venerdì 6 gennaio 2017

Cesi e Tucci

Cesi e Tucci (bozza)

A San Polo dei Cavalieri faceva freddo. Dalla finestra del castello si intravedeva una nuvola discontinua in un dialogo tutto personale con le montagne tale da dare l’impressione di essere in Tibet, sul tetto del mondo.
Federico Angelo Cesi, Duca di Acquasparta, Marchese di Monticelli, Principe di Sant’Angelo e, per l'appunto, San Polo guardò l’orizzonte, i suoi giovani occhi di lince vennero attraversati da un guizzo, un lampo di conoscenza atavica, qualcosa che non sapeva e non avrebbe potuto spiegare.
Gli sembrava di riconoscere il complesso dell’Himalaya seppure non l’avesse mai veduto e forse non ne avesse mai sentito neanche parlare, d’altronde nei primi anni del 1600 scienza e conoscenza erano guardati con un certo sospetto e lui ben lo sapeva. Suo padre continuava a ripetergli preoccupato: “Figlio, figlio mio, vai alla guerra che è cosa nobile e giusta, non t’occupare di scienze ché è pericoloso, lo sai bene. Le armi portano onore e gloria, la scienza, oh la scienza è perigliosa”.
Dal suo punto di vista Federico I Cesi non aveva torto, era certamente più sicuro imparare ad usare la spada piuttosto che andare in giro a cercare e catalogare piante o, peggio, intrufolarsi nelle questioni di scienza, ma il giovane Cesi sentiva in cuor suo che quello era il suo destino. La madre Olimpia Orsini era donna di grande valore ma era tra i suoi monti che aveva trovato l’ispirazione per capire, comprendere, guardare con occhi attenti e curiosi.
Federico era molto coraggioso, forse troppo, e ad una relativamente tranquilla vita da cavaliere o da nobile sfaccendato aveva preferito la via della ricerca, irta di difficoltà e piena di trappole pronte a portare il malcapitato dritto dritto tra le maglie inflessibili della Santa Inquisizione. Morire in battaglia, gli ripeteva suo padre, è decoroso e onorevole ma, tralasciava di esprimere il suo pensiero fino a tal punto facendolo però comprendere con un gesto e lo sguardo pieno di orrore e paura, perire per le torture inflitte da Santa Madre Chiesa e senza neanche i sacramenti è….indicibile.
Lo sapeva, avrebbe voluto rispondergli, ma non poteva farci niente, c’era qualcosa che lo trascinava a forza verso la conoscenza. Queste parole non le avrebbe davvero potute pronunciare senza causare la chiamata di un esorcista e quindi le teneva ben celate nel suo cuore. Era certo che non si trattasse di un richiamo mefistofelico, era anzi qualcosa di buono, di sano, di bello, che lo scoteva di rinnovato vigore e curiosità tutte le volte che incontrava menti eccelse, come quella di Galileo Galilei, che era riuscito a coinvolgere nella meravigliosa avventura dell’Accademia de’ Lincei e che avrebbe più e più volte protetto, a rischio della sua stessa incolumità, dal morboso interesse dell’Inquisizione.
Se Dio ha creato la Natura e l’uomo è in grado di capirne la bellezza, è dovere dell’uomo conoscere per meglio avvicinarsi al mistero divino, il contrario sarebbe un’offesa alla magnificenza stessa della santissima volontà del Creatore, pensava in cuor suo.
Quello che diceva era giusto ma causava lo stesso grandi preoccupazioni a suo padre che pure amava quel figlio spericolato e tanto intelligente. Sembrava che avesse compreso qualcosa che agli altri esseri umani è oscuro, niente di diabolico bensì santo e sacro.
Sembrava quasi fosse colto da estasi mistica quando osservava, leggeva o scopriva qualcosa di nuovo, era evidente che non sarebbe stato possibile impedirgli di percorrere la sua strada. Voleva studiare, conoscere nonostante sapesse bene quali erano i rischi enormi cui andava incontro? E sia, che studiasse ma che si ricordasse di salvare l’onore, la rispettabilità e soprattutto la vita. Bello era bello, con la fronte alta, il naso perfetto, i grandi occhi scuri vivacissimi, astri splendenti nel cielo più scuro delle notti senza luna.
Quella stessa luna che il pisano Galileo s’era messo ad osservare con un aggeggio mirabile di sua invenzione che ingrandiva gli oggetti fino a farli sembrare vicini pur se erano lontani, pareva un tubo ma aveva del vetro lavorato in modo peculiarissimo alle estremità e ci si poteva guardar dentro e vedere tutto come fosse ingigantito. Utile in guerra, senza dubbio, o per le traversate commerciali del Mar Mediterraneo le cui acque erano non di rado infestate da pirati e nemici d’ogni sorta eppure egli ci si era industriato ad osservar gli astri e si mormorava che volesse affermare addirittura che la Terra gira intorno al Sole, che assurdità! Quale blasfemia! E poi non sapeva che già prima di lui tali diavolerie erano state ricacciate nel mondo di Lucifero dalle solerti mani e dai convincenti strumenti di tortura dell’Inquisizione?
Beh, quando parlava quel tal Galileo Galilei pareva certamente un erudito e sembrava conoscere la sua materia, gli studi e le scoperte in giro per il mondo. D’altronde era tenuto in buona considerazione presso molti nobili e sapienti ma le voci che fosse in odor di eresia avevano l’inconfondibile aroma dello zolfo infernale e lui, Federico, era affascinato dalle sue parole come un cavaliere dal ricordo di una dama che attende soltanto di poterlo rivedere e accogliere nell’alcova. E invece lui, ai piaceri delle carni gaudenti di dame e madonne, preferiva il talamo matrimoniale e andar per prati a cercare piante da catalogare, studiare, disegnare, stelle da osservare lungamente.
Talvolta, come quel giorno, aveva l'impressione di poter parlare con gli angeli del Paradiso. Il corpo gli veniva percorso da brividi non di freddo bensì di piacere, egli stesso sembrava quasi emanare una luce propria e lo sguardo ardente si placava per qualche istante che pareva eterno a chi ben lo conosceva come se avesse compreso qualcosa che era impossibile spiegare a parole.
Federico Angelo Cesi, Duca di Acquasparta, Marchese di Monticelli, Principe di Sant’Angelo e San Polo guardò l’orizzonte, riconobbe l’Himalaya senza aver saputo della sua esistenza, capì che lui avrebbe dovuto conoscere e proteggere la conoscenza dall’oscurantismo di una fede errata. Ne ebbe la consapevolezza, quindi si girò e tornò a letto per sognare qualcosa che si sarebbe compreso molti, moltissimi anni dopo.


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A San Polo dei Cavalieri faceva freddo. Dalla finestra si intravedeva una nuvola discontinua in un dialogo tutto personale con le montagne tale da dare l’impressione di essere sul tetto del mondo.
Giuseppe Tucci lo conosceva bene, quante volte ci era stato!, giusto in tempo per raccogliere la sapienza, la scienza e la conoscenza racchiusa in codici ormai dispersi del millenario sapere dei monaci e di popolazioni abituate al gelo, non certo come lui, che l’aveva sempre sopportato bene ma non ci si era mai veramente abituato.
Si era svegliato da un sogno antico, pensando a Federico Cesi, il Linceo, e aveva capito che il momento era propizio per pianificare l'ennesima spedizione tra le terre perennemente ghiacciate per salvare gli ultimi frammenti delle conoscenze millenarie custodite nei monasteri tibetani.  
Svolse i suoi esercizi, respirò profondamente e uscì nell'aria fredda del mattino con la determinazione di ottenere tutto ciò che sarebbe servito per questa nuova perigliosa avventura.  






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