martedì 18 ottobre 2016

Senatori 4. Tina Anselmi. “Abbiamo combattuto per conquistare la pace” (bozza)

Tina Anselmi. “Abbiamo combattuto per conquistare la pace”[1]

“Se ti prendono prega Dio che ti ammazzino subito, sei una donna e sei pure giovane e bella” quelle parole erano scolpite nella sua mente, non riusciva a dimenticarle, si inframmezzavano alle preghiere con cui snocciolava il suo Rosario, fisicamente o mentalmente per darsi il ritmo mentre pedalava lungo le strade ghiacciate del Veneto, tra file di radicchi e insidie da ogni dove. Pregava, pregava, e cos’altro poteva fare? era certa che il suo compito era importante e sapeva che era pericoloso, pericolosissimo ma necessario. La Divina Provvidenza avrebbe espresso il volere del Signore e avrebbe saputo giudicare se era giusto o no. Mentire ai genitori non era una cosa buona ma se li avesse informati li avrebbe messi in pericolo, questo le avevano insegnato in Brigata, nessuno doveva conoscere le sue azioni e lei non doveva conoscere quelle degli altri, ne andava della vita e della dignità personale. Il sangue le si gelava nelle vene mentre la forza di giovane donna spingeva i pedali della pesante bicicletta oppure quando si doveva fermare per aggiustare i copertoni. Quelli erano momenti in cui riusciva a muovere le mani soltanto pregando nella sua testa che in quel momento non passasse un reparto di fascisti. Se le camicie nere avessero trovato il prezioso contenuto della sua borsa la sua unica speranza sarebbe stata un bel colpo secco di pistola e sinceramente amava talmente la sua vita da non poter accettare un tale abominio verso sé stessa e verso l’Onnipotente che, è ben noto, ai suicidi preferisce i martiri. Nella chiesa nascosta tra le mura fortificate di Castelfranco Veneto, il suo paese, c’erano le immagini di martiri e non le piaceva pensare che il suo bel corpo sodo e generoso avrebbe dovuto subire lo strazio delle torture, cui si sarebbero aggiunte quelle dedicate all’umiliazione sistematica delle donne. Un giorno le preghiere si erano interrotte nella sua mente, la circolazione sanguigna si era fermata e i bei rossi sul suo viso avevano lasciato il posto ad un bianco più terreo di quello di un defunto. Due giovani l’avevano fermata, avevano preso il manubrio della sua bici e il suo corpo aveva smesso di reagire per un istante che le sembrò infinito. “Devi cambiare i copertoni, Gabriella”. Il sangue le riaffiorò dalla punta degli alluci a quella di capelli ormai ritti sulla testa come spini d’istrice. Una gioia pura le attraversò lo sguardo per l’ultima volta nella sua vita, da quel giorno i suoi occhi sarebbero stati perle di ossidiana, taglienti e imperscrutabili e la sua bocca soda e carnosa si sarebbe trasformata in una fessura da cui non far uscire neanche una sillaba che non fosse più che voluta. Lo spavento che aveva provato in quel momento era stato qualcosa di indicibile che le aveva fatto capire che non sarebbe mai e poi mai dovuta cadere nelle grinfie delle camicie nere.
Quel giorno di molti anni dopo, quando un cronista[2] le si avvicinò credendo di coglierla con le mani nel sacco a trasportare fuori dal Parlamento i documenti riservatissimi della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Loggia massonica P2 e si trovò con in mano qualche cipolla e la carne per preparare i tortelli come si deve, ché a Roma non hanno ancora capito come si preparino, ebbe la sensazione che il futuro non ha memoria.
“Non c’è niente che ci può salvare quando si tradisce la storia”, disse a quella camicia nera di rosso bardata, il suo sguardo d’ossidiana fece vacillare quell’uomo che si era permesso di perquisire la borsa alla prima Ministro donna della storia italiana, alla Presidente della Commissione Parlamentare che stava indagando con un prezioso senso del dovere tra le carte necessarie a dimostrare l’esistenza di una loggia deviata della Massoneria che avrebbe portato ad un probabile sovvertimento antidemocratico della Repubblica italiana, di quella Nazione, di quello Stato per cui lei aveva rischiato, pagando il prezzo altissimo di una giovinezza non spensierata ma colma di paure, per la cui salvezza ella aveva trattato coi nazisti in gran segreto di abbandonare il Veneto senza rappresaglie se volevano raggiungere vivi il confine verso la loro patria. Il cronista per un momento, unico e solo nella sua lunga carriera, ebbe la sensazione che il suo ruolo, quello di giornalista, era di informare e conoscere, che forse non ci sarebbe stato bisogno di istituire una Commissione Parlamentare se egli e i suoi colleghi avessero agito in piena coscienza, se si fossero accorti delle strane coincidenze tra nomi e amicizie, se avesse fatto semplicemente e onestamente il proprio dovere. È noto che se tutti quanti agiscono in un modo, si finisce per pensare che quel modo sia normale, che sia giusto perché è socialmente accettabile. Tina ‘Gabriella’ Anselmi si era accorta subito che tra ciò che è giusto e ciò che è socialmente accettabile c’è una gran bella differenza e aveva agito, rischiando, pagando un prezzo molto alto, unendosi alle Brigate Partigiane, combattendo “per difendere la pace” e poi tutelando i diritti di donne, lavoratrici, insegnanti, bambine, perché è nelle famiglie e nella scuola che si apprende il lessico della libertà e della democrazia o dell’oppressione.
“Bisogna non dimenticare – affermava continuamente – ma fare della memoria l’arma pacifica per non ripetere gli errori che hanno portato al fascismo”.
Errori, di valutazione o di azione, come quello delle camicie nere che la costrinsero, lei ancora bambina insieme alle sue compagne di scuola, ad assistere all’impiccagione ingiusta di un gruppo di giovani per rappresaglia, senza che avessero preso parte a qualche azione di guerriglia o di guerra, così, per sfregio, per affermare la loro schifosa viltà, la loro infame codardia. Tina aveva tratto da quell’esperienza l’insegnamento più importante di tutta la sua carriera scolastica, con tutto che poi, finita la guerra, si laureò in Lettere alla Cattolica di Milano per insegnare alle bambine le parole della pace. Aveva compreso che il bene e il male non hanno molto a che fare con il socialmente accettato, seppure non si possa dire di lei ch’ella fosse una rivoluzionaria sessantottina o altro. Piuttosto, una donna con chiaro in testa il concetto di bene e male, con un senso del dovere e una coerenza inflessibili.
C’era tutto questo e molto di più nello sguardo privo di luce e gioia con cui trafisse il cronista che invece di fare il suo mestiere, invece di pretendere che il lavoro giornalistico venisse riconosciuto nella sua importante funzione di garante della democrazia e del rispetto del volere popolare le aveva chiesto di aprire la borsa, le aveva frugato tra cipolle e pezzi di carne con l’aria furbetta da gerarca di second’ordine in camicia nera ritinta di rosso sperando di trovare qualcosa che potesse far gridare per l’ennesima volta alla congiura, al ‘complotto giudaico-massonico’ che vorrebbe rovesciare l’ordine mondiale per la creazione di un nuovo ordine mondiale, senza ricordare che le stesse parole erano state diffuse con stridula voce stentorea durante un buio ventennio della storia italiana cui Tina ‘Gabriella’ Anselmi si era opposta pedalando per oltre cento chilometri al giorno nelle gelide campagne della Marca Trevigiana, rischiando la vita, l’onore, la famiglia e la sua giovinezza.
Mentre il cronista vacillava, per un istante che mai più si sarebbe ripetuto nella sua ottusa e cieca obbedienza a qualunque sistema, a qualsivoglia parola d’ordine, ella cercò di fargli capire che c’è “bisogno che la cultura sia al servizio della verità, una verità che vede ancora [tentativi] di contrabbandare qualcosa che non è parte del nostro patrimonio”.
La staffetta Tina ‘Gabriella’ Anselmi, classe d’acciaio temperato 1927, proseguì la sua strada, a piedi, con la borsa piena di cipolle e di quel pezzo di carne che s’era fatta tagliare apposta da Feroci, a due passi da lì, per fare quei tortelli che le ricordavano il sapore della libertà e le davano il coraggio di andare avanti, nonostante le lettere minatorie, nonostante lo sconforto che le assaliva gli zigomi forti e duri tutte le volte che vedeva sfilare in Commissione tutti coloro che erano espressione di quel potere mercenario che non ha idealità, menefreghista e fascista che si era insidiato fin nei gangli più vitali dello Stato. Lo faceva con spirito di abnegazione pur sapendo in cuor suo che chi le aveva affidato l’incarico, Giulio Andreotti, forse non lo aveva fatto senza un preciso calcolo opportunistico. Non avrebbe saputo indovinare se egli lo avesse fatto in piena coscienza, quando i due si guardavano era più che altro una raffinatissima espressione armigera di fioretto. Parlavano poco, più che altro incrociavano qualche lama che fuoriusciva dalle loro labbra sigillate e sottili. Lei non si curò di sapere quale fosse l’intenzione di Andreotti, guardò, le carte, con molta attenzione e passò, all’azione concreta nella stesura di pesantissimi atti della Commissione Parlamentare che ancor oggi sono macigni irrisolti di una delle più oscure pagine della recente storia italiana.
“Vai avanti, sei una partigiana” le dicevano, mentre le giungevano minacce ‘dall’alto’, le persone nella strada, il popolo che lei si è sempre fregiata di rappresentare con un altissimo senso dello Stato che però non le è mai valso la carica di Presidente della Repubblica Italiana, forse perché una donna capo supremo dello Stato è un tabù che ancora non si riesce ad infrangere. 




[2] NB. L’episodio è liberamente ispirato ad un fatto realmente accaduto mentre il riferimento al cronista o giornalista coinvolto in tale episodio, di cui peraltro non saprei neanche dire il nome, è di pura fantasia e la sua descrizione negativa è meramente funzionale al meccanismo narrativo per mettere in risalto l’onestà intellettuale di Tina Anselmi, senza nulla togliere all’onestà intellettuale e professionale del giornalista effettivamente coinvolto nell’episodio qui romanzato che assolutamente nulla ha in comune con quello qui narrato, e per tratteggiare, per mezzo del contrasto, la tesa e complessa situazione socio-politica del tempo senza alcun riferimento a persone realmente esistite e fatti realmente accaduti  

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