venerdì 14 ottobre 2016

Il sesto senso di Francesco Antonio Grue * La rivolta degli artisti

La piccola carovana dovette fermarsi e constatare che il borgo quella mattina sembrava deserto, non c’erano neanche i topi rincorsi dai gatti e nessun cane a cacciare i docili felini. Non si sentivano scalpelli sul ferro o mestoli a rimestare nei paioli e la neve che, come è ben noto, quando cade non fa rumore si posava lieve sull’acciottolato e sui tetti. Le montagne d’intorno tacevano e il gorgogliare di ruscelli e fiumi era attutito da uno spesso strato di ghiaccio su cui gli scoiattoli neri solitamente si divertivano a rincorrere ghiande e altre ghiottonerie. Avevano viaggiato per dieci giorni e, per percorrere quell’ultimo tratto di strada, non si erano neppure fermati durante la notte, affrontando pericoli e freddo, senza neanche accorgersene erano arrivati quando anche i topi e i gatti stavano riposando, proprio in quell’ora magica che precede l’albeggiare in cui gli uccelli che cantano per svegliare il sole non sono ancor desti, quelli notturni hanno placato i loro rapaci istinti e la natura sembra immota. Non c’era dunque da stupirsi se quelli che di primo acchito sembravano cittadini provenienti dalla capitale del Regno di Napoli avessero trovato tutto silente e non dovettero attendere poi tanto per rivedere la normale placida frenesia che precede le feste civili animare il borgo abbarbicato tra il Monte Camicia e il Gran Sasso. Il tempo è uno strano compagno di viaggio, sembra lunghissimo quando ci si annoia e si è impazienti di giungere a destinazione ma troppo breve quando si ha voglia di restare, infinito quando si ama e tiranno quando si deve salutare la persona amata. In quell’ora di un giorno che non ricordava del 1716 Francesco Antonio ebbe la sensazione che gli orologi fossero d’improvviso divenuti suoi nemici, che le campane, finanche quelle di finissimo bronzo agnonese fossero cattive e traditrici, che gli uccellini avessero congiurato contro di lui e che il Sole avesse deciso, per fargli dispetto, di vivere in una perenne eclissi. Ma perché non voleva far giorno e soprattutto perché a Castelli tutto taceva? Cecco, il garzone di bottega che lo accompagnava ovunque essendo diventato nel corso degli anni più che altro un suo inseparabile compagno di avventure, cercava, con un occhio faticosamente aperto e l’altro appapagnato dal gran sonno di un viaggio tanto assurdo in cui avevano più volte rischiato di dover cambiare cavalli e cavalcatura per evidente stanchezza delle povere e fide bestiole, di spiegargli che a quell’ora cosa poteva pretendere? Che gli abitanti del borgo fossero rimasti svegli per lui che neanche aveva annunciato a parenti e amici più cari il suo arrivo per far loro una sorpresa? Per quanto la logica del quasi dormiente Cecco fosse giusta e nonostante egli cercasse invano di approfittare di quegli istanti per cadere addormentato, Francesco Antonio continuò a tormentarlo svegliandolo e strattonandolo fuori dalle accoglienti braccia di Morfeo appena produceva quel suono tipico di chi, stanco e stremato, trova finalmente riposo e con ritmo talvolta cadenzato e sovente altalenante russa della grossa. Era stato lontano dalla sua terra per tanto tempo, la sua vita aveva superato avversità rocambolesche, si vociferava che fosse addirittura finito nelle regie galere, anche se le dicerie sono sempre da verificare e spesso, nonostante le bugie abbiano le gambe più frequentemente lunghe che corte, sfatare del tutto. Certo aveva visto e conosciuto persone, ambienti, bellezze e meraviglie che i suoi compaesani potevano soltanto immaginare con la delicata fantasia che era alla base dell’economia di Castelli, ma lui non riusciva a pensare ad altro che alla sua terra d’Abruzzo, alle montagne che proteggevano il cocuzzolo su cui era costruito il borgo che aveva la forma di un bellissimo occhio giottesco. Quando, finalmente, uno scoiattolo si accorse di lui ebbe un fremito di piacere e il povero e insonnolito Cecco un attimo di respiro. Il roditore con la lunga coda pelosa si stancò ben presto di quell’impazienza e tornò tra i suoi alberi a cercar ghiande con grande pena per Cecco che si sentì ridestare per l’ennesima volta dalla furia indiavolata di Francesco Antonio. Il motivo di tante fregole non l’aveva proprio capito e in quei giorni di viaggio forsennato aveva più volte cercato di scandagliare il fondo della sua memoria alla ricerca di qualche indizio, un incontro o una frase riferita da qualche valletto, ma niente, non era proprio riuscito a spiegarsi perché avesse di punto in bianco preparato bauli, attrezzature e avesse deciso di tornare a Castelli. Dal canto suo il mastro maiolicaro non gli aveva detto niente e neanche lui sapeva bene perché, sapeva soltanto che doveva andare, doveva tornare nella sua terra. D’improvviso e senza un motivo, seguendo quell’istinto che tante volte gli aveva salvato la vita e molte altre lo aveva portato fin nei più raffinati palazzi del reame per dipingere piatti, vasi e altri oggetti nella cui decorazione egli eccelleva al punto da avere una folta schiera di imitatori che troppo spesso gli copiavano motivi e disegni originali, aveva sentito il bisogno, la necessità di tornare in quella che egli aveva e avrebbe sempre considerato la sua vera patria. Era talmente assorto nella sua impazienza da non essersi accorto che le finestre del borgo lo stavano osservando fino a che non udì distintamente il rumore della neve scrollata da uno scuro e sentì chiamarsi con l’imperiosa dolcezza di quando era ancora un bambino coi calzoncini corti. A quel richiamo familiare risposero le altre abitazioni sbadigliando nell’aria gelida il tepore della notte trascorsa al riparo dalle intemperie e Cecco tirò finalmente un sospiro di sollievo, presagendo una tazza di latte o di caldo brodo, acqua cotta con qualche erba aromatica, se andava bene una manciata di legumi e l’insapurituro, osso di prosciutto che veniva passato di casa in casa per dare parvenza di sostanza alla povertà. Non che a Castelli si fosse mai veramente saputo cosa volesse dire essere poveri, non era come in altre terre d’Abruzzo schiacciate dall’ingorda prepotenza di signorotti locali, c’era sempre stata la dignità del saper fare e una gloriosa tradizione, che prosegue ancor oggi, di abili ceramisti e maiolicari, però l’insonnolito e infreddolito Cecco così immaginava una tazza di brodo caldo. Quale fu la sua sorpresa quando si vide mettere davanti al naso una bella tazzona di latte con un ovetto sbattuto, pane bianco, salame e formaggio è facile immaginare, d’un tratto il freddo e la fatica si allontanarono dalle sue ossa per lasciar posto ad una vorace allegrezza. Francesco Antonio sorbì di gusto una tazza di latte caldo con una fetta di pane e burro ma l’appetito gli si smorzò alla bocca dello stomaco appena capì che il suo sesto senso aveva funzionato alla perfezione e lesse nell’inquietudine degli sguardi e nell’ostentazione con cui si mostrava la non povertà dell’abitazione che qualcosa di assai importante stava preoccupando i suoi compaesani. Lasciò dunque Cecco al calduccio a riposare e senza indugio si recò nella bottega dov’era stato garzone, con la scusa di salutare e mostrare nuovi decori in auge alla Corte di Napoli. Fu accolto con un sorriso che non chiedeva spiegazioni e in men che non si dica venne messo a conoscenza del problema che angustiava Castelli: il marchese Ferdinando Alarcón y Mendoza accampava diritti di tassazione sulla produzione delle maioliche e questo avrebbe ridotto la popolazione alla miseria, come era accaduto in altre parti d’Abruzzo. Bisognava agire, far qualcosa, ma cosa? Il marchese era potente e godeva della regia protezione, non v’era possibilità di opporsi al suo volere senza rischiare la distruzione e la riduzione in cenere dell’intero paese. Francesco Antonio stette in silenzio, pensò alla sua fuga dal convento quando suo padre aveva deciso di farlo diventar prete, ricordò molte delle sue avventure in terre lontane e cercò di raccogliere le idee per inquadrare le opposizioni e le alleanze del marchese. Vecchio e Nuovo Continente erano in fermento, le idee di libertà cominciavano a circolare più o meno apertamente ma non c’era ancora il terrore delle rivolte popolari che avrebbe fatto seguito alla Rivoluzione francese, il re, dal canto suo, non avrebbe ben tollerato il massacro di chi tanto abilmente decorava piatti, vasi e porcellane che le dame di corte tanto amavano. Non ci fu bisogno di parole. In men che non si dica bottegai e garzoni, gente povera o benestante si riunì, vicino a quel monastero dove quasi due secoli dopo sarebbe sorta una delle più importanti e meglio funzionanti scuole d’Italia che porta il nome di Francesco Grue, parente di Francesco Antonio, e con la forza della fede si oppose alle vessazioni. Il marchese cercò di sedare con la violenza la rivolta ma Francesco Antonio aveva appreso il linguaggio di potenti e cortigiani, parlò, si fece capire, la sommossa crebbe in forza e intensità, il popolo era deciso a non fare un passo indietro con tutta la proverbiale testardaggine abruzzese, il marchese forzò con le armi sulle stradine ghiacciate e irte di pericoli, il popolo di Castelli si unì e divenne un sol corpo, Francesco Antonio soppesò le parole, trovò i punti deboli, il marchese si impuntò contro un popolo fiero che neanche gli antichi romani erano riusciti a piegare al proprio volere e che era riuscito a farsi rispettare finanche dagli eserciti imperiali, Francesco Antonio usò la lingua con la forza delle lame di Toledo e il marchese capì, mollò la presa, continuò ad esigere gabelle ma non provò più a tartassare e distruggere i castellani.

Cecco non seppe mai come ebbe fatto Francesco Antonio a capire che era il momento di tornare a Castelli ma da quel giorno si affezionò un po’ di più a quel mastro ceramista con le montagne nello sguardo ed ebbe un nuovo amico, uno scoiattolo nero dal lungo pelo che aveva deciso di seguirli nelle loro imprese. 

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