SOLSTIZIO
«O frate - disse -, questi ch'io ti
cerno
col dito - e additò un spirto innanzi -
fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e prose di romanzi
soverchiò tutti: e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi.»
Dante
Alighieri[1]
Tuoni, fulmini, saette e raffiche di
pioggia che si riversava in ondate orizzontali su prati, alberi e coltivazioni
avevano caratterizzato l’inizio di quell’estate in cui tutto sembrava
complottare contro la riuscita della festa popolare e di quella
tradizionalmente tenuta nel castello geograficamente non troppo lontano dal
borgo e dal bosco eppure così distante da tutto ciò che accadeva nella valle
abbracciata dalle montagne. Azalais e Brizeida erano un po’ preoccupate,
sapevano che la Sibilla gradiva ricevere il cestino carico di prelibatezze e
utensili in occasione di particolari ricorrenze astronomiche, quali appunto il
solstizio, ma avventurarsi nel bosco era semplicemente impossibile. Oltre al
pericolo di essere colpiti da un fulmine c’era il rischio di non riuscire a
ritrovare la via di casa e sicuramente chiunque, ma soprattutto il prete e la
perpetua, si sarebbero accorti della loro assenza e questa era un’eventualità
da escludere nel modo più categorico. Il problema era che, senza il favore
della Sibilla, della Fata Bianca e della Fata del Lago, seminare la segale per
il raccolto invernale sarebbe stato a dir poco imprudente. Come se non fossero
bastate le preoccupazioni che già avevano, giunse, nel bel mezzo del temporale
estivo, una carovana di gitani con facce ece abbigliamento che non s’erano
mai vedute in tutta la valle. Avevano i volti intirizziti dal vento e dall’acqua,
i vestiti zuppi e strani calzari grondanti terra. Parlavano una lingua antica,
gutturale, di cui ben poco si comprendeva. Venne chiesto l’aiuto di Mirabai,
forse una qualche reminiscenza lontana avrebbe potuto in qualche modo aiutarla
a comprendere ciò che dicevano, ma niente. Il saggio del villaggio temette che
sarebbe stato necessario avvisare il parroco e chissà che avrebbe detto e
quante storie avrebbe fatto. Non era il caso. Stettero in silenzio fino all’arrivo
di Calduc, donna di poche e ponderate parole ma dalle grandi e apprezzatissime abilità
culinarie. Appena entrò nell’abitazione piccola ma decorosa, strizzò gli occhi
come per ripararsi da una luce o per meglio leggere mimute lettere, salutò e si lanciò in una conversazione lunghissima con quegli insoliti
gitani, tanto più insoliti in quanto non erano affatto gitani. Si guardarono e
continuarono a parlare senza sosta, destando ovviamente lo stupore di chi
conosceva il burbero carattere della donna, mangiarono con generosità, bevvero
con allegria e risero felici producendo strani versi. Quando ebbero finito il
cielo si era rischiarato, l’estate sembrava aver finalmente capito
che era ora di fare capolino e Azalais e Brizeida cominciarono a prepararsi per
portare alla Sibilla il cestino con ciò che le avrebbe fatto piacere ricevere. Calduc
prese il cestino, le guardò negli occhi spiegando senza parole che quella volta
sarebbe andata lei nel bosco, accompagnata da quegli strani gitani. Brizeida e
Azalais, abituate a non contraddire troppo la cuoca con il carattere a dir poco
irascibile, capirono che questa volta non avrebbero potuto, neanche accampando
le più ragionevoli ragioni, andare contro la sua volontà e forse preferivano
così, c’era qualcosa di inquietante e familiare al contempo in quell’insolita
compagnia. Il saggio del villaggio annuì e chiese a Calduc l’onore di
accompagnarli, ella acconsentì con sguardo di dolce rimprovero. Si allontanarono
appena la frenesia nel borgo fu sufficientemente caotica. Appena giunsero, come
il saggio del villaggio aveva intuito, i gitani si tolsero gli abiti che li
rendevano tanto goffi e i calzari che celavano zoccoli resistenti: quale
meraviglia quando, tolti i cappelli, emersero palchi di splendide corna o
orecchie a punta e lunghe zanne. Gli abitanti del bosco avevano chiesto, per
una volta, ospitalità a quelli del borgo e per non spaventarli avevano nascosto
le loro vere sembianze in abiti gitani. Calduc guardò attentamente la reazione
del saggio del villaggio, il quale era sì meravigliato ma non impaurito, quindi
cominciò a spogliarsi lentamente e mostrò la sua vera natura. Brizeida e
Azaleis non avrebbero dovuto sapere che era per suo tramite che loro potevano
comunicare con la Sibilla e mai ne ebbero neanche il minimo sentore. Il saggio
del villaggio si lasciò guidare verso una foresta di conoscenza di cui non
immaginava neanche l’esistenza, respirò a lungo e per scacciare i cattivi
pensieri o per esprimere la profonda meraviglia, cominciò a cantare producendo
suoni gutturali e una scala armonica di sonorità flautate, come un concerto di
campanellini. Gli abitanti del bosco e Calduc assecondarono il canto e
suonarono con splendidi strumenti fiabeschi intarsiati con gli utensili forgiati da Daude, il maniscalco. Danzando, suonando e cantando arrivarono fino
ad una radura indicata dall’arcobaleno dove gli animali stavano ballando in modo incantevole. Si fermarono soltanto quando arrivò Cernunnos, di
cui il saggio del villaggio aveva soltanto sentito parlare, tanto tempo prima,
ma gli avevano detto che l’uomo cervo era soltanto una diceria pagana, un culto
demoniaco o qualcosa del genere. Lui aveva sempre dato poco credito a
demoni e diavoli ma la presenza in carne, ossa e corna di Cernunnos lo aveva
davvero impressionato. Gli abitanti del bosco intonarono i canti armonici che il
saggio del villaggio aveva accennato e cominciarono a danzare in cerchio, poi in
una specie di spirale, seguendo i simboli rituali incisi su qualche
pietra che a volte si svelava qui e là. Ballarono
senza fermarsi per un tempo che sembrò infinito, esplorarono luoghi e spazi che
ancor oggi gli scienziati avrebbero difficoltà a definire, tutto fu
comprensibile in quell’istante perenne, tutto fu limpido e il saggio del
villaggio, quando si svegliò nel suo giaciglio senza sapere bene dove si
trovasse, non domandò niente ma da quel giorno pose nel cestino di Azalais e
Brizeida un pane di segale fatto con le sue mani con sopra un simbolo di quelle
danze, ricordo di un arcobaleno di cui non seppe e mai volle sapere se fosse
stato immaginario o reale.
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