Benedetto
Croce. Un Muso politico.
«Il
mio liberalismo è cosa che porto nel sangue, come figlio morale degli uomini
che fecero il Risorgimento italiano, figlio di Francesco De Sanctis e degli
altri che ho salutato sempre miei maestri di vita. La storia mi metterà tra i
vincitori o mi getterà tra i vinti. Ciò non mi riguarda. Io sento che ho quel
posto da difendere, che pel bene dell'Italia quel posto dev'essere difeso da
qualcuno, e che tra i qualcuni sono chiamato anch'io a quell'ufficio. Ecco
tutto.»
Benedetto
Croce, Lettera a Vittorio Enzo Alfieri del 10 ottobre 1925[1]
Il Monzù Nicola e’ Tricase, al secolo
Nicola Micera, aveva messo da parte i denari sufficienti per aprire, nel 1840,
un ristorante tutto suo al Vomero. I suoi manicaretti erano ben noti alla
nobiltà napoletana che aveva avuto modo di apprezzarli presso i Principi di
Tricase dove egli aveva ottenuto l’ambitissimo appellativo di Monzù, capocuoco
di corte si potrebbe tradurre, per cui non gli fu difficile attirare clientela
facoltosa e quella che a Napoli tuttora si chiama ‘bella gente’. Il nome scelto
per l’insegna fu il suo soprannome che, come da gloriosa tradizione italiana,
si tramandò di padre in figlio fino a Vincenzo, chiamato Pallino ‘3’ per
rispetto generazionale. Ogni Pallino ebbe un tipo di clientela che animava il
locale e Pallino 3 si trovò a sfamare, dietro lauto compenso, i più importanti
intellettuali del suo tempo, tra cui i Nove Musi che ‘al grato arrivo di
Peppino Ceci […] diventaron Dieci’, solennemente riuniti in Società con tanto
di statuto e regolamento per il pagamento dei salatissimi conti. Intorno alle
squisitezze imbandite da Vincenzo nipote del Monzù Nicola e’ Tricase si era
aggregato un vero e proprio circolo intellettuale che esprimeva appieno la
cultura convivial-gastronomica del Mediterraneo e le idee più innovative del
pensiero, anche politico, contemporaneo. Senza andare a svelare i nomi[2] basterà dire che intorno
al tavolo non verde[3]
ma imbandito Benedetto Croce chiedeva ad un editore analfabeta che da strillone
era riuscito a diventare il più importante e prestigioso editore partenopeo e
ad altri intellettuali di criticare la propria produzione letteraria, poco
importava ch’egli fosse uno tra gli intellettuali più importanti del
Diciannovesimo e Ventesimo secolo, davanti ad un bel piatto di bucatini con le
vongole le differenze si livellavano con la forza di una risata e di una
goliardata.
[2] I nomi e la storia del
cenacolo è facilmente consultabile nella voce su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_dei_Nove_Musi oppure
nell’interessante articolo di Massimo Gatta http://archivio.mensamagazine.it/articolo.asp?id=576
[3] Il Tavolo Verde è una coreografia
del 1932 di Kurt Joos, considerato il manifesto del teatro-danza e del
successivo tanz-theater tedesco di cui Pina Bausch è l’esponente più nota,
prima dell’esilio forzato dell’artista nel Regno Unito. Joos mette in scena un
distillato di formalismo ed espressionismo tedesco in cui ridicolizza
l’abitudine di politicanti d’ogni nazione di decidere i destini degli Stati in
un balletto di vanità intorno ad un tavolo da gioco con una modalità stilistica
che anticipa di circa otto anni il meravigliosamente orrido balletto di Charlie
Chaplin ne Il Grande Dittatore. Nel Grune Tisch jossiano, coreografia di
un’attualità sconcertante, i danzatori, tutti maschi, cosa abbastanza rara per
quel periodo, indossano eleganti abiti neri, guanti, ghette e maschera bianchi.
https://www.youtube.com/watch?v=t5BUkCd2Hfw
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