Dietro la grande quercia
INS. CANZONE SULLA BATTAGLIA DI MENTANA
La battaglia era conclusa, il fango si
era insinuato nella mia giubba, ne sentivo il sapore terrigno.
Mi mossi con circospezione, dovevo
essere svenuto, roteai gli occhi, cercai di capire se le ossa erano sane, mi
guardai dattorno e mi sembrò che la battaglia fosse finita.
Il generale era lì da qualche parte, la
confusione era stata enorme, vidi volti amici, ci salutammo con un cenno del
capo: eravamo stremati, intirizziti dal freddo e, mi duole ammetterlo,
impauriti.
Qualcosa di arcano era accaduto anche se
non avremmo saputo definirlo con certezza.
Il tramonto pallido diede adito
all’oscurità e dovemmo trovare un qualche riparo.
Ci trovavamo, ne eravamo quasi certi,
nei pressi di Vigna Santucci udimmo un contadino che parlava alle sue mucche
ricordando lo scampato pericolo. Non so chi ricordò di aver già sentito da
qualche parte quella voce e ci fece cenno di tacere e far piano: non avremmo
trovato un amico in lui.
D’altronde non era neanche da biasimare,
pover’uomo, ma quello non era il momento di rimembranze.
Ci acquattammo dietro qualche cespuglio
come avevamo appreso nelle spedizioni uruguaiane e rimanemmo immobili,
controllando il respiro così da non produrre il benché minimo rumore
indesiderato.
I piedi ci dolevano immensamente. Le
scarpe che attendevamo non erano arrivate e avevamo combattuto nella mota, tra
sassi ed erbacce con calzari rimediati di stoffa e qualche fascetta di cuoio.
C’era tra noi un ciociaro e ci aveva insegnato a costruire le ciocie, appunto,
ma erano tutte inzaccherate e il freddo stava ghiacciando l’acqua di cui era
ormai saturo il tessuto dove non c’era più neanche la minima traccia di quel
prezioso grasso che più di una volta ci aveva salvato la vita.
Il contadino non voleva saperne di
andare a riposare o a mangiare, continuava ad accarezzare le vacche mugghianti
di allegrezza o di paura per lo scampato pericolo.
Avevamo rallentato i battiti cardiaci
per cercare di risparmiare preziose energie vitali ma evitare di tremare e
battere i denti era piuttosto difficile.
Finalmente il contadino entrò nella sua
umile dimora e potemmo avvicinarci alle bestie che ci sorrisero e ci parlarono,
compostamente una alla volta, con voce chiara e cristallina. Lì per lì ci
meravigliammo ma quella era, al confronto di ciò che vedemmo dopo, soltanto un
dettaglio quasi insignificante.
“Buonasera garibaldini, vi aspettavamo”
Nessuno di noi ebbe il coraggio di
rispondere, temendo, più che altro, di essere in preda ad un delirio dovuto al
freddo o alla stanchezza.
“Non ci guardate con tanto stupore: vi
stavamo aspettando. Seguiteci, qui troverete riparo sicuro e noi potremo
tornare nel nostro mondo e nel nostro tempo, ché qui si vive proprio male”.
Ciò detto, si produssero in una specie
di danza simile al flamenco, battendo le zampe sul terreno con un ritmo
cadenzato, dopodiché emisero strani suoni che parevano campane e al contempo
versi gutturali, e si aprì una porta, come d’incanto.
Ci invitarono ad entrare, intirizziti
come eravamo non ce lo facemmo ripetere due volte. L’ambiente era pulito e
caldo e si poteva distinguere chiaramente un profumo di cibo, aromi di cui
avevamo dimenticato l’esistenza o meglio la ricordavamo nelle più rosee
fantasticherie.
“C’è qualcun altro oppure possiamo
chiudere la porta?”
“Veramente siamo soltanto noi, degli
altri non sappiamo molto”, risposi prendendo coraggio
“Ce ne occuperemo poscia”, rispose con
l’aria di chi sa cosa fare.
“Grazie ma dove siamo?”
“A Mentana”
“Ah bene quindi non siamo completamente
impazziti”
“No, non siete pazzi, e tenetelo bene a
mente”
Questa ultima affermazione ci fu
particolarmente utile per affrontare quello che ci aspettava.
2.
L’odore di cibo arrivò alle nostre
narici con la forza di un’onda gigante su un legno corsaro. Non indugiammo
oltre e ci incamminammo, con le poche energie rimaste, verso quel profumo
inconfondibile.
Non mangiavamo da giorni e tutto ciò che
volevamo era semplicemente un po’ di ristoro.
Un dedalo di straduzze non troppo
intricato per chi, come noi, ben conosceva le impervie vie di paesi e borghi
italiani ci portò davanti ad una magione, le finestre erano ampie, con vetri
enormi tutti d’un pezzo. La porta era aperta. Entrammo. C’era una tavola
imbandita con pietanze familiari eppure diverse dal solito, più semplici ed
elaborate al contempo.
Non ci curammo troppo della buona
creanza e mangiammo tutto ciò che riuscimmo ad ingurgitare. I nostri stomaci
parevano dilatarsi mentre spazzolavamo polli, salsicce, timballi e tracannavamo
del vino che, ne eravamo convinti, doveva venire dalla cantina di qualche
vescovo o cardinale.
Un vociare allegro ci ricordò che non
eravamo stati invitati a rifocillarci di tante leccornie e ci dileguammo
proseguendo nelle strade che si diramavano dalla grotta dove le mucche si erano
così gentilmente prese cura di noi.
Forse fu l’effetto del nettare degli
dei, forse la stanchezza, fatto sta che giungemmo alla foce
di uno splendido fiume sotterraneo illuminato dalla luna che finalmente
splendeva nel cielo e che potevamo scorgere da un foro posto sulle nostre
teste. Il soave scalpitio di una fonte sulfurea a pochi passi dal nostro
giaciglio di fortuna ci fece tornare alla mente il giorno della partenza da
Quarto, dopo aver ricordato quella gloriosa avventura ci addormentammo
senz’altro dire.
INS. CANZONE PARTENZA DA QUARTO
3.
“Yawn che sonno, mi sembra d’aver
dormito cent’anni”, dissi stiracchiandomi
“E a me sembra d’essermi addormentato
qualche minuto fa”, mi fece eco Achille Cantoni
“Certo che quel mangiare era proprio
buono”, ricordò Alcide Linari Bellini
“E il vino? Tuoni d’Amburgo che
nettare”, esclamò Odoardo Corazzini
“Ho fatto uno strano sogno: c’erano
delle mucche parlanti che ci facevano entrare in una grotta”, disse grattandosi
il mento Luigi Nicasi
“Ho fatto lo stesso sogno anch’io”,
confermò Romolo Fabri
“Ma forse non era un sogno”, osservò
meditabondo Demetrio Baini
Ci guardammo, eravamo pochi superstiti,
certi che ci fosse stata una qualche battaglia anche se non ricordavamo
benissimo e tutto sembrava confuso, immerso in una nebulosità onirica.
Ci parve, per qualche tempo che non
saprei definire con certezza visto e considerato ciò che accadde in seguito, di
esser naufragati dopo una tremenda tempesta in qualche isola sconosciuta.
Ben ricordavamo, però, di essere a pochi
chilometri da Roma e di aver messo a repentaglio le nostre vite e le nostre
anime ormai irrimediabilmente colpite dalla scomunica di Pio IX.
INS. CANZONE SCOMUNICA
4.
Non riuscivamo a capacitarci di come
delle mucche parlanti avessero potuto aprire la via di salvezza, ma ad un certo
punto due di noi, forse Romeo Animali e Romolo Angelucci o Giuseppe Ricciardi e
Ubaldo Ruspetti, un evento che era occorso poco prima della battaglia da cui,
ormai ne eravamo pressoché certi, ci eravamo salvati, ma che probabilmente
aveva avuto un esito non troppo positivo. Le nostre giubbe rosse si erano
distinte per coraggio e lealtà ma questa volta la mancanza di attrezzature era
stata fatale. Anche quei fucili francesi, gli chassepots, avevano certamente
fatto la loro parte pur se non avevano la precisione della fucileria belga, per
nostra fortuna. Comunque, zuavi e francesi si erano battuti con foga
e baldanza.
INS. TESTO SU MUCCHE E GARIBALDINI
5.
Il nostro rifugio era piuttosto
confortevole. Non lontano dalla confluenza di quattro fiumi, simili ad
impetuosi torrenti quando i giorni erano più lunghi e a placidi ruscelli
durante la stagione in cui le giornate avevano durata più breve, comunque
sempre piuttosto pescosi e ricchi di certe alghe squisite da mangiare in
insalata.
Vicino ad un boschetto di farnie vi era
una piccola radura che digradava fino ad un piccolo bacino di acqua sulfurea
calda e piuttosto frizzantina.
Bagnarsi in quelle pozze era un vero
piacere che toglieva fatiche, malanni, dolori e finanche raffreddori.
Frutteti e uliveti si estendevano sulle
colline d’attorno e con un po’ di alacrità si poteva approntare un orticello
con ciò che si riusciva a rimediare.
Avevamo talvolta la sensazione di essere
osservati ma, un po’ per pudore, un po’ per tema d’esser presi per pazzi, non
esprimevamo mai tale disagio. Se l’avessimo fatto forse oggi non racconterei
questa storia e le cose sarebbero andate molto diversamente.
In più di un’occasione avemmo
l’impressione che i nostri occhi avessero perso un po’ di quell’acutezza di
visione che in tante battaglie ci aveva salvati: il giorno non era mai
pienamente luminoso e la notte non riuscivamo quasi a scorgere le stelle, di
quando in quando la Via Lattea faceva capolino come da un enorme lucernaio
sulle nostre teste.
C’era anche un rudere che lì per lì non
destò la nostra attenzione, almeno fino al giorno in cui udimmo chiaramente una
voce provenire dai pressi o dall’interno di quelle vestigia di antichi
splendori.
INS. CRESCENZIO IL NOMENTANO
6.
La storia raccontata da quella voce ci
fece rabbrividire.
Giovanni Bovi Campeggi aveva letto da
qualche parte le vicende di Giovanni de’ Crescenzi, un nobile di antica stirpe
romana, forse in origine proveniente dall’Oriente, che veniva chiamato il
Nomentano per alcuni possedimenti nei pressi di Nomentum, indi Lamentana e oggi
Mentana.
“Mi incuriosì perché aveva il mio stesso
nome, anche se veniva chiamato Crescenzio. Se la memoria non m’inganna morì
appena due o tre anni prima dell’Anno Mille. Voleva restaurare la Repubblica
Romana”
“Un po’ come noi” intervenne Achille
Cantoni che non era secondo a nessuno per coraggio e aveva sempre una battuta
che sdrammatizzava anche le situazioni più cupe.
“Già, chissà magari anche in quell’epoca
c’era un Mazzini da qualche parte e se avesse vinto questo Crescenzio di cui
parli magari non avremmo mai dovuto combattere per la libertà” rispose ridendo
Odoardo Corazzini di dichiarata fede anticlericale. Le posizioni sue e della
sua famiglia erano molto simili a quelle di Nino Bixio, anche lui avrebbe, per
dirla con Mastai, ‘gettato il papa e tutti i cardinali nel Tevere’. Certo forse
quella dichiarazione era stata un po’ forte ma addirittura la scomunica ci era
sembrata eccessiva.
INS. CANZONE GIOVINE EUROPA
7.
Non facemmo in tempo a finire di
pronunciare le frasi di rito per iniziare la riunione degli adepti alla Giovine
Europa che udimmo distintamente le parole che tante volte ci avevano spronato
all’azione.
Oh, di certo non eravamo soli, c’era
qualcun altro in quell’ameno luogo ed era nelle nostre fila! Che
gaudio poter dire ‘arrivano i nostri!’
INS. O MIA BELLA GIGOGIN
8.
La sorpresa fu enorme.
Ci eravamo avvicinati disarmati e senza
timore ma non potemmo non notare che i ‘nostri’ parlottavano tra loro in
francese, la lingua, inequivocabilmente, del nemico. E allora perché cantavano
la nostra canzone?
“Salute a voi Garibaldini!”
“Salute”, risposi senza neanche
avvedermene
“Non temete, non abbiamo intenzione di
farvi del male”, aggiunse quello che poi si presentò col nome di Pascal Henry
“Non temiamo il nemico”
“Non siamo più nemici”, rispose un
altro, che poi scoprimmo essere il temibile capitano degli Zuavi pontifici
Veaux
“Oh che storia l’è questa?” si intromise
con veemenza il livornese Alcide Linari Bellini pronto a battersi a mani nude,
se necessario
“L’è la storia, con la s maiuscola e io,
non son più neanche conte ché i titoli nobiliari non son più validi. Mi
presento comunque: Conte Carlo Bernardini di Lucca”
“E che non ce stanno più li conti e li
nobbili ma che ce volete di’?”, chiese piuttosto diffidente Gaetano Tiburzi.
“Ciò che s’è detto. Io sarei il Conte
Ildebrando Pulvano Guelfi di Scansano ma al giorno di oggi si vive in una
Repubblica e bisogna adeguarsi ai tempi che corrono, anzi tutta l’Europa è
‘democratica’ e non ci sono più neanche le dogane e le frontiere, pare.”
Quest’ultima frase scatenò gli istinti
più biechi e retrivi: potevamo accettare finanche una sonora sconfitta ma di
esser presi in giro in quel modo non ci garbava punto.
Ci accorgemmo immantinente di essere in
molti contro pochissimi, prendemmo quei quattro reazionari e li portammo
accanto alla fonte di acqua solfurea, li avremmo torchiati per benino se non ci
fosse venuto alla mente il coraggio delle donne che avevano sempre combattuto
dalla nostra parte.
INS. CANZONE DONNE
9.
Li legammo come salami con ciò che
avevamo ma non ci avventammo contro di loro per onore: eravamo in troppi contro
pochi e noi di simili vigliaccate non ne facevamo. Il Generale era sempre stato
molto chiaro su questo punto.
Avremmo trovato il modo di farli parlare
ma mentre decidevamo sul da farsi Veaux, il temuto capo degli Zuavi, si
divincolò e scappò rintanandosi sulla chioma di un albero.
Da quella posizione ci apostrofò:
“Non ci credete e questo è normale ma
non fateci del male, non abbiamo possibilità di nuocervi e, d’altronde, non ne
avremmo neanche il motivo. Abbiate la pazienza di ascoltarmi e vi spiegherò
tutto quello che abbiamo capito finora.”
Gli lanciammo dapprima delle pigne e
qualunque oggetto contundente ci capitasse sotto mano ma Giuseppe Ricciardi ci
fermò.
“Ascoltiamo la storia che questo
reazionario ci vorrebbe raccontare, vediamo cosa inventerà”
I nostri animi erano bramosi di
battaglia ma sarebbe stato forse più saggio ascoltarlo per cui ci placammo.
“Vi ringrazio. Forse anche a voi è
capitato di entrare in questo luogo grazie ad una mandria di mucche parlanti,
beh, ecco è come se ci fossimo addormentati per un tempo molto molto lungo e
per un qualche motivo ci siamo trovati in quello che pensiamo essere un qualche
anno, non sapremmo ben dire quale, dopo il Duemila, insomma nel ventunesimo
secolo e, beh, avevate ragione voi a quanto pare. Ma il vostro Mazzini non era
riuscito ad immaginare tutto quello che sarebbe accaduto. L’Europa è in pace da
oltre mezzo secolo o giù di lì e Francia e Italia sono alleate. Il Papa vive in
Vaticano e al Quirinale c’è il Presidente della Repubblica. Esistono parlamenti
nazionali e, sembrerebbe, anche forme di governo europee e oltre. Non abbiamo
capito molto di più ma la fame sembra essere stata eradicata dal nostro
continente. Le donne votano e guidano strane carrozze senza cavalli e c’è luce
ovunque nelle case, anche di notte, e pure nelle strade. Ora che anche voi vi
siete svegliati l’unica cosa da fare, se per voi va bene, è cercare di comprendere quelle cose che ci sembrano davvero troppo assurde.”
Ci guardammo e decidemmo che uno di noi
l’avrebbe seguito. Mi capitò la ventura di essere quella persona.
10.
Ci addentrammo nella radura, io ero
guardingo, temendo che quello fosse soltanto un manipolo di nemici, gli altri
avrebbero potuto essere appostati chissà dove.
Una gatta dal pelo striato ci venne
incontro, dietro di lei ne arrivarono altre. Forse quelle bestiole avevano fame
ma non avevamo cibo con noi. Veaux le apostrofò come se avesse parlato a delle
persone, i felini parvero capire e ci fecero strada, circondandoci a loro modo.
Giungemmo così in un luogo splendido, tanto bello da far pensare ai giardini
pensili di Babilonia. Vi era un frutteto, fiori, uliveti e vigneti tenuti in
modo impeccabile, roseti e un orto in cui l'armonia delle forme era ben più che
funzionale. Mi evocò subito un simbolismo cui ero aduso e cui ero stato in
parte iniziato da una impavida Giardiniera.
Ci appropinquammo quasi in punta di
piedi, temendo in cuor nostro di disturbare cotanta perfezione di selvaggia
vita romantica. Le gatte affrettarono il passo udendo un richiamo a loro ben
noto. Io e Vieux ci interrogammo con lo sguardo e decidemmo di seguirle a
debita distanza.
Una donna, con lunghi capelli raccolti
in una treccia morbida, abiti e stivali di una foggia strana, inconfondibili
attrezzi da giardino stava sfamando i felini. Eravamo affamati, pensavamo che
le gatte ci stessero guidando verso un qualche luogo e così ci venne involontariamente
da ridere. Lei si accorse di noi, ci salutò affatto spaventata, riconobbe le
nostre uniformi.
"Salute"
"Buongiorno" balbettai
incredulo
"Bonjour" aggiunse senza
pensare il mio compagno di viaggio
"Uno zuavo e un garibaldino. Credo
che abbiate bisogno di cambiarvi d'abito se volete andare nel presente"
"Posso chiedere con chi ho l'onore
di parlare"
"Luisa Battistotti Sassi, credo che
il mio nome possa evocarle qualcosa"
Il mio volto si illuminò d'un sorriso
colmo di ammirazione. Oh se mi evocava qualcosa! La donna che con un sol colpo
sguarnì una pattuglia di soldati austriaci, che eresse barricate per la città
e, indomita fiera, comandò plotoni durante le Cinque Giornate milanesi.
Ricordare le sue gesta eroiche ci infondeva coraggio durante le giornate più
dure e anche Anita e il Generale ne parlavano sempre con un'ammirazione che
sarebbe stata degna del più valoroso guerriero.
"Non avevamo più sue notizie,
pensavamo fosse stata catturata o peggio, anche se ci erano giunte voci di una
sua presenza nelle Americhe. Il Generale ci ha parlato molto di lei"
"Addirittura, beh, mi lusinga,
comunque con quei vestiti non potrete certamente andare in giro oggidì.
Entrate, vi darò qualcosa di più adatto e un piatto di minestra"
Non ce lo facemmo ripetere due volte
anche se le domandai: "Ma allora è vero quello che ci ha raccontato Vieux,
che francesi e italiani sono ora amici?"
"Più che amici, più che alleati.
Sono nazioni, repubbliche indipendenti e democratiche all'interno dell'Unione
europea e dell'Organizzazione delle Nazioni unite. Mazzini non era poi così
visionario anche se c'è voluto un po' per capirlo. D'altronde l'Italia venne
immaginata sin dal Medioevo dai grandi della letteratura e del pensiero"
INS. CANZONE ARIOSTO E COMPAGNIA
11.
Non seppi resistere alla voglia di
chiedere delucidazioni, mi sembrava di essere in uno strano sogno e dovevo
continuamente darmi pizzicotti per accertarmi di esser desto.
“Se continuerà a trattare il suo braccio
come fosse un’arpa le cose non cambieranno di certo”, mi schernì la voce
inconfondibile di Anita. Era lei, ne ero più che certo. Una volta udito, quel
timbro rimaneva impresso nella memoria come segno di ferro e fuoco.
I miei occhi si inumidirono di emozione,
lei se ne avvide e mi si avvicinò. Per un attimo mi balenò l’idea di esser
morto ma una sonora pacca sulla spalla della nerboruta mano di Tonina Masanello
mi tolse ogni dubbio.
“No, caro amico, non siamo morti e la
cosa buffa è che pare che non abbiamo alcuna intenzione di lasciare questa vita
soltanto che per qualche strano caso del destino ci siamo ritrovati in un altro
secolo, anzi in un altro millennio e sembra che la storia ci abbia, in qualche
modo, dato ragione”.
“Me lo stava dicendo Vieux”
“Lei è Vieux? Il temibile capo degli
Zuavi? Che beffa dev’esser stata scoprire che stavate combattendo per la causa
sbagliata, nevvero? Mi presento, sono Jessie Jane Mario, anche nota col
soprannome di Uragano Jane”
“Per tutti i legni corsari, Hurricane Jane! Ma è proprio una rimpatriata e siete sicure che siamo desti e vivi?”
“Oh sì, non dovete preoccuparvi di
questo. Diciamo che le lancette dell’orologio si sono spostate un po’ più
velocemente di quanto abbiano fatto le nostre coscienze”
A queste parole mi venne in mente il Va’
pensiero, mi sembrò di ricordare le note, la melodia e le parole della
splendida aria del Nabucco di Giuseppe Verdi. Come avrei voluto avere ali per
comunicare coi miei compagni d’arme e d’avventura!
INSERIRE CANZONE SU GIUSEPPE VERDI
12-
“È dunque forse il caso di avvertire gli
altri garibaldini che stanno tenendo in ostaggio quel manipolo di francesi e
zuavi”. Espressi la mia preoccupazione senza neanche accorgermi di aver
profferito parola.
“Non c’è problema per questo, posso fare
una telefonata, sperando che i suoi amici lascino le mani libere ad uno di noi”
“Mi scusi ma non ho capito cosa vuol fare”
“Lo credo bene, non c’erano questi
aggeggi qualche anno fa”, mi rispose pensoso Vieux. In mio soccorso venne Luisa
Battistotti Sassi.
“Ricorderà che il Generale era andato
nelle Americhe, a Nuova York e lì aveva lavorato in una macelleria e poi in una
fabbrica di candele”
“Perbacco, certo, dopo il ’48, un italiano
lo aiutò, era un tipo un po’ strano, Garibaldi ne parlava talvolta e diceva di
lui che aveva tante idee, molto progressiste, come si chiamava?, Antonio, ecco
Antonio Meucci”
“Già proprio lui, beh. Non fu molto
fortunato ma inventò uno strano aggeggio che si chiama telefono. Il destino lo beffò
perché un americano, un tal Bell, registrò il brevetto della sua invenzione,
divenne ricchissimo mentre non si può dire lo stesso di Meucci.”
“Telefono?”
“Sì, telefono. È una specie di evoluzione
del telegrafo. Adesso sono state fatte molte migliorie ma insomma, il concetto
è che si può comunicare da un posto all’altro mediante degli utensili”
“Strabiliante. Proviamo”
Vieux estrasse dalla sua tasca uno di quegli strumenti, sembrava una piastrella luminosa, chiamò
Pascal Henry che riuscì evidentemente a rispondere con tutte le mani legate.
“Vieux sono in vivavoce, dimmi”
Si udì un gran fracasso e rumore di
strattoni.
“Fermi!” intimai senza capire se e come
potessero udire le mie parole.
“Che corbelleria l’è questa, non vi
vediamo ma udiamo le vostre voci”, sentii rispondere anche se non ebbi modo di distinguere
bene chi avesse parlato.
“È un telegrafo molto sofisticato e la
storia che ci hanno raccontato è vera. Potete lasciarli andare e farvi guidare
dove siamo”
Vieux riprese a parlare con Pascal.
“Siamo da Luisa Battistotti Sassi e amiche,
potete raggiungerci?”
“Vediamo che dicono. Potete slegarmi?”
“Slegateli” dissi io senza indugio
aggiungendo “e seguiteli senza timore. Siamo tra amici”
“Allora, intesi?”, chiese Vieux
“Sta bene” sentii rispondere dall’altra
parte.
Vieux toccò quell’aggeggio, segno che la
conversazione era conclusa. Dal mio sguardo capì che avrebbe dovuto darmi
qualche spiegazione.
Si rese conto che sarebbe stato troppo
complicato, pertanto me lo mostrò, cercando di mostrarmi il funzionamento.
Mentre cercavo di capir qualcosa, i
nostri arrivarono portando zuavi e francesi in ceppi. La loro meraviglia fu
enorme, forse ancor più della mia, quando videro e riconobbero le nostre
gentili ospiti.
Dopo i convenevoli di rito e qualche
spiegazione, zuavi e francesi vennero liberati e rifocillati.
“È ora di partire alla scoperta del
Ventunesimo secolo”, sentenziò Anita col suo piglio sicuro che tanto coraggio
aveva infuso durante le molte battaglie.
Guardai il promontorio da cui eravamo
giunti e non potei fare a meno di rileggere, nella mia mente, le splendide
frasi di Alessandro Manzoni.
INS. ADDIO AI MONTI
Dietro la grande quercia
INS. CANZONE SULLA BATTAGLIA DI MENTANA
La battaglia era conclusa, il fango si
era insinuato nella mia giubba, ne sentivo il sapore terrigno.
Mi mossi con circospezione, dovevo
essere svenuto, roteai gli occhi, cercai di capire se le ossa erano sane, mi
guardai dattorno e mi sembrò che la battaglia fosse finita.
Il generale era lì da qualche parte, la
confusione era stata enorme, vidi volti amici, ci salutammo con un cenno del
capo: eravamo stremati, intirizziti dal freddo e, mi duole ammetterlo,
impauriti.
Qualcosa di arcano era accaduto anche se
non avremmo saputo definirlo con certezza.
Il tramonto pallido diede adito
all’oscurità e dovemmo trovare un qualche riparo.
Ci trovavamo, ne eravamo quasi certi,
nei pressi di Vigna Santucci udimmo un contadino che parlava alle sue mucche
ricordando lo scampato pericolo. Non so chi ricordò di aver già sentito da
qualche parte quella voce e ci fece cenno di tacere e far piano: non avremmo
trovato un amico in lui.
D’altronde non era neanche da biasimare,
pover’uomo, ma quello non era il momento di rimembranze.
Ci acquattammo dietro qualche cespuglio
come avevamo appreso nelle spedizioni uruguaiane e rimanemmo immobili,
controllando il respiro così da non produrre il benché minimo rumore
indesiderato.
I piedi ci dolevano immensamente. Le
scarpe che attendevamo non erano arrivate e avevamo combattuto nella mota, tra
sassi ed erbacce con calzari rimediati di stoffa e qualche fascetta di cuoio.
C’era tra noi un ciociaro e ci aveva insegnato a costruire le ciocie, appunto,
ma erano tutte inzaccherate e il freddo stava ghiacciando l’acqua di cui era
ormai saturo il tessuto dove non c’era più neanche la minima traccia di quel
prezioso grasso che più di una volta ci aveva salvato la vita.
Il contadino non voleva saperne di
andare a riposare o a mangiare, continuava ad accarezzare le vacche mugghianti
di allegrezza o di paura per lo scampato pericolo.
Avevamo rallentato i battiti cardiaci
per cercare di risparmiare preziose energie vitali ma evitare di tremare e
battere i denti era piuttosto difficile.
Finalmente il contadino entrò nella sua
umile dimora e potemmo avvicinarci alle bestie che ci sorrisero e ci parlarono,
compostamente una alla volta, con voce chiara e cristallina. Lì per lì ci
meravigliammo ma quella era, al confronto di ciò che vedemmo dopo, soltanto un
dettaglio quasi insignificante.
“Buonasera garibaldini, vi aspettavamo”
Nessuno di noi ebbe il coraggio di
rispondere, temendo, più che altro, di essere in preda ad un delirio dovuto al
freddo o alla stanchezza.
“Non ci guardate con tanto stupore: vi
stavamo aspettando. Seguiteci, qui troverete riparo sicuro e noi potremo
tornare nel nostro mondo e nel nostro tempo, ché qui si vive proprio male”.
Ciò detto, si produssero in una specie
di danza simile al flamenco, battendo le zampe sul terreno con un ritmo
cadenzato, dopodiché emisero strani suoni che parevano campane e al contempo
versi gutturali, e si aprì una porta, come d’incanto.
Ci invitarono ad entrare, intirizziti
come eravamo non ce lo facemmo ripetere due volte. L’ambiente era pulito e
caldo e si poteva distinguere chiaramente un profumo di cibo, aromi di cui
avevamo dimenticato l’esistenza o meglio la ricordavamo nelle più rosee
fantasticherie.
“C’è qualcun altro oppure possiamo
chiudere la porta?”
“Veramente siamo soltanto noi, degli
altri non sappiamo molto”, risposi prendendo coraggio
“Ce ne occuperemo poscia”, rispose con
l’aria di chi sa cosa fare.
“Grazie ma dove siamo?”
“A Mentana”
“Ah bene quindi non siamo completamente
impazziti”
“No, non siete pazzi, e tenetelo bene a
mente”
Questa ultima affermazione ci fu
particolarmente utile per affrontare quello che ci aspettava.
2.
L’odore di cibo arrivò alle nostre
narici con la forza di un’onda gigante su un legno corsaro. Non indugiammo
oltre e ci incamminammo, con le poche energie rimaste, verso quel profumo
inconfondibile.
Non mangiavamo da giorni e tutto ciò che
volevamo era semplicemente un po’ di ristoro.
Un dedalo di straduzze non troppo
intricato per chi, come noi, ben conosceva le impervie vie di paesi e borghi
italiani ci portò davanti ad una magione, le finestre erano ampie, con vetri
enormi tutti d’un pezzo. La porta era aperta. Entrammo. C’era una tavola
imbandita con pietanze familiari eppure diverse dal solito, più semplici ed
elaborate al contempo.
Non ci curammo troppo della buona
creanza e mangiammo tutto ciò che riuscimmo ad ingurgitare. I nostri stomaci
parevano dilatarsi mentre spazzolavamo polli, salsicce, timballi e tracannavamo
del vino che, ne eravamo convinti, doveva venire dalla cantina di qualche
vescovo o cardinale.
Un vociare allegro ci ricordò che non
eravamo stati invitati a rifocillarci di tante leccornie e ci dileguammo
proseguendo nelle strade che si diramavano dalla grotta dove le mucche si erano
così gentilmente prese cura di noi.
Forse fu l’effetto del nettare degli
dei, forse la stanchezza, fatto sta che giungemmo alla foce
di uno splendido fiume sotterraneo illuminato dalla luna che finalmente
splendeva nel cielo e che potevamo scorgere da un foro posto sulle nostre
teste. Il soave scalpitio di una fonte sulfurea a pochi passi dal nostro
giaciglio di fortuna ci fece tornare alla mente il giorno della partenza da
Quarto, dopo aver ricordato quella gloriosa avventura ci addormentammo
senz’altro dire.
INS. CANZONE PARTENZA DA QUARTO
3.
“Yawn che sonno, mi sembra d’aver
dormito cent’anni”, dissi stiracchiandomi
“E a me sembra d’essermi addormentato
qualche minuto fa”, mi fece eco Achille Cantoni
“Certo che quel mangiare era proprio
buono”, ricordò Alcide Linari Bellini
“E il vino? Tuoni d’Amburgo che
nettare”, esclamò Odoardo Corazzini
“Ho fatto uno strano sogno: c’erano
delle mucche parlanti che ci facevano entrare in una grotta”, disse grattandosi
il mento Luigi Nicasi
“Ho fatto lo stesso sogno anch’io”,
confermò Romolo Fabri
“Ma forse non era un sogno”, osservò
meditabondo Demetrio Baini
Ci guardammo, eravamo pochi superstiti,
certi che ci fosse stata una qualche battaglia anche se non ricordavamo
benissimo e tutto sembrava confuso, immerso in una nebulosità onirica.
Ci parve, per qualche tempo che non
saprei definire con certezza visto e considerato ciò che accadde in seguito, di
esser naufragati dopo una tremenda tempesta in qualche isola sconosciuta.
Ben ricordavamo, però, di essere a pochi
chilometri da Roma e di aver messo a repentaglio le nostre vite e le nostre
anime ormai irrimediabilmente colpite dalla scomunica di Pio IX.
INS. CANZONE SCOMUNICA
4.
Non riuscivamo a capacitarci di come
delle mucche parlanti avessero potuto aprire la via di salvezza, ma ad un certo
punto due di noi, forse Romeo Animali e Romolo Angelucci o Giuseppe Ricciardi e
Ubaldo Ruspetti, un evento che era occorso poco prima della battaglia da cui,
ormai ne eravamo pressoché certi, ci eravamo salvati, ma che probabilmente
aveva avuto un esito non troppo positivo. Le nostre giubbe rosse si erano
distinte per coraggio e lealtà ma questa volta la mancanza di attrezzature era
stata fatale. Anche quei fucili francesi, gli chassepots, avevano certamente
fatto la loro parte pur se non avevano la precisione della fucileria belga, per
nostra fortuna. Comunque, zuavi e francesi si erano battuti con foga
e baldanza.
INS. TESTO SU MUCCHE E GARIBALDINI
5.
Il nostro rifugio era piuttosto
confortevole. Non lontano dalla confluenza di quattro fiumi, simili ad
impetuosi torrenti quando i giorni erano più lunghi e a placidi ruscelli
durante la stagione in cui le giornate avevano durata più breve, comunque
sempre piuttosto pescosi e ricchi di certe alghe squisite da mangiare in
insalata.
Vicino ad un boschetto di farnie vi era
una piccola radura che digradava fino ad un piccolo bacino di acqua sulfurea
calda e piuttosto frizzantina.
Bagnarsi in quelle pozze era un vero
piacere che toglieva fatiche, malanni, dolori e finanche raffreddori.
Frutteti e uliveti si estendevano sulle
colline d’attorno e con un po’ di alacrità si poteva approntare un orticello
con ciò che si riusciva a rimediare.
Avevamo talvolta la sensazione di essere
osservati ma, un po’ per pudore, un po’ per tema d’esser presi per pazzi, non
esprimevamo mai tale disagio. Se l’avessimo fatto forse oggi non racconterei
questa storia e le cose sarebbero andate molto diversamente.
In più di un’occasione avemmo
l’impressione che i nostri occhi avessero perso un po’ di quell’acutezza di
visione che in tante battaglie ci aveva salvati: il giorno non era mai
pienamente luminoso e la notte non riuscivamo quasi a scorgere le stelle, di
quando in quando la Via Lattea faceva capolino come da un enorme lucernaio
sulle nostre teste.
C’era anche un rudere che lì per lì non
destò la nostra attenzione, almeno fino al giorno in cui udimmo chiaramente una
voce provenire dai pressi o dall’interno di quelle vestigia di antichi
splendori.
INS. CRESCENZIO IL NOMENTANO
6.
La storia raccontata da quella voce ci
fece rabbrividire.
Giovanni Bovi Campeggi aveva letto da
qualche parte le vicende di Giovanni de’ Crescenzi, un nobile di antica stirpe
romana, forse in origine proveniente dall’Oriente, che veniva chiamato il
Nomentano per alcuni possedimenti nei pressi di Nomentum, indi Lamentana e oggi
Mentana.
“Mi incuriosì perché aveva il mio stesso
nome, anche se veniva chiamato Crescenzio. Se la memoria non m’inganna morì
appena due o tre anni prima dell’Anno Mille. Voleva restaurare la Repubblica
Romana”
“Un po’ come noi” intervenne Achille
Cantoni che non era secondo a nessuno per coraggio e aveva sempre una battuta
che sdrammatizzava anche le situazioni più cupe.
“Già, chissà magari anche in quell’epoca
c’era un Mazzini da qualche parte e se avesse vinto questo Crescenzio di cui
parli magari non avremmo mai dovuto combattere per la libertà” rispose ridendo
Odoardo Corazzini di dichiarata fede anticlericale. Le posizioni sue e della
sua famiglia erano molto simili a quelle di Nino Bixio, anche lui avrebbe, per
dirla con Mastai, ‘gettato il papa e tutti i cardinali nel Tevere’. Certo forse
quella dichiarazione era stata un po’ forte ma addirittura la scomunica ci era
sembrata eccessiva.
INS. CANZONE GIOVINE EUROPA
7.
Non facemmo in tempo a finire di
pronunciare le frasi di rito per iniziare la riunione degli adepti alla Giovine
Europa che udimmo distintamente le parole che tante volte ci avevano spronato
all’azione.
Oh, di certo non eravamo soli, c’era
qualcun altro in quell’ameno luogo ed era nelle nostre fila! Che
gaudio poter dire ‘arrivano i nostri!’
INS. O MIA BELLA GIGOGIN
8.
La sorpresa fu enorme.
Ci eravamo avvicinati disarmati e senza
timore ma non potemmo non notare che i ‘nostri’ parlottavano tra loro in
francese, la lingua, inequivocabilmente, del nemico. E allora perché cantavano
la nostra canzone?
“Salute a voi Garibaldini!”
“Salute”, risposi senza neanche
avvedermene
“Non temete, non abbiamo intenzione di
farvi del male”, aggiunse quello che poi si presentò col nome di Pascal Henry
“Non temiamo il nemico”
“Non siamo più nemici”, rispose un
altro, che poi scoprimmo essere il temibile capitano degli Zuavi pontifici
Veaux
“Oh che storia l’è questa?” si intromise
con veemenza il livornese Alcide Linari Bellini pronto a battersi a mani nude,
se necessario
“L’è la storia, con la s maiuscola e io,
non son più neanche conte ché i titoli nobiliari non son più validi. Mi
presento comunque: Conte Carlo Bernardini di Lucca”
“E che non ce stanno più li conti e li
nobbili ma che ce volete di’?”, chiese piuttosto diffidente Gaetano Tiburzi.
“Ciò che s’è detto. Io sarei il Conte
Ildebrando Pulvano Guelfi di Scansano ma al giorno di oggi si vive in una
Repubblica e bisogna adeguarsi ai tempi che corrono, anzi tutta l’Europa è
‘democratica’ e non ci sono più neanche le dogane e le frontiere, pare.”
Quest’ultima frase scatenò gli istinti
più biechi e retrivi: potevamo accettare finanche una sonora sconfitta ma di
esser presi in giro in quel modo non ci garbava punto.
Ci accorgemmo immantinente di essere in
molti contro pochissimi, prendemmo quei quattro reazionari e li portammo
accanto alla fonte di acqua solfurea, li avremmo torchiati per benino se non ci
fosse venuto alla mente il coraggio delle donne che avevano sempre combattuto
dalla nostra parte.
INS. CANZONE DONNE
9.
Li legammo come salami con ciò che
avevamo ma non ci avventammo contro di loro per onore: eravamo in troppi contro
pochi e noi di simili vigliaccate non ne facevamo. Il Generale era sempre stato
molto chiaro su questo punto.
Avremmo trovato il modo di farli parlare
ma mentre decidevamo sul da farsi Veaux, il temuto capo degli Zuavi, si
divincolò e scappò rintanandosi sulla chioma di un albero.
Da quella posizione ci apostrofò:
“Non ci credete e questo è normale ma
non fateci del male, non abbiamo possibilità di nuocervi e, d’altronde, non ne
avremmo neanche il motivo. Abbiate la pazienza di ascoltarmi e vi spiegherò
tutto quello che abbiamo capito finora.”
Gli lanciammo dapprima delle pigne e
qualunque oggetto contundente ci capitasse sotto mano ma Giuseppe Ricciardi ci
fermò.
“Ascoltiamo la storia che questo
reazionario ci vorrebbe raccontare, vediamo cosa inventerà”
I nostri animi erano bramosi di
battaglia ma sarebbe stato forse più saggio ascoltarlo per cui ci placammo.
“Vi ringrazio. Forse anche a voi è
capitato di entrare in questo luogo grazie ad una mandria di mucche parlanti,
beh, ecco è come se ci fossimo addormentati per un tempo molto molto lungo e
per un qualche motivo ci siamo trovati in quello che pensiamo essere un qualche
anno, non sapremmo ben dire quale, dopo il Duemila, insomma nel ventunesimo
secolo e, beh, avevate ragione voi a quanto pare. Ma il vostro Mazzini non era
riuscito ad immaginare tutto quello che sarebbe accaduto. L’Europa è in pace da
oltre mezzo secolo o giù di lì e Francia e Italia sono alleate. Il Papa vive in
Vaticano e al Quirinale c’è il Presidente della Repubblica. Esistono parlamenti
nazionali e, sembrerebbe, anche forme di governo europee e oltre. Non abbiamo
capito molto di più ma la fame sembra essere stata eradicata dal nostro
continente. Le donne votano e guidano strane carrozze senza cavalli e c’è luce
ovunque nelle case, anche di notte, e pure nelle strade. Ora che anche voi vi
siete svegliati l’unica cosa da fare, se per voi va bene, è cercare di comprendere quelle cose che ci sembrano davvero troppo assurde.”
Ci guardammo e decidemmo che uno di noi
l’avrebbe seguito. Mi capitò la ventura di essere quella persona.
10.
Ci addentrammo nella radura, io ero
guardingo, temendo che quello fosse soltanto un manipolo di nemici, gli altri
avrebbero potuto essere appostati chissà dove.
Una gatta dal pelo striato ci venne
incontro, dietro di lei ne arrivarono altre. Forse quelle bestiole avevano fame
ma non avevamo cibo con noi. Veaux le apostrofò come se avesse parlato a delle
persone, i felini parvero capire e ci fecero strada, circondandoci a loro modo.
Giungemmo così in un luogo splendido, tanto bello da far pensare ai giardini
pensili di Babilonia. Vi era un frutteto, fiori, uliveti e vigneti tenuti in
modo impeccabile, roseti e un orto in cui l'armonia delle forme era ben più che
funzionale. Mi evocò subito un simbolismo cui ero aduso e cui ero stato in
parte iniziato da una impavida Giardiniera.
Ci appropinquammo quasi in punta di
piedi, temendo in cuor nostro di disturbare cotanta perfezione di selvaggia
vita romantica. Le gatte affrettarono il passo udendo un richiamo a loro ben
noto. Io e Vieux ci interrogammo con lo sguardo e decidemmo di seguirle a
debita distanza.
Una donna, con lunghi capelli raccolti
in una treccia morbida, abiti e stivali di una foggia strana, inconfondibili
attrezzi da giardino stava sfamando i felini. Eravamo affamati, pensavamo che
le gatte ci stessero guidando verso un qualche luogo e così ci venne involontariamente
da ridere. Lei si accorse di noi, ci salutò affatto spaventata, riconobbe le
nostre uniformi.
"Salute"
"Buongiorno" balbettai
incredulo
"Bonjour" aggiunse senza
pensare il mio compagno di viaggio
"Uno zuavo e un garibaldino. Credo
che abbiate bisogno di cambiarvi d'abito se volete andare nel presente"
"Posso chiedere con chi ho l'onore
di parlare"
"Luisa Battistotti Sassi, credo che
il mio nome possa evocarle qualcosa"
Il mio volto si illuminò d'un sorriso
colmo di ammirazione. Oh se mi evocava qualcosa! La donna che con un sol colpo
sguarnì una pattuglia di soldati austriaci, che eresse barricate per la città
e, indomita fiera, comandò plotoni durante le Cinque Giornate milanesi.
Ricordare le sue gesta eroiche ci infondeva coraggio durante le giornate più
dure e anche Anita e il Generale ne parlavano sempre con un'ammirazione che
sarebbe stata degna del più valoroso guerriero.
"Non avevamo più sue notizie,
pensavamo fosse stata catturata o peggio, anche se ci erano giunte voci di una
sua presenza nelle Americhe. Il Generale ci ha parlato molto di lei"
"Addirittura, beh, mi lusinga,
comunque con quei vestiti non potrete certamente andare in giro oggidì.
Entrate, vi darò qualcosa di più adatto e un piatto di minestra"
Non ce lo facemmo ripetere due volte
anche se le domandai: "Ma allora è vero quello che ci ha raccontato Vieux,
che francesi e italiani sono ora amici?"
"Più che amici, più che alleati.
Sono nazioni, repubbliche indipendenti e democratiche all'interno dell'Unione
europea e dell'Organizzazione delle Nazioni unite. Mazzini non era poi così
visionario anche se c'è voluto un po' per capirlo. D'altronde l'Italia venne
immaginata sin dal Medioevo dai grandi della letteratura e del pensiero"
INS. CANZONE ARIOSTO E COMPAGNIA
11.
Non seppi resistere alla voglia di
chiedere delucidazioni, mi sembrava di essere in uno strano sogno e dovevo
continuamente darmi pizzicotti per accertarmi di esser desto.
“Se continuerà a trattare il suo braccio
come fosse un’arpa le cose non cambieranno di certo”, mi schernì la voce
inconfondibile di Anita. Era lei, ne ero più che certo. Una volta udito, quel
timbro rimaneva impresso nella memoria come segno di ferro e fuoco.
I miei occhi si inumidirono di emozione,
lei se ne avvide e mi si avvicinò. Per un attimo mi balenò l’idea di esser
morto ma una sonora pacca sulla spalla della nerboruta mano di Tonina Masanello
mi tolse ogni dubbio.
“No, caro amico, non siamo morti e la
cosa buffa è che pare che non abbiamo alcuna intenzione di lasciare questa vita
soltanto che per qualche strano caso del destino ci siamo ritrovati in un altro
secolo, anzi in un altro millennio e sembra che la storia ci abbia, in qualche
modo, dato ragione”.
“Me lo stava dicendo Vieux”
“Lei è Vieux? Il temibile capo degli
Zuavi? Che beffa dev’esser stata scoprire che stavate combattendo per la causa
sbagliata, nevvero? Mi presento, sono Jessie Jane Mario, anche nota col
soprannome di Uragano Jane”
“Per tutti i legni corsari, Hurricane Jane! Ma è proprio una rimpatriata e siete sicure che siamo desti e vivi?”
“Oh sì, non dovete preoccuparvi di
questo. Diciamo che le lancette dell’orologio si sono spostate un po’ più
velocemente di quanto abbiano fatto le nostre coscienze”
A queste parole mi venne in mente il Va’
pensiero, mi sembrò di ricordare le note, la melodia e le parole della
splendida aria del Nabucco di Giuseppe Verdi. Come avrei voluto avere ali per
comunicare coi miei compagni d’arme e d’avventura!
INSERIRE CANZONE SU GIUSEPPE VERDI
12-
“È dunque forse il caso di avvertire gli
altri garibaldini che stanno tenendo in ostaggio quel manipolo di francesi e
zuavi”. Espressi la mia preoccupazione senza neanche accorgermi di aver
profferito parola.
“Non c’è problema per questo, posso fare
una telefonata, sperando che i suoi amici lascino le mani libere ad uno di noi”
“Mi scusi ma non ho capito cosa vuol fare”
“Lo credo bene, non c’erano questi
aggeggi qualche anno fa”, mi rispose pensoso Vieux. In mio soccorso venne Luisa
Battistotti Sassi.
“Ricorderà che il Generale era andato
nelle Americhe, a Nuova York e lì aveva lavorato in una macelleria e poi in una
fabbrica di candele”
“Perbacco, certo, dopo il ’48, un italiano
lo aiutò, era un tipo un po’ strano, Garibaldi ne parlava talvolta e diceva di
lui che aveva tante idee, molto progressiste, come si chiamava?, Antonio, ecco
Antonio Meucci”
“Già proprio lui, beh. Non fu molto
fortunato ma inventò uno strano aggeggio che si chiama telefono. Il destino lo beffò
perché un americano, un tal Bell, registrò il brevetto della sua invenzione,
divenne ricchissimo mentre non si può dire lo stesso di Meucci.”
“Telefono?”
“Sì, telefono. È una specie di evoluzione
del telegrafo. Adesso sono state fatte molte migliorie ma insomma, il concetto
è che si può comunicare da un posto all’altro mediante degli utensili”
“Strabiliante. Proviamo”
Vieux estrasse dalla sua tasca uno di quegli strumenti, sembrava una piastrella luminosa, chiamò
Pascal Henry che riuscì evidentemente a rispondere con tutte le mani legate.
“Vieux sono in vivavoce, dimmi”
Si udì un gran fracasso e rumore di
strattoni.
“Fermi!” intimai senza capire se e come
potessero udire le mie parole.
“Che corbelleria l’è questa, non vi
vediamo ma udiamo le vostre voci”, sentii rispondere anche se non ebbi modo di distinguere
bene chi avesse parlato.
“È un telegrafo molto sofisticato e la
storia che ci hanno raccontato è vera. Potete lasciarli andare e farvi guidare
dove siamo”
Vieux riprese a parlare con Pascal.
“Siamo da Luisa Battistotti Sassi e amiche,
potete raggiungerci?”
“Vediamo che dicono. Potete slegarmi?”
“Slegateli” dissi io senza indugio
aggiungendo “e seguiteli senza timore. Siamo tra amici”
“Allora, intesi?”, chiese Vieux
“Sta bene” sentii rispondere dall’altra
parte.
Vieux toccò quell’aggeggio, segno che la
conversazione era conclusa. Dal mio sguardo capì che avrebbe dovuto darmi
qualche spiegazione.
Si rese conto che sarebbe stato troppo
complicato, pertanto me lo mostrò, cercando di mostrarmi il funzionamento.
Mentre cercavo di capir qualcosa, i
nostri arrivarono portando zuavi e francesi in ceppi. La loro meraviglia fu
enorme, forse ancor più della mia, quando videro e riconobbero le nostre
gentili ospiti.
Dopo i convenevoli di rito e qualche
spiegazione, zuavi e francesi vennero liberati e rifocillati.
“È ora di partire alla scoperta del
Ventunesimo secolo”, sentenziò Anita col suo piglio sicuro che tanto coraggio
aveva infuso durante le molte battaglie.
Guardai il promontorio da cui eravamo
giunti e non potei fare a meno di rileggere, nella mia mente, le splendide
frasi di Alessandro Manzoni.
INS. ADDIO AI MONTI
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