sabato 15 ottobre 2016

Senatori 1. Enrico De Nicola. Un morto che cammina salva la Repubblica Italiana. (bozza)

Un morto che cammina salva la Repubblica

«La grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l'Italia – rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini. […] La vera pace – disse un saggio – è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si dimenticano e sui rancori che ne sono l'inevitabile retaggio. La Costituzione della Repubblica italiana – che mi auguro sia approvata dall'Assemblea, col più largo suffragio, entro il termine ordinario preveduto dalla legge – sarà certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti dei cittadini e i poteri dello Stato siano egualmente garantiti, trarrà dal passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i principi fondamentali, che la legislazione ordinaria – attribuendo al lavoro il posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza nazionale – dovrà in seguito svolgere e disciplinare.»[1]

Il fantasma della terribile, vogliosa e irascibile Regina Giovanna quel giorno del 1929 si aggirava tra le mura del castello angioino di Afragola per godersi uno spettacolo degno delle sue più turpi fantasticherie. Come è ben noto ella era una lussuriosa che non si faceva scrupolo ad individuare tra i più giovani del contado i suoi amanti per poi darli in pasto a quel dannato coccodrillo che aspettava a fauci spalancate sotto la segreta botola nel Maschio Angioino. Sembrava si divertisse ad incarnare i sette vizi capitali nell’affermazione del suo potere temporale, donna spregiudicata e malvagia che trovava nelle terre napoletane un godimento speciale tale per cui, anche dopo mezzo millennio, ancora si aggirava tra quei territori che ben prima furono abitati dai raffinati e fieri Sanniti i quali, dal canto loro, non avevano esitato ad infliggere ai romani, che li annientarono dopo tale affronto, la gogna delle Forche caudine. Quello sarebbe stato l’anno del suo cinquecentocinquaseiesimo compleanno ma non si chiede mai l’età ad una vera signora che per dimostrare la sua signorilità non mancò di presenziare a quell’evento tanto macabro da essere per lei un gran divertimento. C’erano proprio tutti, dai bambini cenciosi agli adolescenti pieni di fame e coi calzoni corti, dai giovani tutti muscoli e ormoni ai vecchi imbacuccati nelle loro superstizioni. Il banco del lotto aveva fatto in un giorno le giocate di un intero anno e forse pure di più. Dalle chiese del paese era un continuo andirivieni coi ceri, o meglio i moccoli ché di ceri ce n’erano già pochi, non che si fosse sentita la crisi americana, gli Stati Uniti erano lontani e lo sapevano bene quelli che avevano perduto nel grande oceano familiari vicini e tanto lontani quando c’era da ricevere qualche lira in più per tirare a campare dignitosamente. Le cartoline sì, quelle arrivavano puntualmente, con zucche grandi quanto un monello, tutto era grande nell’America e si stava bene ma in Italia non si poteva dire per non offendere l’italianità. Pure quella musichetta allegra era vietata, proibita, ma tanto il grammofono e la radio, chi ce l’aveva? soltanto i discendenti della Regina Giovanna mica la povera gente che andava a faticare e sapeva che la terra è bassa e la pentola vuota è triste. I uagliuncelli stavano tutti spazzolati, coi calzoni corti, le ginocchia livide e le occhiaie scure scure, negli sguardi i disegni futuristici della propaganda e il disfattismo della povertà, e bisognava pure stare attenti perché l’accusa di disfattismo poteva portare dritto dritto nella caserma e da lì se uscivi ed eri ancora in condizione di lavorare era un miracolo che giusto Sant’Antonio poteva fare. Le camicie nere erano schierate, i più giovani erano vestiti da balilla e piccole italiane, bisognava stare attenti a non far vedere che la stoffa delle divise era lisa sennò l’appellativo di disfattista rimaneva impresso come una lettera di fuoco sulla pelle. Il municipio era stato bardato a festa per la grande occasione, con bei drappi neri, guai a dire che erano lugubri per carità e tanto meno farsi sorprendere nelle discussioni sul numero da giocare tra: ‘32 morto che cammina’, ‘40 morto per strada’, ’47 morto che parla’, ’13 morte’, il ’44 morte voluta’ era da scrivere su un pizzino e la giocata veniva poi nascosta con uno stratagemma, il rischio era di bersi una bella bottiglia di olio di ricino nell’ufficio del Podestà e non c’era tanto da ridere ma un evento così e quando sarebbe ricapitato? La cerimonia richiedeva ovviamente un comitato civico per i festeggiamenti e venne chiamato il giostraio, vennero montate le luci, ci furono i bruscolini e le noccioline calde, i dolciumi per la strada, avevano lo stesso impasto di quelli che si facevano il 2 novembre ma la forma era diversa, per rispetto non era chiaro se per le anime dei defunti o per quella del Senatore del Regno d’Italia Enrico De Nicola. La fanfara si muoveva solenne per le vie del paese, richiamando, come se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione della popolazione. Guai a non presenziare alle adunate, questo era ben noto, ma, sinceramente a nessuno, neppure alla Regina Giovanna sarebbe venuto in mente di non partecipare a quella festa tanto singolare. Siccome riunirsi in crocicchi era proibito, i uaglioncelli quel giorno svolsero l’importantissimo ruolo di staffette per stabilire quale fosse il significato preciso e dunque consultare correttamente la Smorfia. Taluni, per non sbagliarsi, avevano interpellato pure qualche ebreo, di straforo, per sapere se ci fosse qualche indicazione dalla Cabbala, mentre altri avevano pensato che consultare gli ebrei avrebbe potuto indispettire i santi e soprattutto la Santa Madre Vergine di Gesù che nel suo infinito dolore male avrebbe accolto le suppliche di chi era andato a chiedere prima ai discendenti di chi era di fatto un mandante degli assassini di suo Figlio, non era educato. Nessuno si era avvicinato al castello, sentivano, in cuor loro, che la perfida Regina Giovanna non si sarebbe persa quello spettacolo e si tenevano alla larga, istintivamente. La banda intonò gli inni di rito, proseguì il concerto con una marcia funebre e concluse con una marcetta allegramente e solidamente patriottica. Il Podestà, col suo bel fez a coprire una implacabile quanto precoce calvizie, sulla camicia nera che metteva in risalto una ben nutrita pancia da allenato bevitore aveva appuntato una medaglia guadagnata in gioventù in una corsa podistica. Con gesto teatralmente solenne svelò la targa, un lampo di repressa e codarda ironia gli attraversò lo sguardo miope da sorcio, con tutto il rispetto per i topi, il drappo nero rischiò di coprirlo e di scatenare una reazione di ilarità diffusa che avrebbe causato una feroce repressione, il Senatore del Regno Enrico De Nicola invece di indurire i suoi occhi fieri, li illuminò con la più placida e signorile ironia, ringraziò il Podestà per la bella trovata di avergli voluto intitolare una strada, sebbene, affermò, con studiata umiltà che gli valse la sconfinata ammirazione dell’intero paese, di essere onorato di poter leggere sul duro marmo il suo nome anche se non pensava di essere tanto importante e di essere tenuto in tale considerazione dal Re e di buon grado accettò la cittadinanza onoraria di Afragola, in un boato di applausi che sommerse di ridicolo chi aveva voluto giocargli un brutto tiro.
A distanza di diciassette anni da quell’increscioso accadimento il Senatore del Regno Enrico De Nicola avrebbe pronunciato, in qualità di Capo Provvisorio del Governo, queste parole che ebbero la forza marmorea della libertà e della dignità e rimasero scolpite nella memoria delle generazioni a venire, se la memoria ha un futuro. 

«Per l'Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All'opera immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe. Dobbiamo avere la coscienza dell'unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che s'ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell'abisso per non risollevarci mai più»[2]




[1] Discorso all’Assemblea Costituente inviato da Enrico De Nicola, Capo Provvisorio dello Stato [Fonte: Wikipedia]
[2] Messaggio d'insediamento di Enrico De Nicola nella carica di Capo Provvisorio dello Stato, 15 luglio 1946 [Fonte: Wikipedia]

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