sabato 17 settembre 2016

Inverno. La danza di Challant

La danza di Challant 
INVERNO

La cosa più bella dell’inverno è mettersi intorno al fuoco a raccontare storie mentre si svolgono tutte quelle attività che durante il giorno o nella bella stagione non s’ha il tempo di fare. È un momento del ricordo e della narrazione, attimi in cui tutto è più vero del vero, i racconti della montagna e delle valli si mischiano con le storie più bizzarre e le più inverosimili fiabe prendono forma nella brace ardente.
Fuori è tutto bianco e nero, con la volta celeste imperlata di stelle, i raggi della luna ad illuminare i fiocchi di neve cristallizzati sugli alberi di cui si scorgono a malapena i tronchi e i rami.
Le montagne, pericoloso rifugio spesso infestato da briganti o da belve selvatiche ma soprattutto abitato dalla popolazione del bosco e dai popoli montani, sono maestose e dense.
Dentro si sta ben riparati dalle intemperie, al calduccio di un focolare intorno al quale fervono le attività più varie, c’è chi crea o sistema i cesti, chi intarsia le grolle di legno, chi aggiusta o modifica gli attrezzi agricoli, chi ricama e rammenda vestiti, chi intreccia fiori per le ghirlande natalizie. Sul fuoco un gran pentolone, di quelli buoni, col fondo che non si spacca mai, nel caso si ripara, si aggiusta, altrimenti sai che disastro!, da cui emanano profumi delicati, l’aroma delle castagne, il pane dei poveri, si unisce alle suggestioni floreali e balsamiche dell’estate. Le erbe raccolte dopo la Pentecoste, messe ad essiccare per insaporire zuppe e pasti che scacciano via il freddo dal naso e dai bronchi.
Qualche topolino cerca riparo negli anfratti e si avvicina lesto quando i gatti sono troppo intenti a godersi la compagnia facendo le fusa acciambellati sul ventre comodo di chi non ha paura del potere magico che taluni attribuiscono loro, ronfando fino a divenire parte integrante di quella musica sommessa che si crea da sé, tra rumori di scalpelli e aghi, mestoli e risate per mandar via le paure e ricordarsi che in fondo il gelo può essere anche un alleato nella Valle di Challant.
Certo, quando le nevi non arrivavano fino ai piedi del monte anche in primavera, coltivare la terra lontano dal forte è più semplice, per quanto possa essere facile coltivare la terra, bassa e capricciosa. L’acqua da queste parti non manca, anzi, anche in inverno si sente il Dora gorgogliare vivace e i torrenti ammansiti cercando di imitare alla meglio quello che avevano fatto, tanti anni fa i Romani. Si raccontava che prima del tempo, o almeno così si capiva dalle prediche in chiesa, c’erano i Romani, gli infedeli che misero in croce Gesù. Beninteso, non erano infedeli infedeli, come i mori e gli arabi, è che pensavano di esistere prima di Cristo e non capivano niente. Qualcosa però l’avevano compresa, i pellegrini che venivano dalla Francia diretti a Roma o che tornavano dalla Città del Papa raccontavano di grandi costruzioni fatte in modo bizzarro, con i muri rotondi, a guisa degli archi, come se ci fossero delle mani invisibili e si potesse scoccare tramite essi un qualche immaginario dardo. Dovevano essere bei guerrieri questi Romani infedeli per arrivare a costruire archi con cui lanciare frecce contro il cielo grandi quanto un castello. Non come Ibleto l’invincibile e fiero guerriero che li proteggeva e che aveva fatto costruire il forte più sicuro di tutto il Regno dei Savoia proprio a protezione del paese, di Verrez.
Lo aveva eretto sopra una roccia ed era più sicuro dell’antro della grande montagna. Neanche il Drago di Loo avrebbe potuto entrarvi senza trovare una fervida resistenza. Per accedervi era necessario passare a piedi, con il lato scoperto dallo scudo ben visibile ed era impenetrabile con gli arieti. Da lassù si vedevano anche le lingue degli aquilotti urlanti nel nido coperti dalle invincibili ali di Mamma Aquila.
C’era di che sentirsi protetti a stare al calduccio con i guerrieri a guardia del feudo, eppure i valligiani avevano imparato anche a proteggersi da sé. Il fatto di non poter possedere armi certo non era utile ma tutti insieme potevano fare e anche decidere qualcosa. Ibleto si era dimostrato tanto valoroso in battaglia da conquistare il favore dei Savoia e il rispetto dei loro avversari, a loro non dispiaceva per niente e quando c’era stato da combattere si erano stretti intorno a lui e avevano dato una bella mano. Non s’erano tirati indietro come la prudenza avrebbe richiesto, invece di rintanarsi in casa e nascondere donne, bambini e uomini in età da lavoro s’erano uniti ai guerrieri con quello che avevano, attrezzi agricoli, bastoni, pentole. La prima volta era accaduto tanti anni prima, quando c’era il valoroso feudatario, ma poi era capitato di nuovo, a difesa di altri membri della famiglia di Challant.
I bambini non credono mai alla storia della bella Caterina e chiedono di sentirla raccontare ancora una volta per trovare qualche elemento da contestare. D’altronde, che assurdità sarebbe!, niente a che vedere con i racconti della Fata di Verrayes, una Sibilla che conosce il fato di ognuno e di tutto ciò che è e sarà, o della Sposa Bianca che si aggira tra i ghiacci, a volte salvando chi vi rimane intrappolato, altre volte incantando con la carezza del sonno.
Quando i rumori davanti al grande focolare da suoni diventano una vera e propria musica ecco che si ripete la magia, ogni anno la stessa, qualcuno istintivamente controlla che non ci sia nessuno a sbirciare e curiosare e poi il lento crepitio si trasforma in musica e la Contessa di Challant agita i piedi della più bella del borgo che così, scalza, si anima di una forza sovrumana e lascia che il fuoco diventi ritmo e ispirazione e movimento.
Tup tup tup le fasce utilizzate come calzari battono cupi colpi sul pavimento, il mestolo gira nel paiolo, le palette di legno richiamano gli spiriti del bosco, intorno al borgo cala il silenzio scandito dal tempo dell’ultima campana della sera, la neve cade lieve complice nell’attutire i rumori, le mani, le poche che riescono a liberarsi dalle attività, si uniscono al focolare per ricreare la magia di quella notte in cui trenta musici fecero uscire la Contessa a ballare insieme al suo popolo, le foglie tra le labbra usate per il richiamo degli uccelli diventano splendidi flauti e pifferi. Qualunque utensile viene usato per ricreare i suoni di quella notte di giugno, quando le api si preparavano ad impollinare i fiori disposti a cerchio nei prati dalle fate che lì avevano danzato fino alle prime luci dell’alba, in cui la Contessa si lanciò in un ballo dionisiaco insieme al popolo che aveva difeso lei e la sua famiglia.
Clang clang clang le posate per cucinare si muovono guidate dall’invisibile genio degli abitanti dei boschi a ricomporre le suggestioni di quella notte unica in cui fu la gente a decidere e non i potenti, in cui fu il popolo a scegliere e non i regnanti, quella sera che sembrava fatta apposta per innamorarsi o gettarsi in qualche impresa impossibile, quella notte in cui la luna illuminava a giorno la valle e le nuvolette che nascono dagli alberi venivano soffiate dai dahu e dai greundzi a nascondere le creature del bosco, quelle del magico e incantato regno dell’ignoto e della fantasia che soltanto i bambini e i gatti conoscono, mentre si univano anche loro nella travolgente danza della fiera Caterina.
Tin tin tin ecco che anche i martelli cominciano a muoversi ritmicamente e la bella del villaggio lascia da parte il rossore che le sale alle guance e, incitata dagli altri, si lancia in una danza focosa, zingaresca e gitana in cui tutto sembra ricrearsi.
Blub blub blub il liquido bollente infonde calore e forza, intorno al focolare si tiene la gonna, lascia liberi i piedi con un’impudicizia che non pensava di avere, scioglie i lunghi capelli, neri serpenti che sembrano uscire direttamente dal fuoco. Prima un giro semplice, un passo lento e ripetitivo poi due passi avanti e uno indietro, come nei balli tradizionali, il ritmo aumenta, lo scialle preparato con tanto amore e con tanta cura sempre riposto nello stipo più alto con i fiori di lavanda per allontanare le tarme e l’elicriso per profumarlo d’estate viene lanciato verso l’ignoto, forse proprio verso il futuro sposo.
All’esterno il silenzio, controllato di quando in quando da qualche premuroso, dentro tutto è musica, ritmo, danza. Non si potrebbe ballare, c’è chi dice che il ballo è opera del demonio, ma non c’è niente di male in quei movimenti, non c’è niente di sbagliato in quella magia che si ripete ogni anno.
La contessa sembra prendere per mano la bella, le fate le insegnano passi antichi, gli abitanti del bosco le infondono, per una notte, il senso ineffabile del ritmo e tutto si trasforma.
Le braccia si muovono con la forza degli alberi scossi da una tempesta, i suoni diventano la più soave e meravigliosa tra le musiche mai composte, gli abitanti del bosco difendono quel popolo che ha saputo scegliere, che ha avuto il coraggio di affermare la propria volontà e di unirsi nella meraviglia della libertà.
All’improvviso tutto tace, come d’incanto, lasciando negli occhi il dubbio che sia stato soltanto il sogno di un gatto che ronfa acciambellato davanti al fuoco o qualcosa che unicamente i bambini sanno vedere.
La bella del paese si ricompone lesta, riprende il suo scialle riposto con tanta cura, chissà se il suo sposo sarà proprio colui che con le stelle nello sguardo indugia un impercettibile istante a ridarle il caldo accessorio?, riannoda i capelli nella cuffia senza far vedere neanche una di quelle ciocche che si erano divincolate con la forza di un torrente in piena fino a qualche attimo prima, qualche attimo che ora sembra eterno, riannoda le fasce a coprire i piedi, riprende il lavoro di ricamo quasi come se non l’avesse mai interrotto.

La vecchia balia del castello intona una nenia, i suoni ancestrali fanno venire un certo non so che, assopiscono in quello che, forse, è stato soltanto un sogno frutto dell’immaginazione fervida di un gatto, di un bimbo o di una vecchia. 

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