La
danza di Challant
INVERNO
INVERNO
La cosa più bella dell’inverno è
mettersi intorno al fuoco a raccontare storie mentre si svolgono tutte quelle
attività che durante il giorno o nella bella stagione non s’ha il tempo di
fare. È un momento del ricordo e della narrazione, attimi in cui tutto è più
vero del vero, i racconti della montagna e delle valli si mischiano con le
storie più bizzarre e le più inverosimili fiabe prendono forma nella brace
ardente.
Fuori è tutto bianco e nero, con la
volta celeste imperlata di stelle, i raggi della luna ad illuminare i fiocchi
di neve cristallizzati sugli alberi di cui si scorgono a malapena i tronchi e i
rami.
Le montagne, pericoloso rifugio spesso
infestato da briganti o da belve selvatiche ma soprattutto abitato dalla
popolazione del bosco e dai popoli montani, sono maestose e dense.
Dentro si sta ben riparati dalle
intemperie, al calduccio di un focolare intorno al quale fervono le attività
più varie, c’è chi crea o sistema i cesti, chi intarsia le grolle di legno, chi
aggiusta o modifica gli attrezzi agricoli, chi ricama e rammenda vestiti, chi
intreccia fiori per le ghirlande natalizie. Sul fuoco un gran pentolone, di
quelli buoni, col fondo che non si spacca mai, nel caso si ripara, si aggiusta,
altrimenti sai che disastro!, da cui emanano profumi delicati, l’aroma delle
castagne, il pane dei poveri, si unisce alle suggestioni floreali e balsamiche
dell’estate. Le erbe raccolte dopo la Pentecoste, messe ad essiccare per
insaporire zuppe e pasti che scacciano via il freddo dal naso e dai bronchi.
Qualche topolino cerca riparo negli
anfratti e si avvicina lesto quando i gatti sono troppo intenti a godersi la
compagnia facendo le fusa acciambellati sul ventre comodo di chi non ha paura del
potere magico che taluni attribuiscono loro, ronfando fino a divenire parte
integrante di quella musica sommessa che si crea da sé, tra rumori di scalpelli
e aghi, mestoli e risate per mandar via le paure e ricordarsi che in fondo il
gelo può essere anche un alleato nella Valle di Challant.
Certo, quando le nevi non arrivavano
fino ai piedi del monte anche in primavera, coltivare la terra lontano dal
forte è più semplice, per quanto possa essere facile coltivare la terra, bassa
e capricciosa. L’acqua da queste parti non manca, anzi, anche in inverno si
sente il Dora gorgogliare vivace e i torrenti ammansiti cercando di imitare
alla meglio quello che avevano fatto, tanti anni fa i Romani. Si raccontava
che prima del tempo, o almeno così si capiva dalle prediche in chiesa, c’erano
i Romani, gli infedeli che misero in croce Gesù. Beninteso, non erano infedeli
infedeli, come i mori e gli arabi, è che pensavano di esistere prima di Cristo
e non capivano niente. Qualcosa però l’avevano compresa, i pellegrini che
venivano dalla Francia diretti a Roma o che tornavano dalla Città del Papa
raccontavano di grandi costruzioni fatte in modo bizzarro, con i muri rotondi,
a guisa degli archi, come se ci fossero delle mani invisibili e si potesse
scoccare tramite essi un qualche immaginario dardo. Dovevano essere bei
guerrieri questi Romani infedeli per arrivare a costruire archi con cui
lanciare frecce contro il cielo grandi quanto un castello. Non come Ibleto l’invincibile
e fiero guerriero che li proteggeva e che aveva fatto costruire il forte più
sicuro di tutto il Regno dei Savoia proprio a protezione del paese, di Verrez.
Lo aveva eretto sopra una roccia ed era
più sicuro dell’antro della grande montagna. Neanche il Drago di Loo avrebbe
potuto entrarvi senza trovare una fervida resistenza. Per accedervi era
necessario passare a piedi, con il lato scoperto dallo scudo ben visibile ed
era impenetrabile con gli arieti. Da lassù si vedevano anche le lingue degli
aquilotti urlanti nel nido coperti dalle invincibili ali di Mamma Aquila.
C’era di che sentirsi protetti a stare
al calduccio con i guerrieri a guardia del feudo, eppure i valligiani avevano
imparato anche a proteggersi da sé. Il fatto di non poter possedere armi certo
non era utile ma tutti insieme potevano fare e anche decidere qualcosa. Ibleto
si era dimostrato tanto valoroso in battaglia da conquistare il favore dei
Savoia e il rispetto dei loro avversari, a loro non dispiaceva per niente e quando
c’era stato da combattere si erano stretti intorno a lui e avevano dato una
bella mano. Non s’erano tirati indietro come la prudenza avrebbe richiesto,
invece di rintanarsi in casa e nascondere donne, bambini e uomini in età da
lavoro s’erano uniti ai guerrieri con quello che avevano, attrezzi agricoli,
bastoni, pentole. La prima volta era accaduto tanti anni prima, quando c’era il
valoroso feudatario, ma poi era capitato di nuovo, a difesa di altri membri
della famiglia di Challant.
I bambini non credono mai alla storia
della bella Caterina e chiedono di sentirla raccontare ancora una volta per
trovare qualche elemento da contestare. D’altronde, che assurdità sarebbe!,
niente a che vedere con i racconti della Fata di Verrayes, una Sibilla che
conosce il fato di ognuno e di tutto ciò che è e sarà, o della Sposa Bianca che
si aggira tra i ghiacci, a volte salvando chi vi rimane intrappolato, altre
volte incantando con la carezza del sonno.
Quando i rumori davanti al grande
focolare da suoni diventano una vera e propria musica ecco che si ripete la
magia, ogni anno la stessa, qualcuno istintivamente controlla che non ci sia
nessuno a sbirciare e curiosare e poi il lento crepitio si trasforma in musica
e la Contessa di Challant agita i piedi della più bella del borgo che così,
scalza, si anima di una forza sovrumana e lascia che il fuoco diventi ritmo e
ispirazione e movimento.
Tup tup tup le fasce utilizzate come
calzari battono cupi colpi sul pavimento, il mestolo gira nel paiolo, le
palette di legno richiamano gli spiriti del bosco, intorno al borgo cala il
silenzio scandito dal tempo dell’ultima campana della sera, la neve cade lieve complice
nell’attutire i rumori, le mani, le poche che riescono a liberarsi dalle
attività, si uniscono al focolare per ricreare la magia di quella notte in cui
trenta musici fecero uscire la Contessa a ballare insieme al suo popolo, le
foglie tra le labbra usate per il richiamo degli uccelli diventano splendidi
flauti e pifferi. Qualunque utensile viene usato per ricreare i suoni di quella
notte di giugno, quando le api si preparavano ad impollinare i fiori disposti a
cerchio nei prati dalle fate che lì avevano danzato fino alle prime luci
dell’alba, in cui la Contessa si lanciò in un ballo dionisiaco insieme al
popolo che aveva difeso lei e la sua famiglia.
Clang clang clang le posate per cucinare
si muovono guidate dall’invisibile genio degli abitanti dei boschi a ricomporre
le suggestioni di quella notte unica in cui fu la gente a decidere e non i
potenti, in cui fu il popolo a scegliere e non i regnanti, quella sera che
sembrava fatta apposta per innamorarsi o gettarsi in qualche impresa
impossibile, quella notte in cui la luna illuminava a giorno la valle e le
nuvolette che nascono dagli alberi venivano soffiate dai dahu e dai greundzi a
nascondere le creature del bosco, quelle del magico e incantato regno
dell’ignoto e della fantasia che soltanto i bambini e i gatti conoscono, mentre
si univano anche loro nella travolgente danza della fiera Caterina.
Tin tin tin ecco che anche i martelli
cominciano a muoversi ritmicamente e la bella del villaggio lascia da parte il
rossore che le sale alle guance e, incitata dagli altri, si lancia in una danza
focosa, zingaresca e gitana in cui tutto sembra ricrearsi.
Blub blub blub il liquido bollente
infonde calore e forza, intorno al focolare si tiene la gonna, lascia liberi i
piedi con un’impudicizia che non pensava di avere, scioglie i lunghi capelli,
neri serpenti che sembrano uscire direttamente dal fuoco. Prima un giro
semplice, un passo lento e ripetitivo poi due passi avanti e uno indietro, come
nei balli tradizionali, il ritmo aumenta, lo scialle preparato con tanto amore
e con tanta cura sempre riposto nello stipo più alto con i fiori di lavanda per
allontanare le tarme e l’elicriso per profumarlo d’estate viene lanciato verso
l’ignoto, forse proprio verso il futuro sposo.
All’esterno il silenzio, controllato di
quando in quando da qualche premuroso, dentro tutto è musica, ritmo, danza. Non
si potrebbe ballare, c’è chi dice che il ballo è opera del demonio, ma non c’è
niente di male in quei movimenti, non c’è niente di sbagliato in quella magia
che si ripete ogni anno.
La contessa sembra prendere per mano la
bella, le fate le insegnano passi antichi, gli abitanti del bosco le infondono,
per una notte, il senso ineffabile del ritmo e tutto si trasforma.
Le braccia si muovono con la forza degli
alberi scossi da una tempesta, i suoni diventano la più soave e meravigliosa
tra le musiche mai composte, gli abitanti del bosco difendono quel popolo che
ha saputo scegliere, che ha avuto il coraggio di affermare la propria volontà e
di unirsi nella meraviglia della libertà.
All’improvviso tutto tace, come
d’incanto, lasciando negli occhi il dubbio che sia stato soltanto il sogno di
un gatto che ronfa acciambellato davanti al fuoco o qualcosa che unicamente i bambini sanno vedere.
La bella del paese si ricompone lesta,
riprende il suo scialle riposto con tanta cura, chissà se il suo sposo sarà
proprio colui che con le stelle nello sguardo indugia un impercettibile istante
a ridarle il caldo accessorio?, riannoda i capelli nella cuffia senza far
vedere neanche una di quelle ciocche che si erano divincolate con la forza di
un torrente in piena fino a qualche attimo prima, qualche attimo che ora sembra
eterno, riannoda le fasce a coprire i piedi, riprende il lavoro di ricamo quasi
come se non l’avesse mai interrotto.
La vecchia balia del castello intona una
nenia, i suoni ancestrali fanno venire un certo non so che, assopiscono in
quello che, forse, è stato soltanto un sogno frutto dell’immaginazione fervida
di un gatto, di un bimbo o di una vecchia.
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