venerdì 25 maggio 2018

Dietro la grande quercia (bozza completa da 1 a 12)


Dietro la grande quercia

INS. CANZONE SULLA BATTAGLIA DI MENTANA

La battaglia era conclusa, il fango si era insinuato nella mia giubba, ne sentivo il sapore terrigno.

Mi mossi con circospezione, dovevo essere svenuto, roteai gli occhi, cercai di capire se le ossa erano sane, mi guardai dattorno e mi sembrò che la battaglia fosse finita.

Il generale era lì da qualche parte, la confusione era stata enorme, vidi volti amici, ci salutammo con un cenno del capo: eravamo stremati, intirizziti dal freddo e, mi duole ammetterlo, impauriti. 

Qualcosa di arcano era accaduto anche se non avremmo saputo definirlo con certezza.

Il tramonto pallido diede adito all’oscurità e dovemmo trovare un qualche riparo.

Ci trovavamo, ne eravamo quasi certi, nei pressi di Vigna Santucci udimmo un contadino che parlava alle sue mucche ricordando lo scampato pericolo. Non so chi ricordò di aver già sentito da qualche parte quella voce e ci fece cenno di tacere e far piano: non avremmo trovato un amico in lui.

D’altronde non era neanche da biasimare, pover’uomo, ma quello non era il momento di rimembranze.

Ci acquattammo dietro qualche cespuglio come avevamo appreso nelle spedizioni uruguaiane e rimanemmo immobili, controllando il respiro così da non produrre il benché minimo rumore indesiderato.

I piedi ci dolevano immensamente. Le scarpe che attendevamo non erano arrivate e avevamo combattuto nella mota, tra sassi ed erbacce con calzari rimediati di stoffa e qualche fascetta di cuoio. C’era tra noi un ciociaro e ci aveva insegnato a costruire le ciocie, appunto, ma erano tutte inzaccherate e il freddo stava ghiacciando l’acqua di cui era ormai saturo il tessuto dove non c’era più neanche la minima traccia di quel prezioso grasso che più di una volta ci aveva salvato la vita.

Il contadino non voleva saperne di andare a riposare o a mangiare, continuava ad accarezzare le vacche mugghianti di allegrezza o di paura per lo scampato pericolo.

Avevamo rallentato i battiti cardiaci per cercare di risparmiare preziose energie vitali ma evitare di tremare e battere i denti era piuttosto difficile.

Finalmente il contadino entrò nella sua umile dimora e potemmo avvicinarci alle bestie che ci sorrisero e ci parlarono, compostamente una alla volta, con voce chiara e cristallina. Lì per lì ci meravigliammo ma quella era, al confronto di ciò che vedemmo dopo, soltanto un dettaglio quasi insignificante.



“Buonasera garibaldini, vi aspettavamo”

Nessuno di noi ebbe il coraggio di rispondere, temendo, più che altro, di essere in preda ad un delirio dovuto al freddo o alla stanchezza.

“Non ci guardate con tanto stupore: vi stavamo aspettando. Seguiteci, qui troverete riparo sicuro e noi potremo tornare nel nostro mondo e nel nostro tempo, ché qui si vive proprio male”.

Ciò detto, si produssero in una specie di danza simile al flamenco, battendo le zampe sul terreno con un ritmo cadenzato, dopodiché emisero strani suoni che parevano campane e al contempo versi gutturali, e si aprì una porta, come d’incanto.

Ci invitarono ad entrare, intirizziti come eravamo non ce lo facemmo ripetere due volte. L’ambiente era pulito e caldo e si poteva distinguere chiaramente un profumo di cibo, aromi di cui avevamo dimenticato l’esistenza o meglio la ricordavamo nelle più rosee fantasticherie.

“C’è qualcun altro oppure possiamo chiudere la porta?”

“Veramente siamo soltanto noi, degli altri non sappiamo molto”, risposi prendendo coraggio

“Ce ne occuperemo poscia”, rispose con l’aria di chi sa cosa fare.

“Grazie ma dove siamo?”

“A Mentana”

“Ah bene quindi non siamo completamente impazziti”

“No, non siete pazzi, e tenetelo bene a mente”



Questa ultima affermazione ci fu particolarmente utile per affrontare quello che ci aspettava.





2.



L’odore di cibo arrivò alle nostre narici con la forza di un’onda gigante su un legno corsaro. Non indugiammo oltre e ci incamminammo, con le poche energie rimaste, verso quel profumo inconfondibile.

Non mangiavamo da giorni e tutto ciò che volevamo era semplicemente un po’ di ristoro.

Un dedalo di straduzze non troppo intricato per chi, come noi, ben conosceva le impervie vie di paesi e borghi italiani ci portò davanti ad una magione, le finestre erano ampie, con vetri enormi tutti d’un pezzo. La porta era aperta. Entrammo. C’era una tavola imbandita con pietanze familiari eppure diverse dal solito, più semplici ed elaborate al contempo.

Non ci curammo troppo della buona creanza e mangiammo tutto ciò che riuscimmo ad ingurgitare. I nostri stomaci parevano dilatarsi mentre spazzolavamo polli, salsicce, timballi e tracannavamo del vino che, ne eravamo convinti, doveva venire dalla cantina di qualche vescovo o cardinale.

Un vociare allegro ci ricordò che non eravamo stati invitati a rifocillarci di tante leccornie e ci dileguammo proseguendo nelle strade che si diramavano dalla grotta dove le mucche si erano così gentilmente prese cura di noi.

Forse fu l’effetto del nettare degli dei, forse la stanchezza, fatto sta che giungemmo alla foce di uno splendido fiume sotterraneo illuminato dalla luna che finalmente splendeva nel cielo e che potevamo scorgere da un foro posto sulle nostre teste. Il soave scalpitio di una fonte sulfurea a pochi passi dal nostro giaciglio di fortuna ci fece tornare alla mente il giorno della partenza da Quarto, dopo aver ricordato quella gloriosa avventura ci addormentammo senz’altro dire.

INS. CANZONE PARTENZA DA QUARTO
3.
“Yawn che sonno, mi sembra d’aver dormito cent’anni”, dissi stiracchiandomi
“E a me sembra d’essermi addormentato qualche minuto fa”, mi fece eco Achille Cantoni
“Certo che quel mangiare era proprio buono”, ricordò Alcide Linari Bellini
“E il vino? Tuoni d’Amburgo che nettare”, esclamò Odoardo Corazzini
“Ho fatto uno strano sogno: c’erano delle mucche parlanti che ci facevano entrare in una grotta”, disse grattandosi il mento Luigi Nicasi
“Ho fatto lo stesso sogno anch’io”, confermò Romolo Fabri
“Ma forse non era un sogno”, osservò meditabondo Demetrio Baini

Ci guardammo, eravamo pochi superstiti, certi che ci fosse stata una qualche battaglia anche se non ricordavamo benissimo e tutto sembrava confuso, immerso in una nebulosità onirica.

Ci parve, per qualche tempo che non saprei definire con certezza visto e considerato ciò che accadde in seguito, di esser naufragati dopo una tremenda tempesta in qualche isola sconosciuta.

Ben ricordavamo, però, di essere a pochi chilometri da Roma e di aver messo a repentaglio le nostre vite e le nostre anime ormai irrimediabilmente colpite dalla scomunica di Pio IX.



INS. CANZONE SCOMUNICA







4.

Non riuscivamo a capacitarci di come delle mucche parlanti avessero potuto aprire la via di salvezza, ma ad un certo punto due di noi, forse Romeo Animali e Romolo Angelucci o Giuseppe Ricciardi e Ubaldo Ruspetti, un evento che era occorso poco prima della battaglia da cui, ormai ne eravamo pressoché certi, ci eravamo salvati, ma che probabilmente aveva avuto un esito non troppo positivo. Le nostre giubbe rosse si erano distinte per coraggio e lealtà ma questa volta la mancanza di attrezzature era stata fatale. Anche quei fucili francesi, gli chassepots, avevano certamente fatto la loro parte pur se non avevano la precisione della fucileria belga, per nostra fortuna. Comunque, zuavi e francesi si erano battuti con foga e baldanza.


INS. TESTO SU MUCCHE E GARIBALDINI







5.

Il nostro rifugio era piuttosto confortevole. Non lontano dalla confluenza di quattro fiumi, simili ad impetuosi torrenti quando i giorni erano più lunghi e a placidi ruscelli durante la stagione in cui le giornate avevano durata più breve, comunque sempre piuttosto pescosi e ricchi di certe alghe squisite da mangiare in insalata.

Vicino ad un boschetto di farnie vi era una piccola radura che digradava fino ad un piccolo bacino di acqua sulfurea calda e piuttosto frizzantina.

Bagnarsi in quelle pozze era un vero piacere che toglieva fatiche, malanni, dolori e finanche raffreddori.

Frutteti e uliveti si estendevano sulle colline d’attorno e con un po’ di alacrità si poteva approntare un orticello con ciò che si riusciva a rimediare.

Avevamo talvolta la sensazione di essere osservati ma, un po’ per pudore, un po’ per tema d’esser presi per pazzi, non esprimevamo mai tale disagio. Se l’avessimo fatto forse oggi non racconterei questa storia e le cose sarebbero andate molto diversamente. 

In più di un’occasione avemmo l’impressione che i nostri occhi avessero perso un po’ di quell’acutezza di visione che in tante battaglie ci aveva salvati: il giorno non era mai pienamente luminoso e la notte non riuscivamo quasi a scorgere le stelle, di quando in quando la Via Lattea faceva capolino come da un enorme lucernaio sulle nostre teste.

C’era anche un rudere che lì per lì non destò la nostra attenzione, almeno fino al giorno in cui udimmo chiaramente una voce provenire dai pressi o dall’interno di quelle vestigia di antichi splendori.


INS. CRESCENZIO IL NOMENTANO



6.

La storia raccontata da quella voce ci fece rabbrividire.

Giovanni Bovi Campeggi aveva letto da qualche parte le vicende di Giovanni de’ Crescenzi, un nobile di antica stirpe romana, forse in origine proveniente dall’Oriente, che veniva chiamato il Nomentano per alcuni possedimenti nei pressi di Nomentum, indi Lamentana e oggi Mentana.

“Mi incuriosì perché aveva il mio stesso nome, anche se veniva chiamato Crescenzio. Se la memoria non m’inganna morì appena due o tre anni prima dell’Anno Mille. Voleva restaurare la Repubblica Romana”

“Un po’ come noi” intervenne Achille Cantoni che non era secondo a nessuno per coraggio e aveva sempre una battuta che sdrammatizzava anche le situazioni più cupe.

“Già, chissà magari anche in quell’epoca c’era un Mazzini da qualche parte e se avesse vinto questo Crescenzio di cui parli magari non avremmo mai dovuto combattere per la libertà” rispose ridendo Odoardo Corazzini di dichiarata fede anticlericale. Le posizioni sue e della sua famiglia erano molto simili a quelle di Nino Bixio, anche lui avrebbe, per dirla con Mastai, ‘gettato il papa e tutti i cardinali nel Tevere’. Certo forse quella dichiarazione era stata un po’ forte ma addirittura la scomunica ci era sembrata eccessiva.

INS. CANZONE GIOVINE EUROPA








7.

Non facemmo in tempo a finire di pronunciare le frasi di rito per iniziare la riunione degli adepti alla Giovine Europa che udimmo distintamente le parole che tante volte ci avevano spronato all’azione.

Oh, di certo non eravamo soli, c’era qualcun altro in quell’ameno luogo ed era  nelle nostre fila! Che gaudio poter dire ‘arrivano i nostri!’



INS. O MIA BELLA GIGOGIN








8.

La sorpresa fu enorme.
Ci eravamo avvicinati disarmati e senza timore ma non potemmo non notare che i ‘nostri’ parlottavano tra loro in francese, la lingua, inequivocabilmente, del nemico. E allora perché cantavano la nostra canzone?
“Salute a voi Garibaldini!”
“Salute”, risposi senza neanche avvedermene
“Non temete, non abbiamo intenzione di farvi del male”, aggiunse quello che poi si presentò col nome di Pascal Henry
“Non temiamo il nemico”
“Non siamo più nemici”, rispose un altro, che poi scoprimmo essere il temibile capitano degli Zuavi pontifici Veaux
“Oh che storia l’è questa?” si intromise con veemenza il livornese Alcide Linari Bellini pronto a battersi a mani nude, se necessario
“L’è la storia, con la s maiuscola e io, non son più neanche conte ché i titoli nobiliari non son più validi. Mi presento comunque: Conte Carlo Bernardini di Lucca”
“E che non ce stanno più li conti e li nobbili ma che ce volete di’?”, chiese piuttosto diffidente Gaetano Tiburzi.
“Ciò che s’è detto. Io sarei il Conte Ildebrando Pulvano Guelfi di Scansano ma al giorno di oggi si vive in una Repubblica e bisogna adeguarsi ai tempi che corrono, anzi tutta l’Europa è ‘democratica’ e non ci sono più neanche le dogane e le frontiere, pare.”
Quest’ultima frase scatenò gli istinti più biechi e retrivi: potevamo accettare finanche una sonora sconfitta ma di esser presi in giro in quel modo non ci garbava punto.
Ci accorgemmo immantinente di essere in molti contro pochissimi, prendemmo quei quattro reazionari e li portammo accanto alla fonte di acqua solfurea, li avremmo torchiati per benino se non ci fosse venuto alla mente il coraggio delle donne che avevano sempre combattuto dalla nostra parte.

INS. CANZONE DONNE
9.

Li legammo come salami con ciò che avevamo ma non ci avventammo contro di loro per onore: eravamo in troppi contro pochi e noi di simili vigliaccate non ne facevamo. Il Generale era sempre stato molto chiaro su questo punto.
Avremmo trovato il modo di farli parlare ma mentre decidevamo sul da farsi Veaux, il temuto capo degli Zuavi, si divincolò e scappò rintanandosi sulla chioma di un albero.
Da quella posizione ci apostrofò:
“Non ci credete e questo è normale ma non fateci del male, non abbiamo possibilità di nuocervi e, d’altronde, non ne avremmo neanche il motivo. Abbiate la pazienza di ascoltarmi e vi spiegherò tutto quello che abbiamo capito finora.”
Gli lanciammo dapprima delle pigne e qualunque oggetto contundente ci capitasse sotto mano ma Giuseppe Ricciardi ci fermò.
“Ascoltiamo la storia che questo reazionario ci vorrebbe raccontare, vediamo cosa inventerà”
I nostri animi erano bramosi di battaglia ma sarebbe stato forse più saggio ascoltarlo per cui ci placammo.
“Vi ringrazio. Forse anche a voi è capitato di entrare in questo luogo grazie ad una mandria di mucche parlanti, beh, ecco è come se ci fossimo addormentati per un tempo molto molto lungo e per un qualche motivo ci siamo trovati in quello che pensiamo essere un qualche anno, non sapremmo ben dire quale, dopo il Duemila, insomma nel ventunesimo secolo e, beh, avevate ragione voi a quanto pare. Ma il vostro Mazzini non era riuscito ad immaginare tutto quello che sarebbe accaduto. L’Europa è in pace da oltre mezzo secolo o giù di lì e Francia e Italia sono alleate. Il Papa vive in Vaticano e al Quirinale c’è il Presidente della Repubblica. Esistono parlamenti nazionali e, sembrerebbe, anche forme di governo europee e oltre. Non abbiamo capito molto di più ma la fame sembra essere stata eradicata dal nostro continente. Le donne votano e guidano strane carrozze senza cavalli e c’è luce ovunque nelle case, anche di notte, e pure nelle strade. Ora che anche voi vi siete svegliati l’unica cosa da fare, se per voi va bene, è cercare di comprendere quelle cose che ci sembrano davvero troppo assurde.”
Ci guardammo e decidemmo che uno di noi l’avrebbe seguito. Mi capitò la ventura di essere quella persona.




10.

Ci addentrammo nella radura, io ero guardingo, temendo che quello fosse soltanto un manipolo di nemici, gli altri avrebbero potuto essere appostati chissà dove.

Una gatta dal pelo striato ci venne incontro, dietro di lei ne arrivarono altre. Forse quelle bestiole avevano fame ma non avevamo cibo con noi. Veaux le apostrofò come se avesse parlato a delle persone, i felini parvero capire e ci fecero strada, circondandoci a loro modo. Giungemmo così in un luogo splendido, tanto bello da far pensare ai giardini pensili di Babilonia. Vi era un frutteto, fiori, uliveti e vigneti tenuti in modo impeccabile, roseti e un orto in cui l'armonia delle forme era ben più che funzionale. Mi evocò subito un simbolismo cui ero aduso e cui ero stato in parte iniziato da una impavida Giardiniera.

Ci appropinquammo quasi in punta di piedi, temendo in cuor nostro di disturbare cotanta perfezione di selvaggia vita romantica. Le gatte affrettarono il passo udendo un richiamo a loro ben noto. Io e Vieux ci interrogammo con lo sguardo e decidemmo di seguirle a debita distanza.

Una donna, con lunghi capelli raccolti in una treccia morbida, abiti e stivali di una foggia strana, inconfondibili attrezzi da giardino stava sfamando i felini. Eravamo affamati, pensavamo che le gatte ci stessero guidando verso un qualche luogo e così ci venne involontariamente da ridere. Lei si accorse di noi, ci salutò affatto spaventata, riconobbe le nostre uniformi.

"Salute"
"Buongiorno" balbettai incredulo
"Bonjour" aggiunse senza pensare il mio compagno di viaggio
"Uno zuavo e un garibaldino. Credo che abbiate bisogno di cambiarvi d'abito se volete andare nel presente"
"Posso chiedere con chi ho l'onore di parlare"
"Luisa Battistotti Sassi, credo che il mio nome possa evocarle qualcosa"

Il mio volto si illuminò d'un sorriso colmo di ammirazione. Oh se mi evocava qualcosa! La donna che con un sol colpo sguarnì una pattuglia di soldati austriaci, che eresse barricate per la città e, indomita fiera, comandò plotoni durante le Cinque Giornate milanesi. Ricordare le sue gesta eroiche ci infondeva coraggio durante le giornate più dure e anche Anita e il Generale ne parlavano sempre con un'ammirazione che sarebbe stata degna del più valoroso guerriero.

"Non avevamo più sue notizie, pensavamo fosse stata catturata o peggio, anche se ci erano giunte voci di una sua presenza nelle Americhe. Il Generale ci ha parlato molto di lei"
"Addirittura, beh, mi lusinga, comunque con quei vestiti non potrete certamente andare in giro oggidì. Entrate, vi darò qualcosa di più adatto e un piatto di minestra"

Non ce lo facemmo ripetere due volte anche se le domandai: "Ma allora è vero quello che ci ha raccontato Vieux, che francesi e italiani sono ora amici?"

"Più che amici, più che alleati. Sono nazioni, repubbliche indipendenti e democratiche all'interno dell'Unione europea e dell'Organizzazione delle Nazioni unite. Mazzini non era poi così visionario anche se c'è voluto un po' per capirlo. D'altronde l'Italia venne immaginata sin dal Medioevo dai grandi della letteratura e del pensiero"

INS. CANZONE ARIOSTO E COMPAGNIA



11.

Non seppi resistere alla voglia di chiedere delucidazioni, mi sembrava di essere in uno strano sogno e dovevo continuamente darmi pizzicotti per accertarmi di esser desto.

“Se continuerà a trattare il suo braccio come fosse un’arpa le cose non cambieranno di certo”, mi schernì la voce inconfondibile di Anita. Era lei, ne ero più che certo. Una volta udito, quel timbro rimaneva impresso nella memoria come segno di ferro e fuoco.
I miei occhi si inumidirono di emozione, lei se ne avvide e mi si avvicinò. Per un attimo mi balenò l’idea di esser morto ma una sonora pacca sulla spalla della nerboruta mano di Tonina Masanello mi tolse ogni dubbio.
“No, caro amico, non siamo morti e la cosa buffa è che pare che non abbiamo alcuna intenzione di lasciare questa vita soltanto che per qualche strano caso del destino ci siamo ritrovati in un altro secolo, anzi in un altro millennio e sembra che la storia ci abbia, in qualche modo, dato ragione”.
“Me lo stava dicendo Vieux”
“Lei è Vieux? Il temibile capo degli Zuavi? Che beffa dev’esser stata scoprire che stavate combattendo per la causa sbagliata, nevvero? Mi presento, sono Jessie Jane Mario, anche nota col soprannome di Uragano Jane”
“Per tutti i legni corsari, Hurricane Jane! Ma è proprio una rimpatriata e siete sicure che siamo desti e vivi?”
“Oh sì, non dovete preoccuparvi di questo. Diciamo che le lancette dell’orologio si sono spostate un po’ più velocemente di quanto abbiano fatto le nostre coscienze”
A queste parole mi venne in mente il Va’ pensiero, mi sembrò di ricordare le note, la melodia e le parole della splendida aria del Nabucco di Giuseppe Verdi. Come avrei voluto avere ali per comunicare coi miei compagni d’arme e d’avventura!

INSERIRE CANZONE SU GIUSEPPE VERDI



12-

“È dunque forse il caso di avvertire gli altri garibaldini che stanno tenendo in ostaggio quel manipolo di francesi e zuavi”. Espressi la mia preoccupazione senza neanche accorgermi di aver profferito parola.

“Non c’è problema per questo, posso fare una telefonata, sperando che i suoi amici lascino le mani libere ad uno di noi”
“Mi scusi ma non ho capito cosa vuol fare”
“Lo credo bene, non c’erano questi aggeggi qualche anno fa”, mi rispose pensoso Vieux. In mio soccorso venne Luisa Battistotti Sassi.
“Ricorderà che il Generale era andato nelle Americhe, a Nuova York e lì aveva lavorato in una macelleria e poi in una fabbrica di candele”
“Perbacco, certo, dopo il ’48, un italiano lo aiutò, era un tipo un po’ strano, Garibaldi ne parlava talvolta e diceva di lui che aveva tante idee, molto progressiste, come si chiamava?, Antonio, ecco Antonio Meucci”
“Già proprio lui, beh. Non fu molto fortunato ma inventò uno strano aggeggio che si chiama telefono. Il destino lo beffò perché un americano, un tal Bell, registrò il brevetto della sua invenzione, divenne ricchissimo mentre non si può dire lo stesso di Meucci.”
“Telefono?”
“Sì, telefono. È una specie di evoluzione del telegrafo. Adesso sono state fatte molte migliorie ma insomma, il concetto è che si può comunicare da un posto all’altro mediante degli utensili”
“Strabiliante. Proviamo”
 Vieux estrasse dalla sua tasca uno di quegli strumenti, sembrava una piastrella luminosa, chiamò Pascal Henry che riuscì evidentemente a rispondere con tutte le mani legate.
“Vieux sono in vivavoce, dimmi”
Si udì un gran fracasso e rumore di strattoni.
“Fermi!” intimai senza capire se e come potessero udire le mie parole.
“Che corbelleria l’è questa, non vi vediamo ma udiamo le vostre voci”, sentii rispondere anche se non ebbi modo di distinguere bene chi avesse parlato.
“È un telegrafo molto sofisticato e la storia che ci hanno raccontato è vera. Potete lasciarli andare e farvi guidare dove siamo”
Vieux riprese a parlare con Pascal.
“Siamo da Luisa Battistotti Sassi e amiche, potete raggiungerci?”
“Vediamo che dicono. Potete slegarmi?”
“Slegateli” dissi io senza indugio aggiungendo “e seguiteli senza timore. Siamo tra amici”
“Allora, intesi?”, chiese Vieux
“Sta bene” sentii rispondere dall’altra parte.
Vieux toccò quell’aggeggio, segno che la conversazione era conclusa. Dal mio sguardo capì che avrebbe dovuto darmi qualche spiegazione.
Si rese conto che sarebbe stato troppo complicato, pertanto me lo mostrò, cercando di mostrarmi il funzionamento.
Mentre cercavo di capir qualcosa, i nostri arrivarono portando zuavi e francesi in ceppi. La loro meraviglia fu enorme, forse ancor più della mia, quando videro e riconobbero le nostre gentili ospiti.
Dopo i convenevoli di rito e qualche spiegazione, zuavi e francesi vennero liberati e rifocillati.
“È ora di partire alla scoperta del Ventunesimo secolo”, sentenziò Anita col suo piglio sicuro che tanto coraggio aveva infuso durante le molte battaglie.
Guardai il promontorio da cui eravamo giunti e non potei fare a meno di rileggere, nella mia mente, le splendide frasi di Alessandro Manzoni.

INS. ADDIO AI MONTI


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