Un
morto che cammina salva la Repubblica
«La
grandezza morale di un popolo si misura dal coraggio con cui esso subisce le
avversità della sorte, sopporta le sventure, affronta i pericoli, trasforma gli
ostacoli in alimento di propositi e di azione, va incontro al suo incerto
avvenire. La nostra volontà gareggerà con la nostra fede. E l'Italia –
rigenerata dai dolori e fortificata dai sacrifici – riprenderà il suo cammino
di ordinato progresso nel mondo, perché il suo genio è immortale. Ogni
umiliazione inflitta al suo onore, alla sua indipendenza, alla sua unità
provocherebbe non il crollo di una Nazione, ma il tramonto di una civiltà: se
ne ricordino coloro che sono oggi gli arbitri dei suoi destini. […] La vera
pace – disse un saggio – è quella delle anime. Non si costruisce un nuovo
ordinamento internazionale, saldo e sicuro, sulle ingiustizie che non si
dimenticano e sui rancori che ne sono l'inevitabile retaggio. La Costituzione
della Repubblica italiana – che mi auguro sia approvata dall'Assemblea, col più
largo suffragio, entro il termine ordinario preveduto dalla legge – sarà
certamente degna delle nostre gloriose tradizioni giuridiche, assicurerà alle
generazioni future un regime di sana e forte democrazia, nel quale i diritti
dei cittadini e i poteri dello Stato siano egualmente garantiti, trarrà dal
passato salutari insegnamenti, consacrerà per i rapporti economico-sociali i
principi fondamentali, che la legislazione ordinaria – attribuendo al lavoro il
posto che gli spetta nella produzione e nella distribuzione della ricchezza
nazionale – dovrà in seguito svolgere e disciplinare.»[1]
Il fantasma della terribile, vogliosa e
irascibile Regina Giovanna quel giorno del 1929 si aggirava tra le mura del
castello angioino di Afragola per godersi uno spettacolo degno delle sue più
turpi fantasticherie. Come è ben noto ella era una lussuriosa che non si faceva
scrupolo ad individuare tra i più giovani del contado i suoi amanti per poi
darli in pasto a quel dannato coccodrillo che aspettava a fauci spalancate
sotto la segreta botola nel Maschio Angioino. Sembrava si divertisse ad
incarnare i sette vizi capitali nell’affermazione del suo potere temporale,
donna spregiudicata e malvagia che trovava nelle terre napoletane un godimento
speciale tale per cui, anche dopo mezzo millennio, ancora si aggirava tra quei
territori che ben prima furono abitati dai raffinati e fieri Sanniti i quali,
dal canto loro, non avevano esitato ad infliggere ai romani, che li
annientarono dopo tale affronto, la gogna delle Forche caudine. Quello sarebbe
stato l’anno del suo cinquecentocinquaseiesimo compleanno ma non si chiede mai
l’età ad una vera signora che per dimostrare la sua signorilità non mancò di
presenziare a quell’evento tanto macabro da essere per lei un gran
divertimento. C’erano proprio tutti, dai bambini cenciosi agli adolescenti
pieni di fame e coi calzoni corti, dai giovani tutti muscoli e ormoni ai vecchi
imbacuccati nelle loro superstizioni. Il banco del lotto aveva fatto in un
giorno le giocate di un intero anno e forse pure di più. Dalle chiese del paese
era un continuo andirivieni coi ceri, o meglio i moccoli ché di ceri ce n’erano
già pochi, non che si fosse sentita la crisi americana, gli Stati Uniti erano
lontani e lo sapevano bene quelli che avevano perduto nel grande oceano
familiari vicini e tanto lontani quando c’era da ricevere qualche lira in più
per tirare a campare dignitosamente. Le cartoline sì, quelle arrivavano
puntualmente, con zucche grandi quanto un monello, tutto era grande
nell’America e si stava bene ma in Italia non si poteva dire per non offendere
l’italianità. Pure quella musichetta allegra era vietata, proibita, ma tanto il
grammofono e la radio, chi ce l’aveva? soltanto i discendenti della Regina
Giovanna mica la povera gente che andava a faticare e sapeva che la terra è
bassa e la pentola vuota è triste. I uagliuncelli stavano tutti spazzolati, coi
calzoni corti, le ginocchia livide e le occhiaie scure scure, negli sguardi i
disegni futuristici della propaganda e il disfattismo della povertà, e bisognava
pure stare attenti perché l’accusa di disfattismo poteva portare dritto dritto
nella caserma e da lì se uscivi ed eri ancora in condizione di lavorare era un
miracolo che giusto Sant’Antonio poteva fare. Le camicie nere erano schierate,
i più giovani erano vestiti da balilla e piccole italiane, bisognava stare
attenti a non far vedere che la stoffa delle divise era lisa sennò
l’appellativo di disfattista rimaneva impresso come una lettera di fuoco sulla
pelle. Il municipio era stato bardato a festa per la grande occasione, con bei
drappi neri, guai a dire che erano lugubri per carità e tanto meno farsi
sorprendere nelle discussioni sul numero da giocare tra: ‘32 morto che
cammina’, ‘40 morto per strada’, ’47 morto che parla’, ’13 morte’, il ’44 morte
voluta’ era da scrivere su un pizzino e la giocata veniva poi nascosta con uno
stratagemma, il rischio era di bersi una bella bottiglia di olio di ricino
nell’ufficio del Podestà e non c’era tanto da ridere ma un evento così e quando
sarebbe ricapitato? La cerimonia richiedeva ovviamente un comitato civico per i
festeggiamenti e venne chiamato il giostraio, vennero montate le luci, ci
furono i bruscolini e le noccioline calde, i dolciumi per la strada, avevano lo
stesso impasto di quelli che si facevano il 2 novembre ma la forma era diversa,
per rispetto non era chiaro se per le anime dei defunti o per quella del
Senatore del Regno d’Italia Enrico De Nicola. La fanfara si muoveva solenne per
le vie del paese, richiamando, come se ce ne fosse stato bisogno, l’attenzione
della popolazione. Guai a non presenziare alle adunate, questo era ben noto,
ma, sinceramente a nessuno, neppure alla Regina Giovanna sarebbe venuto in
mente di non partecipare a quella festa tanto singolare. Siccome riunirsi in
crocicchi era proibito, i uaglioncelli quel giorno svolsero l’importantissimo
ruolo di staffette per stabilire quale fosse il significato preciso e dunque
consultare correttamente la Smorfia. Taluni, per non sbagliarsi, avevano
interpellato pure qualche ebreo, di straforo, per sapere se ci fosse qualche
indicazione dalla Cabbala, mentre altri avevano pensato che consultare gli
ebrei avrebbe potuto indispettire i santi e soprattutto la Santa Madre Vergine
di Gesù che nel suo infinito dolore male avrebbe accolto le suppliche di chi
era andato a chiedere prima ai discendenti di chi era di fatto un mandante
degli assassini di suo Figlio, non era educato. Nessuno si era avvicinato al
castello, sentivano, in cuor loro, che la perfida Regina Giovanna non si
sarebbe persa quello spettacolo e si tenevano alla larga, istintivamente. La
banda intonò gli inni di rito, proseguì il concerto con una marcia funebre e
concluse con una marcetta allegramente e solidamente patriottica. Il Podestà,
col suo bel fez a coprire una implacabile quanto precoce calvizie, sulla
camicia nera che metteva in risalto una ben nutrita pancia da allenato bevitore
aveva appuntato una medaglia guadagnata in gioventù in una corsa podistica. Con
gesto teatralmente solenne svelò la targa, un lampo di repressa e codarda
ironia gli attraversò lo sguardo miope da sorcio, con tutto il rispetto per i
topi, il drappo nero rischiò di coprirlo e di scatenare una reazione di ilarità
diffusa che avrebbe causato una feroce repressione, il Senatore del Regno
Enrico De Nicola invece di indurire i suoi occhi fieri, li illuminò con la più
placida e signorile ironia, ringraziò il Podestà per la bella trovata di
avergli voluto intitolare una strada, sebbene, affermò, con studiata umiltà che
gli valse la sconfinata ammirazione dell’intero paese, di essere onorato di
poter leggere sul duro marmo il suo nome anche se non pensava di essere tanto
importante e di essere tenuto in tale considerazione dal Re e di buon grado
accettò la cittadinanza onoraria di Afragola, in un boato di applausi che
sommerse di ridicolo chi aveva voluto giocargli un brutto tiro.
A distanza di diciassette anni da
quell’increscioso accadimento il Senatore del Regno Enrico De Nicola avrebbe
pronunciato, in qualità di Capo Provvisorio del Governo, queste parole che
ebbero la forza marmorea della libertà e della dignità e rimasero scolpite
nella memoria delle generazioni a venire, se la memoria ha un futuro.
«Per
l'Italia si inizia un nuovo periodo storico di decisiva importanza. All'opera
immane di ricostruzione politica e sociale dovranno concorrere, con spirito di
disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della Nazione, non esclusi
coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe.
Dobbiamo avere la coscienza dell'unica forza di cui disponiamo: della nostra
infrangibile unione. Con essa potremo superare le gigantesche difficoltà che
s'ergono dinanzi a noi; senza di essa precipiteremo nell'abisso per non
risollevarci mai più»[2]
Nessun commento:
Posta un commento