La piccola carovana dovette fermarsi e
constatare che il borgo quella mattina sembrava deserto, non c’erano neanche i
topi rincorsi dai gatti e nessun cane a cacciare i docili felini. Non si
sentivano scalpelli sul ferro o mestoli a rimestare nei paioli e la neve che,
come è ben noto, quando cade non fa rumore si posava lieve sull’acciottolato e
sui tetti. Le montagne d’intorno tacevano e il gorgogliare di ruscelli e fiumi
era attutito da uno spesso strato di ghiaccio su cui gli scoiattoli neri
solitamente si divertivano a rincorrere ghiande e altre ghiottonerie. Avevano
viaggiato per dieci giorni e, per percorrere quell’ultimo tratto di strada, non
si erano neppure fermati durante la notte, affrontando pericoli e freddo, senza
neanche accorgersene erano arrivati quando anche i topi e i gatti stavano
riposando, proprio in quell’ora magica che precede l’albeggiare in cui gli
uccelli che cantano per svegliare il sole non sono ancor desti, quelli notturni
hanno placato i loro rapaci istinti e la natura sembra immota. Non c’era dunque
da stupirsi se quelli che di primo acchito sembravano cittadini provenienti
dalla capitale del Regno di Napoli avessero trovato tutto silente e non
dovettero attendere poi tanto per rivedere la normale placida frenesia che
precede le feste civili animare il borgo abbarbicato tra il Monte Camicia e il
Gran Sasso. Il tempo è uno strano compagno di viaggio, sembra lunghissimo
quando ci si annoia e si è impazienti di giungere a destinazione ma troppo breve
quando si ha voglia di restare, infinito quando si ama e tiranno quando si deve
salutare la persona amata. In quell’ora di un giorno che non ricordava del 1716
Francesco Antonio ebbe la sensazione che gli orologi fossero d’improvviso
divenuti suoi nemici, che le campane, finanche quelle di finissimo bronzo
agnonese fossero cattive e traditrici, che gli uccellini avessero congiurato
contro di lui e che il Sole avesse deciso, per fargli dispetto, di vivere in
una perenne eclissi. Ma perché non voleva far giorno e soprattutto perché a
Castelli tutto taceva? Cecco, il garzone di bottega che lo accompagnava ovunque
essendo diventato nel corso degli anni più che altro un suo inseparabile
compagno di avventure, cercava, con un occhio faticosamente aperto e l’altro
appapagnato dal gran sonno di un viaggio tanto assurdo in cui avevano più volte
rischiato di dover cambiare cavalli e cavalcatura per evidente stanchezza delle
povere e fide bestiole, di spiegargli che a quell’ora cosa poteva pretendere?
Che gli abitanti del borgo fossero rimasti svegli per lui che neanche aveva
annunciato a parenti e amici più cari il suo arrivo per far loro una sorpresa?
Per quanto la logica del quasi dormiente Cecco fosse giusta e nonostante egli
cercasse invano di approfittare di quegli istanti per cadere addormentato,
Francesco Antonio continuò a tormentarlo svegliandolo e strattonandolo fuori
dalle accoglienti braccia di Morfeo appena produceva quel suono tipico di chi,
stanco e stremato, trova finalmente riposo e con ritmo talvolta cadenzato e
sovente altalenante russa della grossa. Era stato lontano dalla sua terra per
tanto tempo, la sua vita aveva superato avversità rocambolesche, si vociferava
che fosse addirittura finito nelle regie galere, anche se le dicerie sono
sempre da verificare e spesso, nonostante le bugie abbiano le gambe più
frequentemente lunghe che corte, sfatare del tutto. Certo aveva visto e
conosciuto persone, ambienti, bellezze e meraviglie che i suoi compaesani potevano
soltanto immaginare con la delicata fantasia che era alla base dell’economia
di Castelli, ma lui non riusciva a pensare ad altro che alla sua terra
d’Abruzzo, alle montagne che proteggevano il cocuzzolo su cui era costruito il
borgo che aveva la forma di un bellissimo occhio giottesco. Quando, finalmente,
uno scoiattolo si accorse di lui ebbe un fremito di piacere e il povero e
insonnolito Cecco un attimo di respiro. Il roditore con la lunga coda pelosa si
stancò ben presto di quell’impazienza e tornò tra i suoi alberi a cercar ghiande
con grande pena per Cecco che si sentì ridestare per l’ennesima volta dalla
furia indiavolata di Francesco Antonio. Il motivo di tante fregole non l’aveva
proprio capito e in quei giorni di viaggio forsennato aveva più volte cercato
di scandagliare il fondo della sua memoria alla ricerca di qualche indizio, un
incontro o una frase riferita da qualche valletto, ma niente, non era proprio
riuscito a spiegarsi perché avesse di punto in bianco preparato bauli,
attrezzature e avesse deciso di tornare a Castelli. Dal canto suo il mastro
maiolicaro non gli aveva detto niente e neanche lui sapeva bene perché,
sapeva soltanto che doveva andare, doveva tornare nella sua terra. D’improvviso
e senza un motivo, seguendo quell’istinto che tante volte gli aveva salvato la
vita e molte altre lo aveva portato fin nei più raffinati palazzi del reame per
dipingere piatti, vasi e altri oggetti nella cui decorazione egli eccelleva al
punto da avere una folta schiera di imitatori che troppo spesso gli copiavano
motivi e disegni originali, aveva sentito il bisogno, la necessità di tornare
in quella che egli aveva e avrebbe sempre considerato la sua vera patria. Era talmente
assorto nella sua impazienza da non essersi accorto che le finestre del borgo
lo stavano osservando fino a che non udì distintamente il rumore della neve
scrollata da uno scuro e sentì chiamarsi con l’imperiosa dolcezza di quando era
ancora un bambino coi calzoncini corti. A quel richiamo familiare risposero le
altre abitazioni sbadigliando nell’aria gelida il tepore della notte trascorsa
al riparo dalle intemperie e Cecco tirò finalmente un sospiro di sollievo,
presagendo una tazza di latte o di caldo brodo, acqua cotta con qualche erba
aromatica, se andava bene una manciata di legumi e l’insapurituro, osso di
prosciutto che veniva passato di casa in casa per dare parvenza di sostanza alla
povertà. Non che a Castelli si fosse mai veramente saputo cosa volesse dire
essere poveri, non era come in altre terre d’Abruzzo schiacciate dall’ingorda
prepotenza di signorotti locali, c’era sempre stata la dignità del saper fare e
una gloriosa tradizione, che prosegue ancor oggi, di abili ceramisti e
maiolicari, però l’insonnolito e infreddolito Cecco così immaginava una tazza
di brodo caldo. Quale fu la sua sorpresa quando si vide mettere davanti al naso
una bella tazzona di latte con un ovetto sbattuto, pane bianco, salame e
formaggio è facile immaginare, d’un tratto il freddo e la fatica si allontanarono
dalle sue ossa per lasciar posto ad una vorace allegrezza. Francesco Antonio
sorbì di gusto una tazza di latte caldo con una fetta di pane e burro ma l’appetito
gli si smorzò alla bocca dello stomaco appena capì che il suo sesto senso aveva
funzionato alla perfezione e lesse nell’inquietudine degli sguardi e nell’ostentazione
con cui si mostrava la non povertà dell’abitazione che qualcosa di assai
importante stava preoccupando i suoi compaesani. Lasciò dunque Cecco al
calduccio a riposare e senza indugio si recò nella bottega dov’era stato
garzone, con la scusa di salutare e mostrare nuovi decori in auge alla Corte di
Napoli. Fu accolto con un sorriso che non chiedeva spiegazioni e in men che non
si dica venne messo a conoscenza del problema che angustiava Castelli: il marchese Ferdinando Alarcón y Mendoza accampava diritti di tassazione sulla
produzione delle maioliche e questo avrebbe ridotto la popolazione alla miseria, come era accaduto in altre parti d’Abruzzo. Bisognava agire, far
qualcosa, ma cosa? Il marchese era potente e godeva della regia protezione, non
v’era possibilità di opporsi al suo volere senza rischiare la distruzione e la
riduzione in cenere dell’intero paese. Francesco Antonio stette in silenzio, pensò
alla sua fuga dal convento quando suo padre aveva deciso di farlo diventar
prete, ricordò molte delle sue avventure in terre lontane e cercò
di raccogliere le idee per inquadrare le opposizioni e le alleanze del
marchese. Vecchio e Nuovo Continente erano in fermento, le idee di libertà
cominciavano a circolare più o meno apertamente ma non c’era ancora il terrore
delle rivolte popolari che avrebbe fatto seguito alla Rivoluzione francese, il
re, dal canto suo, non avrebbe ben tollerato il massacro di chi tanto abilmente
decorava piatti, vasi e porcellane che le dame di corte tanto amavano. Non ci
fu bisogno di parole. In men che non si dica bottegai e garzoni, gente povera o
benestante si riunì, vicino a quel monastero dove quasi due secoli dopo sarebbe
sorta una delle più importanti e meglio funzionanti scuole d’Italia che porta
il nome di Francesco Grue, parente di Francesco Antonio, e con la forza della fede
si oppose alle vessazioni. Il marchese cercò di sedare con la violenza la
rivolta ma Francesco Antonio aveva appreso il linguaggio di potenti e cortigiani,
parlò, si fece capire, la sommossa crebbe in forza e intensità, il popolo era
deciso a non fare un passo indietro con tutta la proverbiale testardaggine
abruzzese, il marchese forzò con le armi sulle stradine ghiacciate e irte di
pericoli, il popolo di Castelli si unì e divenne un sol corpo, Francesco
Antonio soppesò le parole, trovò i punti deboli, il marchese si impuntò contro
un popolo fiero che neanche gli antichi romani erano riusciti a piegare al
proprio volere e che era riuscito a farsi rispettare finanche dagli eserciti
imperiali, Francesco Antonio usò la lingua con la forza delle lame di Toledo e
il marchese capì, mollò la presa, continuò ad esigere gabelle ma non provò più
a tartassare e distruggere i castellani.
Cecco non seppe mai come ebbe fatto
Francesco Antonio a capire che era il momento di tornare a Castelli ma da quel
giorno si affezionò un po’ di più a quel mastro ceramista con le montagne nello
sguardo ed ebbe un nuovo amico, uno scoiattolo nero dal lungo pelo che aveva
deciso di seguirli nelle loro imprese.
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