella acconsentì con sguardo di dolce rimprovero. Si allontanarono appena la frenesia nel borgo fu sufficientemente caotica. Appena giunsero, come il saggio del villaggio aveva intuito, i gitani si tolsero gli abiti che li rendevano tanto goffi e i calzari che celavano zoccoli resistenti: quale meraviglia quando, tolti i cappelli, emersero palchi di splendide corna o orecchie a punta e lunghe zanne. Gli abitanti del bosco avevano chiesto, per una volta, ospitalità a quelli del borgo e per non spaventarli avevano nascosto le loro vere sembianze in abiti gitani. Calduc guardò attentamente la reazione del saggio del villaggio, il quale era sì meravigliato ma non impaurito, quindi cominciò a spogliarsi lentamente e mostrò la sua vera natura. Brizeida e Azaleis non avrebbero dovuto sapere che era per suo tramite che loro potevano comunicare con la Sibilla e mai ne ebbero neanche il minimo sentore. Il saggio del villaggio si lasciò guidare verso una foresta di conoscenza di cui non immaginava neanche l’esistenza, respirò a lungo e per scacciare i cattivi pensieri o per esprimere la profonda meraviglia, cominciò a cantare producendo suoni gutturali e una scala armonica di sonorità flautate, come un concerto di campanellini. Gli abitanti del bosco e Calduc assecondarono il canto e suonarono con splendidi strumenti fiabeschi intarsiati con gli utensili forgiati da Daude, il maniscalco. Danzando, suonando e cantando arrivarono fino ad una radura indicata dall’arcobaleno dove gli animali stavano ballando in modo incantevole. Si fermarono soltanto quando arrivò Cernunnos, di cui il saggio del villaggio aveva soltanto sentito parlare, tanto tempo prima, ma gli avevano detto che l’uomo cervo era soltanto una diceria pagana, un culto demoniaco o qualcosa del genere. Lui aveva sempre dato poco credito a demoni e diavoli ma la presenza in carne, ossa e corna di Cernunnos lo aveva davvero impressionato. Gli abitanti del bosco intonarono i canti armonici che il saggio del villaggio aveva accennato e cominciarono a danzare in cerchio, poi in una specie di spirale, seguendo  i simboli rituali incisi su qualche pietra che a volte si svelava qui e là.  Ballarono senza fermarsi per un tempo che sembrò infinito, esplorarono luoghi e spazi che ancor oggi gli scienziati avrebbero difficoltà a definire, tutto fu comprensibile in quell’istante perenne, tutto fu limpido e il saggio del villaggio, quando si svegliò nel suo giaciglio senza sapere bene dove si trovasse, non domandò niente ma da quel giorno pose nel cestino di Azalais e Brizeida un pane di segale fatto con le sue mani con sopra un simbolo di quelle danze, ricordo di un arcobaleno di cui non seppe e mai volle sapere se fosse stato immaginario o reale.




[1] Dante Alighieri, Purgatorio XXVI, 115-120

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