sabato 22 ottobre 2016

Senatori 7. Eduardo. L’immaginazione partenopea al Senato. (bozza)

Eduardo. L’immaginazione partenopea al Senato.

Eduardo non è un nome proprio, è un’emozione che attraversa la spina dorsale dal coccige fino alla punta dei capelli, lacrime amare e risate piene, pensiero ed emozione spettacolare. È una smorfia che riempie il cuore, il corpo dei sentimenti più puri, più veri, quelli scaturiti dalla finzione scenica di un artista immenso. Aggiungere il cognome De Filippo, o quello di un padre che mai lo riconobbe, Scarpetta, al nome proprio è quasi un’offesa a tutto ciò che Eduardo è nella memoria collettiva di un Popolo che grazie a lui ha potuto ridere delle proprie miserie ed inorgoglirsi della propria genialità universale.
Che sia un figlio della più caotica città italiana, Napoli, lui con la sua proverbiale ricerca scrupolosa e disciplinata della perfezione è l’ulteriore, se ve ne fosse bisogno, dimostrazione del suo genio. Il Presidente della Repubblica più amato dagli italiani o forse, a dir meglio, l’unico che gli italiani abbiano sempre considerato uno di noi, uno che sta sempre dalla parte dell’Italia e degli italiani, Sandro Pertini, gli conferì il titolo onorario di Senatore a vita.
C’è da immaginare che un uomo tanto famoso e impegnato non potesse prendere seriamente questo incarico ma, e questo Pertini forse lo sapeva benissimo, egli diede una lezione di politica senza eguali al Parlamento italiano.
In che modo è presto detto.
Eduardo è napoletano, italiano, uomo di cultura e di spettacolo.
Sul palcoscenico mette in scena Napoli, l’Italia, gli italiani, i cittadini e gli esseri umani con le loro piccinerie e coi loro eroismi, senza indulgere, senza giudicare, con sincero amore nei confronti di ciò che egli porta sotto i riflettori del mondo intero scatenando ogni volta reazioni entusiastiche.
Prende il suo lavoro molto sul serio, lo ama per quello che è. Rappresentare le esigenze della popolazione. A ben guardare è quello che ha sempre fatto, per tutta la vita, con una maestria ineguagliata e ineguagliabile.
Non è Scarpetta e non è Pirandello a guardare e rappresentare il Popolo, è Eduardo e lui applica quella lente d’ingrandimento speciale che ha nello sguardo, la lente è incastonata da idee di libertà e democrazia e crea un miracolo, uno di quei miracoli che soltanto lui avrebbe potuto costruire, immaginare, rappresentare e mettere in pratica.
Certamente non ha niente a che fare coi miracoli di San Gennaro, mai gli farebbe uno sgarbo, piuttosto con la libertà e la democrazia, con la voglia assoluta di agire il proprio ruolo con una maestria ineguagliabile e ineguagliata.
Eduardo dà voce a chi non ha diritto ad avere voce in capitolo, i uagliuncelli più disperati che popolano la povertà nei vasci della sua Napoli. Egli propone e porta avanti un progetto che a guardarlo ora fa venire le lacrime agli occhi per la genialità, e come non avrebbe potuto essere geniale nel rappresentare il popolo?, in cui propone una cittadella ove dare ai giovani e giovanissimi che hanno preso una brutta strada, e che presumibilmente hanno vita breve, la possibilità di apprendere antichi mestieri e quindi di lavorare in botteghe che ripropongano tutte quelle professionalità che rischierebbero di andare perdute per sempre e che fanno di Napoli una ingegnosa capitale di talune eccellenze artigiane.
Un colpo micidiale per la Camorra, l’affermazione dello Stato, del diritto, della libertà e di quei principi costituzionali per cui i cittadini sono uguali, senza distinzione di sesso, di censo, di religione, di opinione.
Leggere le frasi che ha pronunciato, alzare la coltre di polvere sotto cui risuonano sommessamente stentoree le sue parole, sono la dimostrazione più piena e consapevole della possibilità della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza.

Le luci sfolgoranti della storia, la memoria collettiva degli italiani non potranno mai dimenticare il capolavoro politico del Senatore Eduardo De Filippo.

venerdì 21 ottobre 2016

Senatori 6. La democrazia, va bene? Sergio Augusto Stanzani Ghedini (bozza)

La democrazia, va bene? Sergio Augusto Stanzani Ghedini.

Gli occhi di Sergio Augusto Stanzani Ghedini sono illuminati da una felicità salgariana, lampi di ironica bellezza che diffondono luminescenze di speranza caparbia, gioia di vivere e fare l’impossibile per garantire, a sé e agli altri, la possibilità di continuare a godere di tutto ciò che è giusto, di tutto ciò che è nelle proprie personali inclinazioni.
Se fosse nato in Canada avrebbe molto piacevolmente dialogato con Pierre Trudeau, il Primo Ministro che affermò che lo Stato non entra nella camera da letto della Nazione, un rivoluzionario liberale in giacca e cravatta. D’altronde lui, a parte i jeans, ha sempre cercato di vestire in modo decoroso, rispettoso delle istituzioni democratiche che ha sempre amato fino a pretendere con tutte le sue forze che esse funzionassero e svolgessero le funzioni per le quali sono state create. Che pensiero rivoluzionario, a pensarci, va bene?, anche soltanto un attimo.
In un periodo storico in cui le istituzioni venivano svuotate di senso e riempite di corruzione Sergino chiedeva che esse svolgessero le proprie funzioni, durante il regime fascista e poi durante quello ‘sfascista’. Dopo il ’46 sommessamente alzava il dito indice per domandare che i rappresentanti del popolo venissero eletti democraticamente, com’è scritto sulla Costituzione della Repubblica Italiana, da un Popolo sovrano libero di scegliere in piena coscienza e conoscenza.
La democrazia non è qualcosa che si impara sui libri, soprattutto se sui testi di scuola c’è scritto che la guerra è bella, che esiste soltanto un uomo in grado di guidare la Patria e quest’uomo ha la faccia di bronzo col mascellone sporgente, la voce stridula di persona che della vita ha capito poco e niente. Sandokan, lui sì che sa cos’è la libertà, la voglia di lottare contro le ingiustizie e la forza di rischiare, di vivere e lanciarsi in nuove avventure coi suoi tigrotti di Mompracem, ma non si può dire, è rischioso. Qualunque cosa fosse interessante e divertente era pericolosa perché vietata durante la sua infanzia e la sua giovinezza. Anche pensare, riunirsi, parlare per la strada, criticare uscire di casa dopo il coprifuoco era pericoloso perché vietato. Quindi anche immaginare era vietato ma a lui non interessava punto che lo fosse e aveva imparato a tenere dentro la libertà, a viverla in un modo tale da non renderla visibile se non quando era il momento giusto. Durante il periodo più nero della storia italiana aveva appreso il difficile piacere dell’essere libero senza darlo a vedere, appena aveva raggiunto l’età giusta aveva anche compreso che combattere contro le tirannie è una condizione di necessità, non è qualcosa che si può evitare di fare. Durante la Resistenza aveva capito che le dittature sono difficili da sconfiggere anche nelle menti di chi rischia la vita per abbatterle. I regimi sono una tentazione costante per moltissime persone, una soluzione che pare essere lì, a portata di mano, pronta per l’uso tutte le volte che occorre reprimere qualcosa che ha spesso a che fare con la bellezza, il piacere, la vita.
Le ortodossie gli hanno sempre provocato allergie e pruriti. Prevedono una sospensione del pensiero individuale a favore di un pensiero unico alienante e non controvertibile. Per questo non si era unito a quelli del Soccorso Rosso, non si era avvicinato ai Comunisti, forse Stalin non era uguale a o peggiore di Hitler e Mussolini? Era identico e infatti si era dato parecchio da fare per instaurare Franco in Spagna. Un libero pensatore non accetta dogmi, se così fosse non sarebbe libero o non sarebbe un pensatore, o tutte e due. Ad ogni buon conto, a lui non erano mai piaciuti. Cambiava il colore della camicia, da nera a rossa, ma non ritrovava in loro quello che stava cercando. Giudicavano qualunque cosa, offendevano chi si comportava o agiva in modo eccentrico e beh, agire in modo originale è davvero divertente. Senza ridere, senza gioia, non c’è libertà. È un concetto ovvio, semplice, va bene?, contrasta con l’amore per il martirio della Chiesa Romana e con quello della rinunzia a sé per il bene della Patria. La libertà è partecipazione della gioia di vivere insieme alle persone che costituiscono quella meravigliosa comunità rappresentata dalle persone e garantita dalle istituzioni democratiche. Non c’è sofferenza nella democrazia, se non quella per l’ottenimento e il mantenimento della stessa, perché il governo della polis da parte del popolo e di chi lo rappresenta distillandone le istanze è creazione delle condizioni per la felicità individuale e collettiva.
Il corpo, di tutta evidenza, non è dissociato dal piacere, che non è peccato bensì espressione di libertà individuale e collettiva. La Natura è perfetta e se esiste il sentimento del piacere e il senso del bello vuol dire che c’è un motivo, per cui contro-natura è tutto ciò che nega la bellezza dell’espressione libera del piacere, intellettuale, fisico, di partecipazione. Tra queste c’è la morale catto-comunista, la negazione dei diritti fondamentali delle donne e degli uomini, la distruzione sistematica dell’ambiente. Se i diritti fondamentali di uomini e donne venissero rispettati e fosse possibile vivere senza oppressioni mentali, sociali e politiche non si porrebbe il problema della mancanza di rispetto, quale ad esempio l’oppressione fattuale delle donne o la pornografia, e si potrebbe cominciare a costruire serenamente la pace. Migliorando in continuazione, immaginando nuove frontiere della libertà, ascoltando le esigenze reali e non indotte o fasulle del Popolo e decidendo di conseguenza.
Ovviamente la democrazia e il rispetto per la natura non esistono nel vuoto e c’è sempre qualcosa per cui valga la pena indossare una bella giubba di un rosso garibaldino e agire, magari con un manipolo di eccentrici, per ottenere ciò che tutti gli altri pensano sia impossibile.
La fame, l’inquinamento, la legalità sono semplici parole che richiedono una visione, un’azione transnazionale, che superi non soltanto i confini ormai soltanto linguistici all’interno dell’Europa ma anche gli oceani e i mari, per spingersi fin oltre Mompracem e creare un mondo dove vivere gioiosamente abbia davvero il sapore indescrivibile della libertà.

Va bene?

mercoledì 19 ottobre 2016

Senatori 5. Laura Conti. Ecologia delle libertà. (bozza)

Laura Conti. Ecologia delle libertà.[1]

“Salubrità dei processi, compatibilità fra i diversi usi delle risorse rinnovabili, durata delle risorse non rinnovabili: sono queste le tre preoccupazioni fondamentali dello studioso di ecologia [una] scienza molto più vasta di quanto fanno apparire gli articoli di giornale che si occupano oggi della cappa di smog che è calata su una città, domani di una moria di pesci in un lago inquinato; la parola «ecologia» (da «oikos», in greco «casa», e da «logos», in greco «discorso») indica il discorso (lo studio) sulla casa degli organismi viventi, cioè sui rapporti tra gli organismi viventi e l'ambiente, considerando che per ciascun organismo l'ambiente è formato non solo di materia non vivente, come l'aria e l'acqua, bensì anche di tutti gli altri esseri viventi. Ogni essere vivente è, per gli altri, parte dell'ambiente. [...] È opinione ormai diffusa, non solo tra i socialisti e i comunisti, che il potere politico debba indirizzare le attività umane, comprese le attività economiche, in modo tale che non vengano messe in circolazione sostanze velenose, in modo tale che l'acqua e l'aria possano venire impiegate non solo dall'industria, ma anche dall'agricoltura, e anzi non solo nelle attività produttive, ma anche per lo sport e il divertimento, e infine in modo che le generazioni future non debbano rimproverarci il nostro egoismo. Salubrità, compatibilità, durata. [...] Per degradare l'ambiente [...] è bastato un cieco meccanismo. Per ricostituire l'ambiente occorre una volontà. Una volontà basata sulle conoscenze scientifiche, e capace di esprimersi in atti politici ben coordinati.”
Laura Conti, 1977[2]

La giornata era limpida, la nebbia s’era alzata per lasciar respirare la città scaligera e Laura ne approfittò per godere appieno del canto primaverile di passeri e rondini che sembrava si fossero date appuntamento proprio lì, in quel Parco Sempione dove passava sempre volentieri per andare ovunque. Ritrovava nel polmone verde di Milano un briciolo di libertà, la bellezza della natura che le dava la forza di agire per costruire la pace, quel po’ di serenità necessaria a sopportare i ricordi del Campo di transito di Bolzano, l’orrore della morte dell’unico uomo che avesse mai veramente amato proprio lì, tra le mani di torturatori incarogniti dalla sconfitta che sapevano imminente maledetti e vigliacchi. Forse erano morti ammazzati mentre lei passeggiava libera tra i viali alberati. Non ne aveva la certezza e non aveva mai approfondito, non si era mai informata sulla sorte criminale di delinquenti in uniforme, aveva resistito, anche nell’estrema sofferenza, pulendo la propria mente dagli orrori, concentrandosi sul canto degli uccellini, sui fiori che sbocciavano, sulla Natura che accoglie gli esseri viventi senza giudicare, nella sua infinita perfezione.
Per gli storni, poi, aveva una vera e propria predilezione. Ad un primo sguardo non hanno i colori sgargianti di pappagalli o cinciallegre e nemmeno le flessuose gambe di cicogne e aironi, non esprimono la maestosa rapacità di aquile, falchi e poiane ma insieme riescono a creare forme meravigliose nel cielo. Presi uno per uno, ognuno ha i suoi difettucci ma quando volano insieme sono talmente belli che al solo guardarli un’emozione assoluta pervade il cuore e il cervello. Gli esseri umani non sono poi tanto diversi, sì, ci sono i Leonardo Da Vinci e le Venere del Botticelli ma la maggior parte sono passeri che quando si innalzano in volo, lasciando da parte tutta la stupida ottusità che caratterizza il genere umano nella creazione di qualcosa di enorme come la Pace, la Patria, l’Europa, le Nazioni Unite, la Libertà, ecco che riescono a diventare un unico corpo di straordinaria bellezza. E sono anche intelligenti, al contrario di quanto si potrebbe pensare ad un primo sguardo, perché seguendoli si riescono a scampare molti pericoli. Forse se quel 4 luglio del 1944 l’aria non fosse stata così irrespirabile e se il suo cuore non si fosse messo a tamburellare come un cannone nel suo petto forse Bolzano l’avrebbe conosciuta soltanto per le sue splendide montagne ma in guerra una distrazione, magari dovuta alla fame, alla stanchezza, alle coercizioni, alle paure e ai bombardamenti, può essere fatale. Per Laura le conseguenze erano state tragiche seppur non irrimediabili come per Armando Sacchetta, il compagno di lotte e di vita che era deceduto nell’orrore più indescrivibile di un campo di transito per l’internamento in un campo tedesco.
Abbassava la testa partendo dal mento aguzzo per poi arrivare di scatto alla fronte che nascondeva lo sguardo affranto in un sorriso sbuffante quando ci pensava. Era il suo modo di coprire le lacrime, il suo escamotage per sfuggire alla lacerante impossibilità di accettare quello che gli avevano fatto, a lui, uomo bello, vivace, intelligente e forte…. Non riusciva a non sentire le sue grida, le aveva riconosciute pur se mischiate a quelle di altre decine, centinaia di internati, aveva selezionato il suono, lo aveva distillato nella sua memoria per poterlo imprimere indelebilmente nei suoi neuroni quale sofferenza più atroce di tutte le altre che le erano state barbaramente inflitte malgrado gli stratagemmi che aveva escogitato per sfuggire alle atrocità degli aguzzini.
Il grido allegro di una rondine spazzò via la cupezza dai ricordi e la riportò nel presente, nella sua vita di donna libera, tra i rami frondosi di Piazza Sempione. Si era imposta, nonostante la sua prestigiosa posizione politica, di non infierire contro i nemici della pace e della libertà. Se lo avesse fatto avrebbe inquinato i suoi pensieri, la sua mente con il medesimo veleno che aveva sovvertito il senso stesso dello Stato. Reinventare un linguaggio ‘pulendolo’ da quelle scorie radioattive istillate a forza durante un nero ventennio nelle scuole, nei libri, negli abbecedari, nei mezzi di comunicazione era per lei un esercizio di amore per sé e per l’ambiente.
Si era resa conto che maggiore era l’inquinamento del linguaggio peggiore era lo stato di salute della Libertà e della Natura e davvero non riusciva a capire perché, per quale motivo, avrebbe dovuto prescindere dalla salvaguardia della lingua distillata da Dante e Manzoni e contestualmente dalla protezione e tutela dell’ambiente, come se le due cose fossero disgiunte.
Non poteva esservi libertà, era così ovvio e così complicato spiegarlo, se c’era sfruttamento - e i cittadini venivano necessariamente sfruttati se veniva inquinata pure la terra da coltivare, l’acqua da bere e l’aria da respirare – non poteva esserci libertà. Ma se la libertà non si riusciva neanche ad immaginarla perché non c’erano le parole per costruire i concetti che avrebbero portato alla sua creazione pensare di agire per costruirla era complicato. Era dunque necessario applicare alla democrazia, la giovanissima democrazia di uno tra i più vetusti Paesi del Vecchio Continente, le medesime regole di pulizia, anche formale, del pensiero. Le stesse ovvie tutele indicate dalla perfezione della Natura. Se si fosse riusciti a pulire il linguaggio dalla propaganda fascista sul maschio progresso, si sarebbe riusciti a creare la pace, nel pieno rispetto dell’ambiente sociale, naturale, artistico e storico in cui si vive.
Disgiungere femminismo, libertà, pace, ecologia, che ancora non si chiamava così, era mancare di rispetto ai fondamentali diritti delle persone così faticosamente conquistati negli atroci anni della Resistenza in cui s’era lottato contro la distruzione di una Patria, di un territorio, di civiltà millenarie. Ma a che era servito difendere a spada tratta il Paese e il territorio se i ‘democratici’ lo distruggevano col cemento, con gli stabilimenti industriali e con le polveri inquinanti?
Provò a chiederlo alla rondine che le sorrise dal cielo lanciandosi, insieme a due sue amiche, in una bellissima evoluzione che prese la forma di uno splendido cuore.




[1] Liberamente ispirato, e senza un effettivo riferimento storico, alla memoria di Laura Conti. Fonti consultate: ANPI http://www.anpi.it/donne-e-uomini/1846/laura-conti Wikipedia  https://it.wikipedia.org/wiki/Laura_Conti Enciclopedia delle Donne http://www.enciclopediadelledonne.it/biografie/laura-conti/
[2] Laura Conti citata nell’interessantissimo articolo monografico pubblicato su Minervaweb n. 26 (nuova serie), aprile 2015   https://www.senato.it/3182?newsletter_item=1737&newsletter_numero=163

martedì 18 ottobre 2016

Senatori 4. Tina Anselmi. “Abbiamo combattuto per conquistare la pace” (bozza)

Tina Anselmi. “Abbiamo combattuto per conquistare la pace”[1]

“Se ti prendono prega Dio che ti ammazzino subito, sei una donna e sei pure giovane e bella” quelle parole erano scolpite nella sua mente, non riusciva a dimenticarle, si inframmezzavano alle preghiere con cui snocciolava il suo Rosario, fisicamente o mentalmente per darsi il ritmo mentre pedalava lungo le strade ghiacciate del Veneto, tra file di radicchi e insidie da ogni dove. Pregava, pregava, e cos’altro poteva fare? era certa che il suo compito era importante e sapeva che era pericoloso, pericolosissimo ma necessario. La Divina Provvidenza avrebbe espresso il volere del Signore e avrebbe saputo giudicare se era giusto o no. Mentire ai genitori non era una cosa buona ma se li avesse informati li avrebbe messi in pericolo, questo le avevano insegnato in Brigata, nessuno doveva conoscere le sue azioni e lei non doveva conoscere quelle degli altri, ne andava della vita e della dignità personale. Il sangue le si gelava nelle vene mentre la forza di giovane donna spingeva i pedali della pesante bicicletta oppure quando si doveva fermare per aggiustare i copertoni. Quelli erano momenti in cui riusciva a muovere le mani soltanto pregando nella sua testa che in quel momento non passasse un reparto di fascisti. Se le camicie nere avessero trovato il prezioso contenuto della sua borsa la sua unica speranza sarebbe stata un bel colpo secco di pistola e sinceramente amava talmente la sua vita da non poter accettare un tale abominio verso sé stessa e verso l’Onnipotente che, è ben noto, ai suicidi preferisce i martiri. Nella chiesa nascosta tra le mura fortificate di Castelfranco Veneto, il suo paese, c’erano le immagini di martiri e non le piaceva pensare che il suo bel corpo sodo e generoso avrebbe dovuto subire lo strazio delle torture, cui si sarebbero aggiunte quelle dedicate all’umiliazione sistematica delle donne. Un giorno le preghiere si erano interrotte nella sua mente, la circolazione sanguigna si era fermata e i bei rossi sul suo viso avevano lasciato il posto ad un bianco più terreo di quello di un defunto. Due giovani l’avevano fermata, avevano preso il manubrio della sua bici e il suo corpo aveva smesso di reagire per un istante che le sembrò infinito. “Devi cambiare i copertoni, Gabriella”. Il sangue le riaffiorò dalla punta degli alluci a quella di capelli ormai ritti sulla testa come spini d’istrice. Una gioia pura le attraversò lo sguardo per l’ultima volta nella sua vita, da quel giorno i suoi occhi sarebbero stati perle di ossidiana, taglienti e imperscrutabili e la sua bocca soda e carnosa si sarebbe trasformata in una fessura da cui non far uscire neanche una sillaba che non fosse più che voluta. Lo spavento che aveva provato in quel momento era stato qualcosa di indicibile che le aveva fatto capire che non sarebbe mai e poi mai dovuta cadere nelle grinfie delle camicie nere.
Quel giorno di molti anni dopo, quando un cronista[2] le si avvicinò credendo di coglierla con le mani nel sacco a trasportare fuori dal Parlamento i documenti riservatissimi della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Loggia massonica P2 e si trovò con in mano qualche cipolla e la carne per preparare i tortelli come si deve, ché a Roma non hanno ancora capito come si preparino, ebbe la sensazione che il futuro non ha memoria.
“Non c’è niente che ci può salvare quando si tradisce la storia”, disse a quella camicia nera di rosso bardata, il suo sguardo d’ossidiana fece vacillare quell’uomo che si era permesso di perquisire la borsa alla prima Ministro donna della storia italiana, alla Presidente della Commissione Parlamentare che stava indagando con un prezioso senso del dovere tra le carte necessarie a dimostrare l’esistenza di una loggia deviata della Massoneria che avrebbe portato ad un probabile sovvertimento antidemocratico della Repubblica italiana, di quella Nazione, di quello Stato per cui lei aveva rischiato, pagando il prezzo altissimo di una giovinezza non spensierata ma colma di paure, per la cui salvezza ella aveva trattato coi nazisti in gran segreto di abbandonare il Veneto senza rappresaglie se volevano raggiungere vivi il confine verso la loro patria. Il cronista per un momento, unico e solo nella sua lunga carriera, ebbe la sensazione che il suo ruolo, quello di giornalista, era di informare e conoscere, che forse non ci sarebbe stato bisogno di istituire una Commissione Parlamentare se egli e i suoi colleghi avessero agito in piena coscienza, se si fossero accorti delle strane coincidenze tra nomi e amicizie, se avesse fatto semplicemente e onestamente il proprio dovere. È noto che se tutti quanti agiscono in un modo, si finisce per pensare che quel modo sia normale, che sia giusto perché è socialmente accettabile. Tina ‘Gabriella’ Anselmi si era accorta subito che tra ciò che è giusto e ciò che è socialmente accettabile c’è una gran bella differenza e aveva agito, rischiando, pagando un prezzo molto alto, unendosi alle Brigate Partigiane, combattendo “per difendere la pace” e poi tutelando i diritti di donne, lavoratrici, insegnanti, bambine, perché è nelle famiglie e nella scuola che si apprende il lessico della libertà e della democrazia o dell’oppressione.
“Bisogna non dimenticare – affermava continuamente – ma fare della memoria l’arma pacifica per non ripetere gli errori che hanno portato al fascismo”.
Errori, di valutazione o di azione, come quello delle camicie nere che la costrinsero, lei ancora bambina insieme alle sue compagne di scuola, ad assistere all’impiccagione ingiusta di un gruppo di giovani per rappresaglia, senza che avessero preso parte a qualche azione di guerriglia o di guerra, così, per sfregio, per affermare la loro schifosa viltà, la loro infame codardia. Tina aveva tratto da quell’esperienza l’insegnamento più importante di tutta la sua carriera scolastica, con tutto che poi, finita la guerra, si laureò in Lettere alla Cattolica di Milano per insegnare alle bambine le parole della pace. Aveva compreso che il bene e il male non hanno molto a che fare con il socialmente accettato, seppure non si possa dire di lei ch’ella fosse una rivoluzionaria sessantottina o altro. Piuttosto, una donna con chiaro in testa il concetto di bene e male, con un senso del dovere e una coerenza inflessibili.
C’era tutto questo e molto di più nello sguardo privo di luce e gioia con cui trafisse il cronista che invece di fare il suo mestiere, invece di pretendere che il lavoro giornalistico venisse riconosciuto nella sua importante funzione di garante della democrazia e del rispetto del volere popolare le aveva chiesto di aprire la borsa, le aveva frugato tra cipolle e pezzi di carne con l’aria furbetta da gerarca di second’ordine in camicia nera ritinta di rosso sperando di trovare qualcosa che potesse far gridare per l’ennesima volta alla congiura, al ‘complotto giudaico-massonico’ che vorrebbe rovesciare l’ordine mondiale per la creazione di un nuovo ordine mondiale, senza ricordare che le stesse parole erano state diffuse con stridula voce stentorea durante un buio ventennio della storia italiana cui Tina ‘Gabriella’ Anselmi si era opposta pedalando per oltre cento chilometri al giorno nelle gelide campagne della Marca Trevigiana, rischiando la vita, l’onore, la famiglia e la sua giovinezza.
Mentre il cronista vacillava, per un istante che mai più si sarebbe ripetuto nella sua ottusa e cieca obbedienza a qualunque sistema, a qualsivoglia parola d’ordine, ella cercò di fargli capire che c’è “bisogno che la cultura sia al servizio della verità, una verità che vede ancora [tentativi] di contrabbandare qualcosa che non è parte del nostro patrimonio”.
La staffetta Tina ‘Gabriella’ Anselmi, classe d’acciaio temperato 1927, proseguì la sua strada, a piedi, con la borsa piena di cipolle e di quel pezzo di carne che s’era fatta tagliare apposta da Feroci, a due passi da lì, per fare quei tortelli che le ricordavano il sapore della libertà e le davano il coraggio di andare avanti, nonostante le lettere minatorie, nonostante lo sconforto che le assaliva gli zigomi forti e duri tutte le volte che vedeva sfilare in Commissione tutti coloro che erano espressione di quel potere mercenario che non ha idealità, menefreghista e fascista che si era insidiato fin nei gangli più vitali dello Stato. Lo faceva con spirito di abnegazione pur sapendo in cuor suo che chi le aveva affidato l’incarico, Giulio Andreotti, forse non lo aveva fatto senza un preciso calcolo opportunistico. Non avrebbe saputo indovinare se egli lo avesse fatto in piena coscienza, quando i due si guardavano era più che altro una raffinatissima espressione armigera di fioretto. Parlavano poco, più che altro incrociavano qualche lama che fuoriusciva dalle loro labbra sigillate e sottili. Lei non si curò di sapere quale fosse l’intenzione di Andreotti, guardò, le carte, con molta attenzione e passò, all’azione concreta nella stesura di pesantissimi atti della Commissione Parlamentare che ancor oggi sono macigni irrisolti di una delle più oscure pagine della recente storia italiana.
“Vai avanti, sei una partigiana” le dicevano, mentre le giungevano minacce ‘dall’alto’, le persone nella strada, il popolo che lei si è sempre fregiata di rappresentare con un altissimo senso dello Stato che però non le è mai valso la carica di Presidente della Repubblica Italiana, forse perché una donna capo supremo dello Stato è un tabù che ancora non si riesce ad infrangere. 




[2] NB. L’episodio è liberamente ispirato ad un fatto realmente accaduto mentre il riferimento al cronista o giornalista coinvolto in tale episodio, di cui peraltro non saprei neanche dire il nome, è di pura fantasia e la sua descrizione negativa è meramente funzionale al meccanismo narrativo per mettere in risalto l’onestà intellettuale di Tina Anselmi, senza nulla togliere all’onestà intellettuale e professionale del giornalista effettivamente coinvolto nell’episodio qui romanzato che assolutamente nulla ha in comune con quello qui narrato, e per tratteggiare, per mezzo del contrasto, la tesa e complessa situazione socio-politica del tempo senza alcun riferimento a persone realmente esistite e fatti realmente accaduti  

lunedì 17 ottobre 2016

Senatori 3. Benedetto Croce. Un Muso politico. (bozza)

Benedetto Croce. Un Muso politico.
«Il mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis e degli altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco tutto.»
Benedetto Croce, Lettera a Vittorio Enzo Alfieri del 10 ottobre 1925[1]

Il Monzù Nicola e’ Tricase, al secolo Nicola Micera, aveva messo da parte i denari sufficienti per aprire, nel 1840, un ristorante tutto suo al Vomero. I suoi manicaretti erano ben noti alla nobiltà napoletana che aveva avuto modo di apprezzarli presso i Principi di Tricase dove egli aveva ottenuto l’ambitissimo appellativo di Monzù, capocuoco di corte si potrebbe tradurre, per cui non gli fu difficile attirare clientela facoltosa e quella che a Napoli tuttora si chiama ‘bella gente’. Il nome scelto per l’insegna fu il suo soprannome che, come da gloriosa tradizione italiana, si tramandò di padre in figlio fino a Vincenzo, chiamato Pallino ‘3’ per rispetto generazionale. Ogni Pallino ebbe un tipo di clientela che animava il locale e Pallino 3 si trovò a sfamare, dietro lauto compenso, i più importanti intellettuali del suo tempo, tra cui i Nove Musi che ‘al grato arrivo di Peppino Ceci […] diventaron Dieci’, solennemente riuniti in Società con tanto di statuto e regolamento per il pagamento dei salatissimi conti. Intorno alle squisitezze imbandite da Vincenzo nipote del Monzù Nicola e’ Tricase si era aggregato un vero e proprio circolo intellettuale che esprimeva appieno la cultura convivial-gastronomica del Mediterraneo e le idee più innovative del pensiero, anche politico, contemporaneo. Senza andare a svelare i nomi[2] basterà dire che intorno al tavolo non verde[3] ma imbandito Benedetto Croce chiedeva ad un editore analfabeta che da strillone era riuscito a diventare il più importante e prestigioso editore partenopeo e ad altri intellettuali di criticare la propria produzione letteraria, poco importava ch’egli fosse uno tra gli intellettuali più importanti del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, davanti ad un bel piatto di bucatini con le vongole le differenze si livellavano con la forza di una risata e di una goliardata.





[1] Dalla voce Wikipedia su Benedetto Croce https://it.wikipedia.org/wiki/Benedetto_Croce
[2] I nomi e la storia del cenacolo è facilmente consultabile nella voce su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_dei_Nove_Musi oppure nell’interessante articolo di Massimo Gatta http://archivio.mensamagazine.it/articolo.asp?id=576
[3] Il Tavolo Verde è una coreografia del 1932 di Kurt Joos, considerato il manifesto del teatro-danza e del successivo tanz-theater tedesco di cui Pina Bausch è l’esponente più nota, prima dell’esilio forzato dell’artista nel Regno Unito. Joos mette in scena un distillato di formalismo ed espressionismo tedesco in cui ridicolizza l’abitudine di politicanti d’ogni nazione di decidere i destini degli Stati in un balletto di vanità intorno ad un tavolo da gioco con una modalità stilistica che anticipa di circa otto anni il meravigliosamente orrido balletto di Charlie Chaplin ne Il Grande Dittatore. Nel Grune Tisch jossiano, coreografia di un’attualità sconcertante, i danzatori, tutti maschi, cosa abbastanza rara per quel periodo, indossano eleganti abiti neri, guanti, ghette e maschera bianchi. https://www.youtube.com/watch?v=t5BUkCd2Hfw  

domenica 16 ottobre 2016

Senatori 2. Ferruccio Parri. Il senso garibaldino e resistente dello Stato. (bozza)

Ferruccio Parri. Il senso garibaldino e resistente dello Stato.

Spinge ai monti questa idea, questo spirito, animatore di un movimento molto ampio; non una sommossa, non un sussulto estemporaneo di ribellione, di pochi individui; è un vero movimento di liberazione, superiore a quella che potrebbe definirsi una normale guerra di liberazione patriottica, è un movimento che contiene come movente una necessità politica e morale più ampia: liberare il Paese e dare ad esso un altro stato, un altro reggimento, altre visuali, altre prospettive, altri ideali.

La Costituzione è ancora portata da questa onda, e presenta veramente la fisionomia e la natura di un ultimo grande CLN, in cui la rappresentanza politica non è in ragione della forza numerica, ma in ragione della rappresentanza di un settore di idee, e la Costituzione non è né monolitica né si regge su compromessi, ma su mediazioni, i cui termini essa riprende dalla lotta e ripete, come legge dello Stato, come linguaggio comune per tutti noi
Senatore Ferruccio Parri, 27 aprile 1965 [1]

L’Ufficiale di Stato Maggiore Ferruccio Parri quel giorno si chiese a cosa fosse servita la sua laurea in Lettere, cosa avrebbe potuto e dovuto insegnare ai suoi allievi e perché quelle tre ferite di guerra avessero improvvisamente deciso di dolergli in quel modo atroce. Non voleva ammettere che quei vigliacchi in camicia nera lo avevano colpito proprio sulle cicatrici che gli rammentavano ogni giorno, come se ce ne fosse stato bisogno, che l’Italia è la sua Patria e che la Patria non è uno scherzo, è qualcosa che si difende anche con le baionette e i cannoni, se necessario, e nel 1915-1918 era stato necessario. Le sue innumerevoli medaglie al valore non avevano attutito il dolore dei colpi inferti paradossalmente più al suo spirito che al suo corpo. Durante la Grande Guerra aveva trovato un modo per non sentire il dolore, lo aveva messo a punto dopo la prima volta che era stato ferito in battaglia e lo aveva perfezionato la seconda e quindi la terza. Concentrava il respiro sul punto che più gli faceva male e pensava a Sandokan, agli eroi raccontati da Emilio Salgari, che allietavano le sue fantasie, immaginava il rumore del mare e gli sembrava di poter sentire il vento tra i filari delle viti e sulla neve fresca che aveva il sapore della giovinezza. Ne aveva messi in riga parecchi, lui, di facinorosi arroganti e attaccabrighe. Non si aspettava, o forse non fino in fondo, che sarebbero giunti a picchiare un militare pluridecorato del suo rango e invece gli arditi avevano subito mostrato la loro codardia e più leggevano fierezza nei suoi occhi allenati al sacrificio stoico dalla guerra e dalla cultura più si incarognivano nella loro vigliaccheria che sembrava ingigantirsi sempre più di fronte al suo coraggio e alla sua forza d’animo e fisica. Erano stati talmente ignobili da cercare quelle ferite per colpire proprio lì dove più delicata era la sua pelle, più dolorosi i colpi, più faticosa la capacità di sopportazione. Non aveva parlato, non aveva emesso un gemito che fosse uno, non avrebbe dato a quella feccia criminale il minimo spunto per vantarsi. Un italiano, un piemontese, ha più forza e amor di Patria di dieci eserciti messi insieme, figurarsi di una squadraccia di ignobili vili senza ideali, senza rispetto e senza scrupoli, avidi di abusi e niente più. Ciò che lo aveva ferito, e questo doveva proprio ammetterlo, era lo svilimento dello Stato, ma questo lo aveva già subodorato, anni prima, quando nel 1925 aveva dovuto allontanarsi, nonostante le richieste del direttore Luigi Albertini, dalla prestigiosissima redazione del Corriere della Sera per discordanze ideologiche. Insieme ai maltrattamenti gli comunicavano che gli avevano tolto anche il posto di insegnante per non aver preso la tessera del partito ma l’umiliazione di essere malmenato come il più infimo delinquente da un branco di criminali gli bruciava più di quanto volesse ammettere. Gli avrebbe fornito anche la motivazione, beninteso, per guidare la Resistenza, per sopportare le violenze e le ingiustizie delle SS, per tollerare l’orrore del campo di concentramento di Bolzano e per riprendere a combattere contro i nemici dello Stato e di quell’Italia che egli aveva contribuito a creare e difendere. Gli sgherri in camicia nera erano e sono rimaste nullità. Ferruccio Parri, Padre della Patria, non ha mai lasciato che qualche bravaccio gli togliesse la dignità di essere fieramente italiano.
Quello era un avvertimento che lui interpretò in modo diametralmente opposto a come avrebbero voluto i suoi poco fantasiosi aguzzini. Nel 1926 aiutò Filippo Turati, insieme a Carlo Rosselli, Lorenzo De Bova e Sandro Pertini, a fuggire verso la Francia con una rocambolesca traversata del Mar Ligure in motoscafo e per questo lo arrestarono.
“Vostro Onore – arringò il suo avvocato Vittorio Luzzati – nel giudicare questo caso, che accusa il mio assistito di svolgere intensa attività socialista, di essere collaboratore di giornali antifascisti italiani e stranieri, nonché di aver favorito l'espatrio di Filippo Turati, vorrei ricordare che l’imputato è stato insignito di ben tre medaglie d’argento al valor militare, coraggiosamente guadagnate in battaglia durante la Guerra…”
“Se considero l’Italia attuale – lo interruppe Ferruccio Parri – io mi vergogno delle mie decorazioni!”
Di fronte ad un tribunale ingiusto e iniquo un’affermazione del genere ebbe l’effetto di una condanna a dieci mesi di carcere e cinque anni di confino a Ustica, Lipari e Vallo della Lucania, che ovviamente non piegarono lo spirito guerresco e testardo dell’Ufficiale di Stato Maggiore Parri.
Molti anni trascorsero da quel primo agguato vigliacco e vile, parecchie di quelle camicie nere passarono poi dall’altra parte della barricata strillando contro i loro stessi camerati, altre vennero uccise nel motto ‘se vedi un punto nero spara a vista, o è un prete o è un fascista’, molti morirono nella vergogna di aver svilito lo Stato e moltissimi altri non compresero la gravità delle loro azioni. Svilire il senso dello Stato, attuare un sovvertimento di principi fondamentali di giustizia e libertà su cui si fonda, per noncuranza, menefreghismo o peggio ancora per ‘moda’ è gravissimo e il Professor Ferruccio Parri non smise mai di ripeterlo ai suoi giovani allievi o ai non giovanissimi senatori e deputati italiani cui non poche volte dovette ‘tirare le orecchie’, in qualità di Presidente del Consiglio o di Presidente del Senato, e ricordare che sedere su uno scranno parlamentare è un onere e un onore e non un privilegio da conquistare con la corruzione e mediante favoreggiamenti di quelle associazioni a delinque di stampo mafioso che egli combatté con la medesima foga con cui si lanciò contro i criminali in camicia nera.

A me, vecchio compagno vostro, che conosce la storia del Senato ed anche la storia d'Italia, sarebbe difficile non sentire in questo momento che cosa voi rappresentate e quale è e sarà il nostro compito. Questo sarà certamente difficile, ma difficile nel senso che esigerà degli sforzi, delle visioni d'insieme delle misure della capacità globale del popolo italiano, che vi permetterà di lasciare nella storia il ricordo grande di questa nuova unione delle forze nazionali. È questa la speranza, è questo il desiderio di quest'ora: che il Senato sappia interpretare le necessità delle masse, le necessità di chi ha bisogno, sappia interpretare la sete, la volontà di giustizia che anima il popolo italiano, che esige questa stessa mentalità, questo spirito in chi ne regge il governo, che vuole questa capacità di superare le posizioni e le resistenze dei singoli ed anche dei singoli partiti, che sa che occorre uno spirito nuovo per creare una fase nuova anche della storia del Senato, e perché  questa rimanga come un momento felice di intuizioni nuove e di consenso.” [2]



[1] Ferruccio Parri, IV Legislatura, Resoconto Stenografico 282ma Seduta Pubblica, 27 aprile 1965, Senato della Repubblica http://www.senatoperiragazzi.it/media/Documenti/italiani/fascicolo_parri_torino_web.pdf
[2] Ferruccio Parri, Discorso del Presidente Provvisorio del Senato, VII Legislatura, Resoconto Stenografico, 5 luglio 1976 http://www.senatoperiragazzi.it/media/Documenti/italiani/fascicolo_parri_torino_web.pdf

sabato 15 ottobre 2016

Senatori 1. Enrico De Nicola. Un morto che cammina salva la Repubblica Italiana. (bozza)

Un morto che cammina salva la Repubblica

«La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l'Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini. […] La vera pace – disse un saggio – è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si dimenticano e sui rancori che ne sono l'inevitabile retaggio. La Costituzione della Repubblica italiana – che mi auguro sia approvata dall'Assemblea, col più largo suffragio, entro il termine ordinario preveduto dalla legge – sarà certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato siano egualmente garantiti, trarrà dal passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i principi fondamentali, che la legislazione ordinaria – attribuendo al lavoro il posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza nazionale – dovrà in seguito svolgere e disciplinare.»[1]

Il fantasma della terribile, vogliosa e irascibile Regina Giovanna quel giorno del 1929 si aggirava tra le mura del castello angioino di Afragola per godersi uno spettacolo degno delle sue più turpi fantasticherie. Come è ben noto ella era una lussuriosa che non si faceva scrupolo ad individuare tra i più giovani del contado i suoi amanti per poi darli in pasto a quel dannato coccodrillo che aspettava a fauci spalancate sotto la segreta botola nel Maschio Angioino. Sembrava si divertisse ad incarnare i sette vizi capitali nell’affermazione del suo potere temporale, donna spregiudicata e malvagia che trovava nelle terre napoletane un godimento speciale tale per cui, anche dopo mezzo millennio, ancora si aggirava tra quei territori che ben prima furono abitati dai raffinati e fieri Sanniti i quali, dal canto loro, non avevano esitato ad infliggere ai romani, che li annientarono dopo tale affronto, la gogna delle Forche caudine. Quello sarebbe stato l’anno del suo cinquecentocinquaseiesimo compleanno ma non si chiede mai l’età ad una vera signora che per dimostrare la sua signorilità non mancò di presenziare a quell’evento tanto macabro da essere per lei un gran divertimento. C’erano proprio tutti, dai bambini cenciosi agli adolescenti pieni di fame e coi calzoni corti, dai giovani tutti muscoli e ormoni ai vecchi imbacuccati nelle loro superstizioni. Il banco del lotto aveva fatto in un giorno le giocate di un intero anno e forse pure di più. Dalle chiese del paese era un continuo andirivieni coi ceri, o meglio i moccoli ché di ceri ce n’erano già pochi, non che si fosse sentita la crisi americana, gli Stati Uniti erano lontani e lo sapevano bene quelli che avevano perduto nel grande oceano familiari vicini e tanto lontani quando c’era da ricevere qualche lira in più per tirare a campare dignitosamente. Le cartoline sì, quelle arrivavano puntualmente, con zucche grandi quanto un monello, tutto era grande nell’America e si stava bene ma in Italia non si poteva dire per non offendere l’italianità. Pure quella musichetta allegra era vietata, proibita, ma tanto il grammofono e la radio, chi ce l’aveva? soltanto i discendenti della Regina Giovanna mica la povera gente che andava a faticare e sapeva che la terra è bassa e la pentola vuota è triste. I uagliuncelli stavano tutti spazzolati, coi calzoni corti, le ginocchia livide e le occhiaie scure scure, negli sguardi i disegni futuristici della propaganda e il disfattismo della povertà, e bisognava pure stare attenti perché l’accusa di disfattismo poteva portare dritto dritto nella caserma e da lì se uscivi ed eri ancora in condizione di lavorare era un miracolo che giusto Sant’Antonio poteva fare. Le camicie nere erano schierate, i più giovani erano vestiti da balilla e piccole italiane, bisognava stare attenti a non far vedere che la stoffa delle divise era lisa sennò l’appellativo di disfattista rimaneva impresso come una lettera di fuoco sulla pelle. Il municipio era stato bardato a festa per la grande occasione, con bei drappi neri, guai a dire che erano lugubri per carità e tanto meno farsi sorprendere nelle discussioni sul numero da giocare tra: ‘32 morto che cammina’, ‘40 morto per strada’, ’47 morto che parla’, ’13 morte’, il ’44 morte voluta’ era da scrivere su un pizzino e la giocata veniva poi nascosta con uno stratagemma, il rischio era di bersi una bella bottiglia di olio di ricino nell’ufficio del Podestà e non c’era tanto da ridere ma un evento così e quando sarebbe ricapitato? La cerimonia richiedeva ovviamente un comitato civico per i festeggiamenti e venne chiamato il giostraio, vennero montate le luci, ci furono i bruscolini e le noccioline calde, i dolciumi per la strada, avevano lo stesso impasto di quelli che si facevano il 2 novembre ma la forma era diversa, per rispetto non era chiaro se per le anime dei defunti o per quella del Senatore del Regno d’Italia Enrico De Nicola. La fanfara si muoveva solenne per le vie del paese, richiamando, come se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione della popolazione. Guai a non presenziare alle adunate, questo era ben noto, ma, sinceramente a nessuno, neppure alla Regina Giovanna sarebbe venuto in mente di non partecipare a quella festa tanto singolare. Siccome riunirsi in crocicchi era proibito, i uaglioncelli quel giorno svolsero l’importantissimo ruolo di staffette per stabilire quale fosse il significato preciso e dunque consultare correttamente la Smorfia. Taluni, per non sbagliarsi, avevano interpellato pure qualche ebreo, di straforo, per sapere se ci fosse qualche indicazione dalla Cabbala, mentre altri avevano pensato che consultare gli ebrei avrebbe potuto indispettire i santi e soprattutto la Santa Madre Vergine di Gesù che nel suo infinito dolore male avrebbe accolto le suppliche di chi era andato a chiedere prima ai discendenti di chi era di fatto un mandante degli assassini di suo Figlio, non era educato. Nessuno si era avvicinato al castello, sentivano, in cuor loro, che la perfida Regina Giovanna non si sarebbe persa quello spettacolo e si tenevano alla larga, istintivamente. La banda intonò gli inni di rito, proseguì il concerto con una marcia funebre e concluse con una marcetta allegramente e solidamente patriottica. Il Podestà, col suo bel fez a coprire una implacabile quanto precoce calvizie, sulla camicia nera che metteva in risalto una ben nutrita pancia da allenato bevitore aveva appuntato una medaglia guadagnata in gioventù in una corsa podistica. Con gesto teatralmente solenne svelò la targa, un lampo di repressa e codarda ironia gli attraversò lo sguardo miope da sorcio, con tutto il rispetto per i topi, il drappo nero rischiò di coprirlo e di scatenare una reazione di ilarità diffusa che avrebbe causato una feroce repressione, il Senatore del Regno Enrico De Nicola invece di indurire i suoi occhi fieri, li illuminò con la più placida e signorile ironia, ringraziò il Podestà per la bella trovata di avergli voluto intitolare una strada, sebbene, affermò, con studiata umiltà che gli valse la sconfinata ammirazione dell’intero paese, di essere onorato di poter leggere sul duro marmo il suo nome anche se non pensava di essere tanto importante e di essere tenuto in tale considerazione dal Re e di buon grado accettò la cittadinanza onoraria di Afragola, in un boato di applausi che sommerse di ridicolo chi aveva voluto giocargli un brutto tiro.
A distanza di diciassette anni da quell’increscioso accadimento il Senatore del Regno Enrico De Nicola avrebbe pronunciato, in qualità di Capo Provvisorio del Governo, queste parole che ebbero la forza marmorea della libertà e della dignità e rimasero scolpite nella memoria delle generazioni a venire, se la memoria ha un futuro. 

«Per l'Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All'opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe. Dobbiamo avere la coscienza dell'unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s'ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell'abisso per non risollevarci mai più»[2]




[1] Discorso all’Assemblea Costituente inviato da Enrico De Nicola, Capo Provvisorio dello Stato [Fonte: Wikipedia]
[2] Messaggio d'insediamento di Enrico De Nicola nella carica di Capo Provvisorio dello Stato, 15 luglio 1946 [Fonte: Wikipedia]

venerdì 14 ottobre 2016

Il sesto senso di Francesco Antonio Grue * La rivolta degli artisti

La piccola carovana dovette fermarsi e constatare che il borgo quella mattina sembrava deserto, non c’erano neanche i topi rincorsi dai gatti e nessun cane a cacciare i docili felini. Non si sentivano scalpelli sul ferro o mestoli a rimestare nei paioli e la neve che, come è ben noto, quando cade non fa rumore si posava lieve sull’acciottolato e sui tetti. Le montagne d’intorno tacevano e il gorgogliare di ruscelli e fiumi era attutito da uno spesso strato di ghiaccio su cui gli scoiattoli neri solitamente si divertivano a rincorrere ghiande e altre ghiottonerie. Avevano viaggiato per dieci giorni e, per percorrere quell’ultimo tratto di strada, non si erano neppure fermati durante la notte, affrontando pericoli e freddo, senza neanche accorgersene erano arrivati quando anche i topi e i gatti stavano riposando, proprio in quell’ora magica che precede l’albeggiare in cui gli uccelli che cantano per svegliare il sole non sono ancor desti, quelli notturni hanno placato i loro rapaci istinti e la natura sembra immota. Non c’era dunque da stupirsi se quelli che di primo acchito sembravano cittadini provenienti dalla capitale del Regno di Napoli avessero trovato tutto silente e non dovettero attendere poi tanto per rivedere la normale placida frenesia che precede le feste civili animare il borgo abbarbicato tra il Monte Camicia e il Gran Sasso. Il tempo è uno strano compagno di viaggio, sembra lunghissimo quando ci si annoia e si è impazienti di giungere a destinazione ma troppo breve quando si ha voglia di restare, infinito quando si ama e tiranno quando si deve salutare la persona amata. In quell’ora di un giorno che non ricordava del 1716 Francesco Antonio ebbe la sensazione che gli orologi fossero d’improvviso divenuti suoi nemici, che le campane, finanche quelle di finissimo bronzo agnonese fossero cattive e traditrici, che gli uccellini avessero congiurato contro di lui e che il Sole avesse deciso, per fargli dispetto, di vivere in una perenne eclissi. Ma perché non voleva far giorno e soprattutto perché a Castelli tutto taceva? Cecco, il garzone di bottega che lo accompagnava ovunque essendo diventato nel corso degli anni più che altro un suo inseparabile compagno di avventure, cercava, con un occhio faticosamente aperto e l’altro appapagnato dal gran sonno di un viaggio tanto assurdo in cui avevano più volte rischiato di dover cambiare cavalli e cavalcatura per evidente stanchezza delle povere e fide bestiole, di spiegargli che a quell’ora cosa poteva pretendere? Che gli abitanti del borgo fossero rimasti svegli per lui che neanche aveva annunciato a parenti e amici più cari il suo arrivo per far loro una sorpresa? Per quanto la logica del quasi dormiente Cecco fosse giusta e nonostante egli cercasse invano di approfittare di quegli istanti per cadere addormentato, Francesco Antonio continuò a tormentarlo svegliandolo e strattonandolo fuori dalle accoglienti braccia di Morfeo appena produceva quel suono tipico di chi, stanco e stremato, trova finalmente riposo e con ritmo talvolta cadenzato e sovente altalenante russa della grossa. Era stato lontano dalla sua terra per tanto tempo, la sua vita aveva superato avversità rocambolesche, si vociferava che fosse addirittura finito nelle regie galere, anche se le dicerie sono sempre da verificare e spesso, nonostante le bugie abbiano le gambe più frequentemente lunghe che corte, sfatare del tutto. Certo aveva visto e conosciuto persone, ambienti, bellezze e meraviglie che i suoi compaesani potevano soltanto immaginare con la delicata fantasia che era alla base dell’economia di Castelli, ma lui non riusciva a pensare ad altro che alla sua terra d’Abruzzo, alle montagne che proteggevano il cocuzzolo su cui era costruito il borgo che aveva la forma di un bellissimo occhio giottesco. Quando, finalmente, uno scoiattolo si accorse di lui ebbe un fremito di piacere e il povero e insonnolito Cecco un attimo di respiro. Il roditore con la lunga coda pelosa si stancò ben presto di quell’impazienza e tornò tra i suoi alberi a cercar ghiande con grande pena per Cecco che si sentì ridestare per l’ennesima volta dalla furia indiavolata di Francesco Antonio. Il motivo di tante fregole non l’aveva proprio capito e in quei giorni di viaggio forsennato aveva più volte cercato di scandagliare il fondo della sua memoria alla ricerca di qualche indizio, un incontro o una frase riferita da qualche valletto, ma niente, non era proprio riuscito a spiegarsi perché avesse di punto in bianco preparato bauli, attrezzature e avesse deciso di tornare a Castelli. Dal canto suo il mastro maiolicaro non gli aveva detto niente e neanche lui sapeva bene perché, sapeva soltanto che doveva andare, doveva tornare nella sua terra. D’improvviso e senza un motivo, seguendo quell’istinto che tante volte gli aveva salvato la vita e molte altre lo aveva portato fin nei più raffinati palazzi del reame per dipingere piatti, vasi e altri oggetti nella cui decorazione egli eccelleva al punto da avere una folta schiera di imitatori che troppo spesso gli copiavano motivi e disegni originali, aveva sentito il bisogno, la necessità di tornare in quella che egli aveva e avrebbe sempre considerato la sua vera patria. Era talmente assorto nella sua impazienza da non essersi accorto che le finestre del borgo lo stavano osservando fino a che non udì distintamente il rumore della neve scrollata da uno scuro e sentì chiamarsi con l’imperiosa dolcezza di quando era ancora un bambino coi calzoncini corti. A quel richiamo familiare risposero le altre abitazioni sbadigliando nell’aria gelida il tepore della notte trascorsa al riparo dalle intemperie e Cecco tirò finalmente un sospiro di sollievo, presagendo una tazza di latte o di caldo brodo, acqua cotta con qualche erba aromatica, se andava bene una manciata di legumi e l’insapurituro, osso di prosciutto che veniva passato di casa in casa per dare parvenza di sostanza alla povertà. Non che a Castelli si fosse mai veramente saputo cosa volesse dire essere poveri, non era come in altre terre d’Abruzzo schiacciate dall’ingorda prepotenza di signorotti locali, c’era sempre stata la dignità del saper fare e una gloriosa tradizione, che prosegue ancor oggi, di abili ceramisti e maiolicari, però l’insonnolito e infreddolito Cecco così immaginava una tazza di brodo caldo. Quale fu la sua sorpresa quando si vide mettere davanti al naso una bella tazzona di latte con un ovetto sbattuto, pane bianco, salame e formaggio è facile immaginare, d’un tratto il freddo e la fatica si allontanarono dalle sue ossa per lasciar posto ad una vorace allegrezza. Francesco Antonio sorbì di gusto una tazza di latte caldo con una fetta di pane e burro ma l’appetito gli si smorzò alla bocca dello stomaco appena capì che il suo sesto senso aveva funzionato alla perfezione e lesse nell’inquietudine degli sguardi e nell’ostentazione con cui si mostrava la non povertà dell’abitazione che qualcosa di assai importante stava preoccupando i suoi compaesani. Lasciò dunque Cecco al calduccio a riposare e senza indugio si recò nella bottega dov’era stato garzone, con la scusa di salutare e mostrare nuovi decori in auge alla Corte di Napoli. Fu accolto con un sorriso che non chiedeva spiegazioni e in men che non si dica venne messo a conoscenza del problema che angustiava Castelli: il marchese Ferdinando Alarcón y Mendoza accampava diritti di tassazione sulla produzione delle maioliche e questo avrebbe ridotto la popolazione alla miseria, come era accaduto in altre parti d’Abruzzo. Bisognava agire, far qualcosa, ma cosa? Il marchese era potente e godeva della regia protezione, non v’era possibilità di opporsi al suo volere senza rischiare la distruzione e la riduzione in cenere dell’intero paese. Francesco Antonio stette in silenzio, pensò alla sua fuga dal convento quando suo padre aveva deciso di farlo diventar prete, ricordò molte delle sue avventure in terre lontane e cercò di raccogliere le idee per inquadrare le opposizioni e le alleanze del marchese. Vecchio e Nuovo Continente erano in fermento, le idee di libertà cominciavano a circolare più o meno apertamente ma non c’era ancora il terrore delle rivolte popolari che avrebbe fatto seguito alla Rivoluzione francese, il re, dal canto suo, non avrebbe ben tollerato il massacro di chi tanto abilmente decorava piatti, vasi e porcellane che le dame di corte tanto amavano. Non ci fu bisogno di parole. In men che non si dica bottegai e garzoni, gente povera o benestante si riunì, vicino a quel monastero dove quasi due secoli dopo sarebbe sorta una delle più importanti e meglio funzionanti scuole d’Italia che porta il nome di Francesco Grue, parente di Francesco Antonio, e con la forza della fede si oppose alle vessazioni. Il marchese cercò di sedare con la violenza la rivolta ma Francesco Antonio aveva appreso il linguaggio di potenti e cortigiani, parlò, si fece capire, la sommossa crebbe in forza e intensità, il popolo era deciso a non fare un passo indietro con tutta la proverbiale testardaggine abruzzese, il marchese forzò con le armi sulle stradine ghiacciate e irte di pericoli, il popolo di Castelli si unì e divenne un sol corpo, Francesco Antonio soppesò le parole, trovò i punti deboli, il marchese si impuntò contro un popolo fiero che neanche gli antichi romani erano riusciti a piegare al proprio volere e che era riuscito a farsi rispettare finanche dagli eserciti imperiali, Francesco Antonio usò la lingua con la forza delle lame di Toledo e il marchese capì, mollò la presa, continuò ad esigere gabelle ma non provò più a tartassare e distruggere i castellani.

Cecco non seppe mai come ebbe fatto Francesco Antonio a capire che era il momento di tornare a Castelli ma da quel giorno si affezionò un po’ di più a quel mastro ceramista con le montagne nello sguardo ed ebbe un nuovo amico, uno scoiattolo nero dal lungo pelo che aveva deciso di seguirli nelle loro imprese.