PERIELIO Il cavaliere misterioso
«Ar em al freg temps vengut
quel gels el neus e la fainga
el aucellet estan mut,
c'us de chanter non s'afrainga
e son sec li ram pels plais
que flors ni folha no-i nais
ni rossinhols no-i crida
que am s'en mai me reissida»
«Siamo ai giorni freddi venuti
con neve e ghiaccio e fanga
e fermi gli uccellini e muti:
nessuno a cantar si rinfranca.
E gli alberi e i rami spogli
sono senza fiori e foglie
né l'usignuolo amato grida
quando al maggio mi risveglia»
Azalaïs
de Porcairagues
Il pettirosso spiccava nel bosco gelato
dalla Fata del Freddo come un fiore scarlatto cresciuto nell’albula nebbia dei
poli. Gli alberi erano sculture scintillanti di brina e neve, le strade
che portano al villaggio interamente ricoperte da un manto di freschissimi e
soffici fiocchi di acqua cristallizzata sul quale non c’erano neanche le orme
di lepri e passeretti. Le foglie della quercia, l’ultimo albero a
togliersi le vesti per potersi accertare del risveglio primaverile, sembravano
decorazioni scolpite nel diamante da mano invisibile ed incredibilmente
talentuosa. Il silenzio era accompagnato dal freddo notturno, la giornata
cominciava a costruire i suoni della quotidianità e la luce dell’alba prismatiche
meraviglie. Una finestra si aprì nell’inverno pieno di gennaio mentre il
crepitio del fuoco scaldava un comignolo aggiungendo una nuvoletta all’aria
limpida del mattino nella valle abbracciata dalle montagne. Il ciaf ciaf
improvviso degli zoccoli in quel silenzio ovattato sembrò irreale agli abitanti
del borgo e a quelli del bosco. Come avesse fatto una persona a ritrovar la via
quando non si vedeva neanche l’ombra di un acciottolato fu il primo tra i tanti
misteri che accompagnarono l’arrivo del cavaliere, celato da algido mantello,
che montava un destriero immacolato nascondendo il proprio volto dietro una
maschera anch’essa bianca, su cui spiccavano due baffetti neri sottili e un
pizzetto sottilissimo sotto sopracciglia ad ali di gabbiano perfettamente
disegnate, pareva col carbone o con quelle strane tinture per viso che usano
gl’Infedeli in Terra d’Arabia. Il cavaliere viaggiava solitario, non v’era un
servitore o una compagnia, non c’era uno stendardo o una bandiera, un segno di
riconoscimento, niente. Con passo cadenzato e ritmico cavalcava verso il borgo,
senza fretta e senza indugio. Non bastò neanche il tempo di preparare una tazza
di latte caldo che le finestre si spalancarono quali occhi curiosi di un unico
organismo che pareva chiedersi se non fosse il Mago del Lago giunto fino al
villaggio per qualche occorrenza eccezionale. Le nuvolette di fumo uscirono
pettegole dai comignoli creando una movimentata serie di linee e volute, i
gatti si stiracchiarono velocemente fingendo noncuranza per acciambellarsi
sornioni e attenti. Gli zoccoli non lasciavano tracce, sembrava che cavallo e
cavaliere planassero sulla superficie terrestre in un nulla soffice e
nevoso. Forse furono proprio i rigagnoli del legno arso a mettere in allerta
gli abitanti perché, in effetti, il rumore degli zoccoli del bianco destriero
non si distingueva quasi dal silenzio prodotto da un fiocco di neve
nell’impatto col suolo. Quando giunseigiunse, il villaggio si schiuse e si richiuse accogliendolo e fagocitandolo al proprio interno con l’eleganza e la
celerità di un Tyto alba alba, o barbagianni che dir si voglia, intento nelle
ricognizioni notturne.
Quale meraviglia quando dall’elmo spuntò la splendida chioma perfettamente agghindata della dama del castello. Lei si
tolse la maschera e affidò ai paesani il pesante compito della verità di una
donna innamorata che era fuggita dal letto nuziale per andare incontro al suo
unico vero amore mentre il marito era in battaglia. Se fosse tornata al
castello sarebbe scoppiato uno scandalo e lei aveva pensato di fidarsi di
quelle persone che tante volte le avevano dimostrato affetto e lealtà. Il paese
si raccolse intorno a lei e una donna la prese per mano conducendola verso il
calduccio della sua povera ma dignitosissima abitazione. Le sue dita erano
sporche di lavoro e indurite dalla fatica, non lasciarono macchie sulla pelle
diafana e intirizzita dal freddo della coraggiosa dama infervorata dal più puro
e nobile sentimento. Il saggio radunò tutta la popolazione facendo una gran
fatica a non sbirciare e a tenere a freno la curiosità di grandi e piccini. La questione
era importante e molto delicata e richiedeva la più assoluta collaborazione da
parte di ciascuno. Un problema non da poco era ovviamente tenere il tutto
nascosto a prete e perpetua prima di aver preso la giusta decisione. Il più
piccolo di tutti quanti si aggrappò alle mani delle due persone che aveva
accanto, d’improvviso tutti si presero per mano formando un cerchio e il
saggio ebbe l’illuminazione di andare a raccogliere quanta più legna era
possibile per creare un gran falò al centro del cerchio. In men che non si dica
fu creata una grande pira che si accese con una luce fortissima e un
inconfondibile profumo di resina, tutti quanti si disposero in cerchio salmodiando una litania in una lingua arcaica quasi scomparsa dalla loro memoria che narrava di amor cortese e di un inverno infinito. Un passo laterale, il piede si riunisce all’altro,
un passo incrociato, il piede si riunisce, un passo indietro, il piede si
riunisce e poi di seguito. La dama del castello non capì subito perché la sua
gentile ospite le avesse asciugato in tutta fretta le lacrime dal viso felice e
disperato al contempo né riusciva a comprendere per quale motivo avrebbe dovuto
uscire e affrontare tutto ciò che le avrebbe gettato sul nome e sull’onore l’infame
sigillo del ripudio. Gli occhi della donna erano dolci, calmi, fiduciosi e lei
non poté far altro che seguirla mentre si rassettava le vesti e decorava i suoi
capelli con un ramo di bacche rosse. Non si ribellò quand’ella pose sulla sua
testa una coroncina di nastri e agrifoglio cui erano state tolte le spine per
non offendere, né quando la prese per mano e la portò fuori dalla sua dimora. Appena all’esterno sollevò i lembi del mantello con
la solennità riservata ad un re o ad un imperatore, il cerchio danzante si aprì
per farla passare e la più povera donzella non maritata le si avvicinò con
coraggio e umiltà, profondendosi nell’inchino più elegante che potesse
immaginare. La dama del castello capì, si inchinò a sua volta e iniziò a
ballare con lei, la prese tra le braccia e la fece volteggiare all’interno del
cerchio danzante. La giovane si lasciò guidare, quindi le due si lanciarono in
un ballo furioso, ardendo come fossero state espressione stessa del fuoco che
riscaldava i volti e i corpi della gente del borgo. Chiunque avrebbe potuto
giurare che a quella danza si fosse unita anche la popolazione del bosco ma
tale e tanta era la concitazione che non vi fu altro se non la gioia di quell’istante
presente in cui la dama del castello e la più povera donzella non maritata
difesero la propria libertà sugellando un patto di rispetto. Trascorsero due
notti e tre giorni in balli scatenati, si cucinò in un grande paiolo e da quel giorno
la più povera ragazza nubile del borgo divenne la compagna inseparabile
della dama del castello. Le danze e l’idromele scaldarono via il freddo dai
cuori e dai corpi, la zuppa calda li nutrì, nessuno avrebbe potuto giurare
quando arrivò la castellana, l’unica certezza fu che quella festa
divenne tradizione, così come l’usanza per cui ogni lustro la più povera fanciulla del borgo accompagna la dama nel castello, dove riceve un’educazione
e la possibilità di un futuro dignitoso.
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