Carmen
de Burgos * Columbine alla guerra
“Ma chi l’ha detto che una donna non può andare
in guerra?”
“La consuetudine”
“La consuetudine!”
“Sì, esatto”
“La….. CONSUETUDINE????”
“Carmen, non se ne parla”
“Perché?”
“Perché sì”
“Perché sì non è una risposta”
“Lo è”
“No”
“Sì”
“No”
“Carmen non insistere”
“Certo che insisto, non voglio essere la
Penelope della Storia, che tesse le tele mentre gli eventi si susseguono!”
“Sei una donna!”
“Però questo non mi impedisce di scrivere”
“No e questo proprio a me non lo puoi rinfacciare”
“Giusto”
“Non s’è mai vista una Penelope alla guerra!”
“Florence Nightingale”
“Che c’entra adesso La Signora con la
Lanterna?”
“È una donna”
“Lo è? A me sembra una suora missionaria”
“Non è esatto, anche lei è una Penelope”
“Una Penelope! Florence Nightingale!”
“Sì, esatto, una Penelope alla guerra”
Il sorriso di Carmen era stato perentorio come
il movimento del suo petto che tanto ricordava i generali pluripremiati non
fosse stato per la notevole dimensione dei seni e il direttore non poté dirle
di no, tanto per cambiare.
La determinazione ad inviare corrispondenze dal
fronte era stata tale da coprire le paure, le angosce e l’agitazione che la
tormentavano.
Da due giorni non riusciva a toccare cibo anche
se non si rendeva conto di quanto avrebbe poi ricordato con nostalgia quelle
bontà, il fresco e succoso sapore della frutta appena raccolta, la delicatezza
di verdure cotte a puntino, la fragranza del pane sfornato da poco e l’odorino
della carne sulla stufa. Ah! Se non fosse nata con quel carattere ribelle come
i suoi riccioli che non volevano mai stare a bada, se non avesse avuto l’oceano
negli occhi sin da bambina pur non avendolo visto, se fosse stata capace di
essere felice, contenta e soddisfatta delle sue frustrazioni quotidiane come tutte le
persone ‘normali’… no, lei non poteva essere così, aveva quel duende che la
perseguitava, c’era quel folletto, quel diavoletto le cui caratteristiche erano
sfuggite anche a Federico Garcia Lorca, che pure tanto bene lo aveva descritto
con parole eterne, che la faceva fremere e la istigava a muoversi, a non stare
ferma, a studiare, conoscere, sperimentare, sapere. Necessità impellente di
essere, bisogno di libertà che quando le veniva negata si sentiva soffocare,
ardore passionale del vivere.
Il fronte era stato molto peggio di quello che
aveva immaginato, oh, certo non pensava che sarebbe stata una passeggiata alle
terme in compagnia di un cagnolino bianco, cappello e guanti del medesimo
pallore, no, questo no. Ciò che davvero non aveva compreso era l’orrore e
soprattutto l’inutilità fondamentale, sostanziale e ideologica dell’orrore.
Se l’uomo aveva creato le tele di Goya o gli
affreschi di Raffaello non aveva necessità, per bilanciare l’equilibrio che si
ritrova in natura, di creare l’orrore.
Quello che le sembrò più sbagliato fu
l’inutilità della guerra, che in cuor suo imputò alla profonda incapacità degli
uomini di risolvere le questioni, anche complesse e spinose, in modo da cercare
di evitare lo scontro come invece erano abituate, da secoli di oppressione, a
fare le donne. Ma questo non poteva certo scriverlo.
Escogitò un modo per far capire che la
dualistica contrapposizione tra sublime e orrorifico non ha motivo di esistere
nelle società moderne e contemporanee e dichiarò guerra apertamente.
A chi? Alla guerra naturalmente.
Tornata a Madrid dai territori del Rif così
simili a quelli in cui era cresciuta eppure così differenti. Riconosceva gli
idiomi della sua infanzia, quelli parlati nel mercato di Almería, suoni melodiosi,
rochi e duri che sotto la scorza morbida e musicale del ritmo linguistico
nascondeva accenti spietati e complessi di storie intrecciate tra genti d’Asia,
Africa e Europa.
Trovava orrendo vedere le macerie, la povertà,
la crudeltà e la cattiveria scatenarsi in un territorio che già dava un bel
daffare alle popolazioni, per le condizioni climatiche, tanto gradevoli d’inverno
quanto difficili nella stagione calda, in alcune giornate non era possibile,
oggettivamente, neanche muoversi per sfogliare un libro, perché affannarsi per
uccidere altre persone, altri esseri umani e distruggere una terra che, lei lo
sapeva bene, poteva donare i frutti più dolci e succulenti, i metalli più
preziosi e la serenità più spensierata.
Non vedeva l’eroico sacrificio di valenti
giovani intenti nella nobile arte della guerra per la difesa di interessi,
genti e proprietà perché quello che i suoi occhi attenti, vispi, vivacissimi
scorgevano in tutta quella polvere mista a sangue, calore e sofferenza era
soltanto l’avida mano che aveva armato le ingenue braccia del fior fiore della
gioventù, di ragazzi che invece di sforzarsi a comprendere il modo migliore per
costruire una società più giusta, invece di sporcarsi le mani con la terra per
farvi crescere la vita, si inzaccheravano di densa polvere del deserto
lordandosi le unghie con la pelle, i capelli, il sangue di loro coetanei. Invece
di scorgere la scanzonata vivacità negli occhi di chi ha la forza, se non
sempre il cervello e le conoscenze, per costruire il progresso di società
moderne e pacifiche, leggeva l’abisso torbido della paura, della disperazione e
dell’odio.
Non c’era bellezza negli splendidi corpi di
quella gioventù, non c’era meraviglia, non c’era felicità, soltanto una cupa
rassegnazione all’orrore, alla stanchezza, alla cattiveria.
Invece di allenarsi a collaborare, a unire le
forze per costruire un futuro dignitoso per la propria nazione erano gettati in
mano alla brama di denaro, miniere e risorse di un manipolo di affamatori di
popoli.
Aveva capito quello che sarebbe accaduto dopo,
aveva compreso che la pace sarebbe stata lontana, aveva intuito che la distanza
tra l’Africa e l’Europa è minima e che il colonialismo spagnolo, inglese,
francese aveva bisogno di territori da sfruttare e che tale sfruttamento
avrebbe sortito soltanto l’effetto di una valanga di disperati, fame e povertà
che si sarebbero riversati, presto o tardi, nelle terre di Spagna.
Proveniva da quella città dove per secoli v’era
stato il mercato degli schiavi bianchi, una città resa forte da un liberto, e
aveva sempre saputo che la schiavitù è uno degli sbagli più assurdi dell’umanità.
Suo padre aveva sempre trattato con dignità i
suoi lavoranti e le aveva insegnato un rigore del pensiero che in quelle
giornate le era stato particolarmente utile, lei così diversa da lui, per non piazzarsi
in mezzo al campo di battaglia mettendosi a gridare ‘Basta! Fermi! Cretini che
non siete altro! Ma non capite? Non vedete che siete fatti della stessa materia
di cui sono fatti i sogni, le stelle? Non capite che quello che state facendo
non serve a voi, non serve alle vostre famiglie e non serve al vostro Paese?
Smettetela subito di farvi del male. Non è per voi, non è per il vostro
presente, né per il vostro futuro e per quello dell’intera nazione che vi state
scannando. Ma è possibile che non siate capaci neanche di preparare un buon tè
freddo, qualche biscotto e mettervi a fare la pace? Uomini imbecilli e cretini
che non siete altro! Capricciosi idioti, smettetela subito!’.
Forse, conoscendola, sarebbe anche riuscita ad
ottenere una tregua ma certo non aveva l’intenzione di farsi sparare addosso
dalle baionette per cui aveva continuato a scrivere le corrispondenze nello
stile richiesto, seppure con la sua solita capacità di istillare qualche
piccolo dubbio calcando la mano su ciò che le appariva più assurdo.
Aspettò di tornare a Madrid e lì, senza
esitazione, distillò tutto ciò che più era assurdo, spurgandosi forse anche di
quella guerra interiore nel deserto d’amore e disillusione che le aveva creato
Arturo, e scrisse ciò che, all’epoca e forse anche oggi, era decisamente
controcorrente, com’era logicamente immaginabile avendo anche soltanto
ascoltato una volta la sua risata che dissipava qualunque reticenza e faceva
svanire pregiudizi e cattiverie.
¡Guerra a la guerra! fu il titolo dell’articolo
che pubblicò in cui difendeva le ragioni ed argomentava la fondatezza dell’obiezione
di coscienza.
Giusto, normale, ovvio.
Non esattamente ovvio, normale, giusto nel
primo decennio del ventesimo secolo, pochi mesi dopo la pubblicazione del
Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti sul parigino Le Figaro che
recitava “Noi vogliamo glorificare la guerra — sola igiene del mondo — il
militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna.”.
Il modernismo, spiegò con le azioni, i gesti
concreti, i pensieri e le idee non era la guerra, la vera modernità era, ed è a
tutt’oggi, la pace, la libertà, l’obiezione di coscienza, il progresso, i
diritti fondamentali della donna quali diritti primari dell’uomo.
In fondo non era poi così sbagliato immaginarla
come una Penelope, parallelo che molti anni dopo un’altra giornalista
anticonformista, Oriana Fallaci, volle esprimere in un suo splendido libro. Tesseva
una tela, un arazzo, i cui fili erano sempre più forti, e che avrebbero costituito
le basi per le teorie e le pratiche di pace, molti anni dopo.
Le parole di Carmen de Burgos sono proiettili
fioriti.
Le parole di Columbine sono lo sguardo del
bambino che svela che il re è nudo.
Le parole di Columbine sono un ramoscello
d’ulivo dopo millenni di diluvio guerreggiato.
Le parole di Camen de Burgos, che si dovette
firmare con tanti pseudonimi perché donna, scrittrice, intellettuale,
corrispondente di guerra, femminista, sono cannonate contro la guerra.
Le parole di Carmen sono raggi di libertà.
Le parole di Columbine sono io, siamo noi.
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