AFELIO Garsenda di Sabran
Gli araldi avevano da tempo gridato l’annuncio
delle nozze e nel borgo c’era molta agitazione per quel matrimonio tanto
importante. La bella Garsenda di Sabran avrebbe unito il suo regno a quello di
Alfonso II d’Aragona nel mese di luglio dell’anno Domini 1193 e tutto doveva
essere perfetto, le strade pulite, le botteghe arieggiate, alle finestre bisognava esporre panni che facessero una bella figura, sulle case apporre le coroncine di fiori e grano che donne e bambini avevano preparato nei
due anni precedenti l’evento e durante l’inverno non troppo rigido di Aix-en-Provence,
che all’epoca non si chiamava esattamente così, ma questa è un’altra storia. Si
arrivò persino a dire che sarebbe stato necessario lavare vesti e corpi, raccogliere i
capelli in acconciature appropriate e abbigliarsi con decenza.
Il sole sembrava voler entrare prepotente tra le finestre e il caldo rendeva l’aria densa di polvere, sudore e aspettative.
Il castello brulicava di persone e frenesie. Cuochi, sguatteri, camerieri riuscivano miracolosamente a non urtarsi tra loro nella gran confusione generale, o quasi. La balia proprio non voleva capacitarsi del fatto che la bambina che aveva tenuto stretta sul suo generoso petto fino al mattino stava per subire il martirio del matrimonio con tutta la solitudine e lo squallore che ne derivava. Lei, con quel suo animo così gioioso e pronto allo scherzo, con quegli occhi vispi che sapevano scrutare nell’animo profondo di animali e piante, che sapeva leggere la musica nel gorgogliare di un ruscello non avrebbe dovuto sopportare tutto ciò che sposarsi, ineluttabilmente, comporta. Vedeva già la vivacità dello sguardo tramutarsi in comprensione delle umane cose, in smaliziate occhiate di chi ha capito la prosaicità mondana e non ha più illusioni, sogni... se fosse andata in convento certo sarebbe stato ancor peggio ma cos’altro poteva fare se non rammaricarsi per quello scricciolo di creatura? Mentre a passo di formica o di elefante attraversava il cortile si fermava d’improvviso inseguendo i suoi pensieri, girandosi di scatto e urtando chiunque si fosse trovato nel suo raggio di movimento, per quanto fossero stati precisi i loro calcoli di traiettoria e le previsioni di ogni minima o brusca variazione delle litanianti preghiere. Quando non arrivava a colpire inavvertitamente i malcapitati che si trovavano a transitarle accanto con gli arti e il busto ci pensava il rosario, ora scosso di qua e di là, ora lanciato con veemenza insieme alla pesante croce metallica, con le punte, per lo meno arrotondate, decorata con mosaico in pasta di vetro. L'unico movimento che evitava era quello che l’avrebbe portata accanto a Garsenda per non renderle ancor più gravoso quel già pesantissimo momento. Dal canto suo la futura sposa e Contessa di Provenza sembrava non far caso a nulla di ciò che le accadeva intorno, pareva quasi che tutto quel trambusto non la riguardasse minimamente, si lasciava lavare nell’acqua tiepida profumata con petali di rosa e fiori di lavanda, ungere con olii magici creati appositamente dalla Sibilla del mare, lucidare le unghie con la pietra e la sabbia. Lasciava che la guardassero e la scrutassero per abbellirla allontanandosi e avvicinandosi nuovamente come fanno i pittori quando dipingono o gli scultori quando rimirano e limano qui e là, dando un colpo di scalpello per rendere più gradevole all’occhio la propria opera per poi ricominciare a girarla e guardarla. La balia non c’era, non avrebbe mai potuto assistere alla lunga cerimonia di vestizione senza scoppiare in un pianto disperato e sincero che mal si addiceva ad un’occasione che doveva esser lieta di un matrimonio deciso e concordato nei minimi dettagli con apposito trattato, il trattato di Aix, appunto. I capelli erano stati lavati con infuso di camomilla e ortica per rendere più splendente e morbida la sua capigliatura dorata e lasciare che i raggi del sole rilucessero sul suo volto innocente facendola splendere quale gemma preziosa tra le gemme che ornavano le sue trecce, gocce di rugiada sui petali di un fiore mai colto. Ahhhhh no, la balia non poteva proprio vederla quella scena e così continuava ad essere l’ostacolo contro cui chiunque fosse in qualche faccenda affaccendato si andava necessariamente e inevitabilmente a scontrare. Il sole scottava sulla pelle eppure istintivamente aveva compreso che quel giorno la stella che infonde luce e vita sulla Terra era alla sua più siderale distanza dal pianeta. Non aveva nozioni di astronomia ma conosceva la profondità dello sguardo di Garsenda e pur di evitarle lo strazio del corpo goffo del marito nel talamo nuziale avrebbe volentieri fatto a cambio con lei. Pregava tutti i santi che conosceva che potessero farle un incantesimo per evitare alla piccola che aveva tenuto in braccio fino alla mattina di dover sopportare quel puzzo di ubriachezza dopo tali festeggiamenti e la prepotenza cui non poteva sottrarsi. Più ci pensava e più pericolosi e imprevedibili diventavano i suoi movimenti e relativi lanci di rosario con pesante croce intarsiata. Vani erano, da parte di chiunque avesse la sventura di passarle accanto, gli sforzi per distrarla in qualche modo dalle cupe riflessioni che mal si addicevano ad una tale festa. Maggiore era la pena che la balia provava nel cuore, maggiore il dolore fisico di chi orbitava intorno alla sua notevole presenza corporea, ovviamente. Grande fu il sollievo di tutti quanti quando Garsenda la mandò a chiamare con grande premura ed ella dovette sciacquarsi il volto, rassettarsi i capelli, riporre il temuto rosario in una tasca nel grembiale e recarsi, con l’umore uggioso e infelice, verso la stanza della giovane. Non ci fu bisogno di bussare alla porta perché l’attendeva, chiese, unico capriccio di tutta la giornata, di essere lasciata sola per qualche minuto con la balia che la guardò e non poté trattenere un gridolino di stupore e meraviglia. Quando tutte le ancelle furono uscite Garsenda prese la balia per mano e si fece accarezzare il volto, strinse con le sue dita lievi quelle abituate alla fatica della donna e intonò un canto melodioso come il suono dell’usignolo, spostò un piede davanti all’altro, senza scomporre la complessa acconciatura iniziò una danza lieve ché un discorso sarebbe stato troppo complicato, la balia capì e la assecondò, ballando come non aveva mai danzato prima e mai avrebbe fatto in futuro e tutto fu improvvisamente bello.
Il sole sembrava voler entrare prepotente tra le finestre e il caldo rendeva l’aria densa di polvere, sudore e aspettative.
Il castello brulicava di persone e frenesie. Cuochi, sguatteri, camerieri riuscivano miracolosamente a non urtarsi tra loro nella gran confusione generale, o quasi. La balia proprio non voleva capacitarsi del fatto che la bambina che aveva tenuto stretta sul suo generoso petto fino al mattino stava per subire il martirio del matrimonio con tutta la solitudine e lo squallore che ne derivava. Lei, con quel suo animo così gioioso e pronto allo scherzo, con quegli occhi vispi che sapevano scrutare nell’animo profondo di animali e piante, che sapeva leggere la musica nel gorgogliare di un ruscello non avrebbe dovuto sopportare tutto ciò che sposarsi, ineluttabilmente, comporta. Vedeva già la vivacità dello sguardo tramutarsi in comprensione delle umane cose, in smaliziate occhiate di chi ha capito la prosaicità mondana e non ha più illusioni, sogni... se fosse andata in convento certo sarebbe stato ancor peggio ma cos’altro poteva fare se non rammaricarsi per quello scricciolo di creatura? Mentre a passo di formica o di elefante attraversava il cortile si fermava d’improvviso inseguendo i suoi pensieri, girandosi di scatto e urtando chiunque si fosse trovato nel suo raggio di movimento, per quanto fossero stati precisi i loro calcoli di traiettoria e le previsioni di ogni minima o brusca variazione delle litanianti preghiere. Quando non arrivava a colpire inavvertitamente i malcapitati che si trovavano a transitarle accanto con gli arti e il busto ci pensava il rosario, ora scosso di qua e di là, ora lanciato con veemenza insieme alla pesante croce metallica, con le punte, per lo meno arrotondate, decorata con mosaico in pasta di vetro. L'unico movimento che evitava era quello che l’avrebbe portata accanto a Garsenda per non renderle ancor più gravoso quel già pesantissimo momento. Dal canto suo la futura sposa e Contessa di Provenza sembrava non far caso a nulla di ciò che le accadeva intorno, pareva quasi che tutto quel trambusto non la riguardasse minimamente, si lasciava lavare nell’acqua tiepida profumata con petali di rosa e fiori di lavanda, ungere con olii magici creati appositamente dalla Sibilla del mare, lucidare le unghie con la pietra e la sabbia. Lasciava che la guardassero e la scrutassero per abbellirla allontanandosi e avvicinandosi nuovamente come fanno i pittori quando dipingono o gli scultori quando rimirano e limano qui e là, dando un colpo di scalpello per rendere più gradevole all’occhio la propria opera per poi ricominciare a girarla e guardarla. La balia non c’era, non avrebbe mai potuto assistere alla lunga cerimonia di vestizione senza scoppiare in un pianto disperato e sincero che mal si addiceva ad un’occasione che doveva esser lieta di un matrimonio deciso e concordato nei minimi dettagli con apposito trattato, il trattato di Aix, appunto. I capelli erano stati lavati con infuso di camomilla e ortica per rendere più splendente e morbida la sua capigliatura dorata e lasciare che i raggi del sole rilucessero sul suo volto innocente facendola splendere quale gemma preziosa tra le gemme che ornavano le sue trecce, gocce di rugiada sui petali di un fiore mai colto. Ahhhhh no, la balia non poteva proprio vederla quella scena e così continuava ad essere l’ostacolo contro cui chiunque fosse in qualche faccenda affaccendato si andava necessariamente e inevitabilmente a scontrare. Il sole scottava sulla pelle eppure istintivamente aveva compreso che quel giorno la stella che infonde luce e vita sulla Terra era alla sua più siderale distanza dal pianeta. Non aveva nozioni di astronomia ma conosceva la profondità dello sguardo di Garsenda e pur di evitarle lo strazio del corpo goffo del marito nel talamo nuziale avrebbe volentieri fatto a cambio con lei. Pregava tutti i santi che conosceva che potessero farle un incantesimo per evitare alla piccola che aveva tenuto in braccio fino alla mattina di dover sopportare quel puzzo di ubriachezza dopo tali festeggiamenti e la prepotenza cui non poteva sottrarsi. Più ci pensava e più pericolosi e imprevedibili diventavano i suoi movimenti e relativi lanci di rosario con pesante croce intarsiata. Vani erano, da parte di chiunque avesse la sventura di passarle accanto, gli sforzi per distrarla in qualche modo dalle cupe riflessioni che mal si addicevano ad una tale festa. Maggiore era la pena che la balia provava nel cuore, maggiore il dolore fisico di chi orbitava intorno alla sua notevole presenza corporea, ovviamente. Grande fu il sollievo di tutti quanti quando Garsenda la mandò a chiamare con grande premura ed ella dovette sciacquarsi il volto, rassettarsi i capelli, riporre il temuto rosario in una tasca nel grembiale e recarsi, con l’umore uggioso e infelice, verso la stanza della giovane. Non ci fu bisogno di bussare alla porta perché l’attendeva, chiese, unico capriccio di tutta la giornata, di essere lasciata sola per qualche minuto con la balia che la guardò e non poté trattenere un gridolino di stupore e meraviglia. Quando tutte le ancelle furono uscite Garsenda prese la balia per mano e si fece accarezzare il volto, strinse con le sue dita lievi quelle abituate alla fatica della donna e intonò un canto melodioso come il suono dell’usignolo, spostò un piede davanti all’altro, senza scomporre la complessa acconciatura iniziò una danza lieve ché un discorso sarebbe stato troppo complicato, la balia capì e la assecondò, ballando come non aveva mai danzato prima e mai avrebbe fatto in futuro e tutto fu improvvisamente bello.
“L’amore e il matrimonio sono due cose
diverse ha decretato il tribunale dell’amor cortese e non disperare, cara
balia, che anche io troverò chi farà splendere la felicità nei miei occhi come
oggi i raggi del sole rilucono sulla mia testa”, disse soltanto con aria tra
il serio e lo scherzoso. Le risate si fusero insieme come un fuoco d’inverno,
il gatto le guardò sornione non comprendendo se ciò che vedeva fosse il vero o
frutto del caldo, non parve badarci tanto e si rimise a ronfare.
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