domenica 11 settembre 2016

Carmen de Burgos * Columbine alla guerra

Carmen de Burgos * Columbine alla guerra 

“Ma chi l’ha detto che una donna non può andare in guerra?”
“La consuetudine”
“La consuetudine!”
“Sì, esatto”
“La….. CONSUETUDINE????”
“Carmen, non se ne parla”
“Perché?”
“Perché sì”
“Perché sì non è una risposta”
“Lo è”
“No”
“Sì”
“No”
“Carmen non insistere”
“Certo che insisto, non voglio essere la Penelope della Storia, che tesse le tele mentre gli eventi si susseguono!”
“Sei una donna!”
“Però questo non mi impedisce di scrivere”
“No e questo proprio a me non lo puoi rinfacciare”
“Giusto”
“Non s’è mai vista una Penelope alla guerra!”
“Florence Nightingale”
“Che c’entra adesso La Signora con la Lanterna?”
“È una donna”
“Lo è? A me sembra una suora missionaria”
“Non è esatto, anche lei è una Penelope”
“Una Penelope! Florence Nightingale!”
“Sì, esatto, una Penelope alla guerra”
Il sorriso di Carmen era stato perentorio come il movimento del suo petto che tanto ricordava i generali pluripremiati non fosse stato per la notevole dimensione dei seni e il direttore non poté dirle di no, tanto per cambiare.
La determinazione ad inviare corrispondenze dal fronte era stata tale da coprire le paure, le angosce e l’agitazione che la tormentavano.
Da due giorni non riusciva a toccare cibo anche se non si rendeva conto di quanto avrebbe poi ricordato con nostalgia quelle bontà, il fresco e succoso sapore della frutta appena raccolta, la delicatezza di verdure cotte a puntino, la fragranza del pane sfornato da poco e l’odorino della carne sulla stufa. Ah! Se non fosse nata con quel carattere ribelle come i suoi riccioli che non volevano mai stare a bada, se non avesse avuto l’oceano negli occhi sin da bambina pur non avendolo visto, se fosse stata capace di essere felice, contenta e soddisfatta delle sue frustrazioni quotidiane come   tutte le persone ‘normali’… no, lei non poteva essere così, aveva quel duende che la perseguitava, c’era quel folletto, quel diavoletto le cui caratteristiche erano sfuggite anche a Federico Garcia Lorca, che pure tanto bene lo aveva descritto con parole eterne, che la faceva fremere e la istigava a muoversi, a non stare ferma, a studiare, conoscere, sperimentare, sapere. Necessità impellente di essere, bisogno di libertà che quando le veniva negata si sentiva soffocare, ardore passionale del vivere.
Il fronte era stato molto peggio di quello che aveva immaginato, oh, certo non pensava che sarebbe stata una passeggiata alle terme in compagnia di un cagnolino bianco, cappello e guanti del medesimo pallore, no, questo no. Ciò che davvero non aveva compreso era l’orrore e soprattutto l’inutilità fondamentale, sostanziale e ideologica dell’orrore.
Se l’uomo aveva creato le tele di Goya o gli affreschi di Raffaello non aveva necessità, per bilanciare l’equilibrio che si ritrova in natura, di creare l’orrore.
Quello che le sembrò più sbagliato fu l’inutilità della guerra, che in cuor suo imputò alla profonda incapacità degli uomini di risolvere le questioni, anche complesse e spinose, in modo da cercare di evitare lo scontro come invece erano abituate, da secoli di oppressione, a fare le donne. Ma questo non poteva certo scriverlo.
Escogitò un modo per far capire che la dualistica contrapposizione tra sublime e orrorifico non ha motivo di esistere nelle società moderne e contemporanee e dichiarò guerra apertamente.
A chi? Alla guerra naturalmente.
Tornata a Madrid dai territori del Rif così simili a quelli in cui era cresciuta eppure così differenti. Riconosceva gli idiomi della sua infanzia, quelli parlati nel mercato di Almería, suoni melodiosi, rochi e duri che sotto la scorza morbida e musicale del ritmo linguistico nascondeva accenti spietati e complessi di storie intrecciate tra genti d’Asia, Africa e Europa.
Trovava orrendo vedere le macerie, la povertà, la crudeltà e la cattiveria scatenarsi in un territorio che già dava un bel daffare alle popolazioni, per le condizioni climatiche, tanto gradevoli d’inverno quanto difficili nella stagione calda, in alcune giornate non era possibile, oggettivamente, neanche muoversi per sfogliare un libro, perché affannarsi per uccidere altre persone, altri esseri umani e distruggere una terra che, lei lo sapeva bene, poteva donare i frutti più dolci e succulenti, i metalli più preziosi e la serenità più spensierata.
Non vedeva l’eroico sacrificio di valenti giovani intenti nella nobile arte della guerra per la difesa di interessi, genti e proprietà perché quello che i suoi occhi attenti, vispi, vivacissimi scorgevano in tutta quella polvere mista a sangue, calore e sofferenza era soltanto l’avida mano che aveva armato le ingenue braccia del fior fiore della gioventù, di ragazzi che invece di sforzarsi a comprendere il modo migliore per costruire una società più giusta, invece di sporcarsi le mani con la terra per farvi crescere la vita, si inzaccheravano di densa polvere del deserto lordandosi le unghie con la pelle, i capelli, il sangue di loro coetanei. Invece di scorgere la scanzonata vivacità negli occhi di chi ha la forza, se non sempre il cervello e le conoscenze, per costruire il progresso di società moderne e pacifiche, leggeva l’abisso torbido della paura, della disperazione e dell’odio.
Non c’era bellezza negli splendidi corpi di quella gioventù, non c’era meraviglia, non c’era felicità, soltanto una cupa rassegnazione all’orrore, alla stanchezza, alla cattiveria.
Invece di allenarsi a collaborare, a unire le forze per costruire un futuro dignitoso per la propria nazione erano gettati in mano alla brama di denaro, miniere e risorse di un manipolo di affamatori di popoli.
Aveva capito quello che sarebbe accaduto dopo, aveva compreso che la pace sarebbe stata lontana, aveva intuito che la distanza tra l’Africa e l’Europa è minima e che il colonialismo spagnolo, inglese, francese aveva bisogno di territori da sfruttare e che tale sfruttamento avrebbe sortito soltanto l’effetto di una valanga di disperati, fame e povertà che si sarebbero riversati, presto o tardi, nelle terre di Spagna.
Proveniva da quella città dove per secoli v’era stato il mercato degli schiavi bianchi, una città resa forte da un liberto, e aveva sempre saputo che la schiavitù è uno degli sbagli più assurdi dell’umanità.
Suo padre aveva sempre trattato con dignità i suoi lavoranti e le aveva insegnato un rigore del pensiero che in quelle giornate le era stato particolarmente utile, lei così diversa da lui, per non piazzarsi in mezzo al campo di battaglia mettendosi a gridare ‘Basta! Fermi! Cretini che non siete altro! Ma non capite? Non vedete che siete fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni, le stelle? Non capite che quello che state facendo non serve a voi, non serve alle vostre famiglie e non serve al vostro Paese? Smettetela subito di farvi del male. Non è per voi, non è per il vostro presente, né per il vostro futuro e per quello dell’intera nazione che vi state scannando. Ma è possibile che non siate capaci neanche di preparare un buon tè freddo, qualche biscotto e mettervi a fare la pace? Uomini imbecilli e cretini che non siete altro! Capricciosi idioti, smettetela subito!’.
Forse, conoscendola, sarebbe anche riuscita ad ottenere una tregua ma certo non aveva l’intenzione di farsi sparare addosso dalle baionette per cui aveva continuato a scrivere le corrispondenze nello stile richiesto, seppure con la sua solita capacità di istillare qualche piccolo dubbio calcando la mano su ciò che le appariva più assurdo.
Aspettò di tornare a Madrid e lì, senza esitazione, distillò tutto ciò che più era assurdo, spurgandosi forse anche di quella guerra interiore nel deserto d’amore e disillusione che le aveva creato Arturo, e scrisse ciò che, all’epoca e forse anche oggi, era decisamente controcorrente, com’era logicamente immaginabile avendo anche soltanto ascoltato una volta la sua risata che dissipava qualunque reticenza e faceva svanire pregiudizi e cattiverie.
 ¡Guerra a la guerra! fu il titolo dell’articolo che pubblicò in cui difendeva le ragioni ed argomentava la fondatezza dell’obiezione di coscienza.
Giusto, normale, ovvio.
Non esattamente ovvio, normale, giusto nel primo decennio del ventesimo secolo, pochi mesi dopo la pubblicazione del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti sul parigino Le Figaro che recitava “Noi vogliamo glorificare la guerra — sola igiene del mondo — il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.”.
Il modernismo, spiegò con le azioni, i gesti concreti, i pensieri e le idee non era la guerra, la vera modernità era, ed è a tutt’oggi, la pace, la libertà, l’obiezione di coscienza, il progresso, i diritti fondamentali della donna quali diritti primari dell’uomo.
In fondo non era poi così sbagliato immaginarla come una Penelope, parallelo che molti anni dopo un’altra giornalista anticonformista, Oriana Fallaci, volle esprimere in un suo splendido libro. Tesseva una tela, un arazzo, i cui fili erano sempre più forti, e che avrebbero costituito le basi per le teorie e le pratiche di pace, molti anni dopo.
Le parole di Carmen de Burgos sono proiettili fioriti.
Le parole di Columbine sono lo sguardo del bambino che svela che il re è nudo.
Le parole di Columbine sono un ramoscello d’ulivo dopo millenni di diluvio guerreggiato.
Le parole di Camen de Burgos, che si dovette firmare con tanti pseudonimi perché donna, scrittrice, intellettuale, corrispondente di guerra, femminista, sono cannonate contro la guerra.
Le parole di Carmen sono raggi di libertà.

Le parole di Columbine sono io, siamo noi.

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